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L'enigma del pollice: Crimini incrociati con vista sul Monviso
L'enigma del pollice: Crimini incrociati con vista sul Monviso
L'enigma del pollice: Crimini incrociati con vista sul Monviso
Ebook329 pages

L'enigma del pollice: Crimini incrociati con vista sul Monviso

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About this ebook

Chi se ne frega se una puttana nera scompare. A chi può importare se poi sparisce anche un bracciante macedone, dalle parti di Pinerolo?
Storie senza significato... Ma non per Angela, che vuole vederci chiaro. Così, lei e il Cardo partono per la campagna alla ricerca di indizi. Sotto la pioggia o con il sole, di notte o di giorno, con il Monviso sullo sfondo, con l’ingenuità dei dilettanti, vanno incontro a guai grossi… Ma Ribò non può aiutarli, questa volta, perché è in ospedale, perché c’è di mezzo una bambina rapita in piazza Solferino, perché non può abbandonare il medico che lo ha operato…
E soprattutto per quale folle ragione c’è un pollice, un pollice umano, al centro di tutto?
La nuova avventura del Cardo e di Ribò si svolge così lungo un doppio intreccio criminale, tra Torino e Pinerolo, che ora avvicina e ora allontana i due protagonisti, in una sequenza di colpi di scena e di esplorazioni che lasciano senza respiro.
LanguageItaliano
Release dateJul 25, 2012
ISBN9788875637606
L'enigma del pollice: Crimini incrociati con vista sul Monviso

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    L'enigma del pollice - Tallone Massimo

    1

    Metto il Baygon sotto le ascelle e vado

    Mi spruzzo un po’ di Baygon sotto le ascelle e sono pronto.

    Non sapevo che usassi il deodorante dice Angela.

    Deodorante? le chiedo, spalancando gli occhi.

    Sì, non credevo che tu usassi queste cose fa lei.

    Sei diventata scema, Angela? Ma se nemmeno mi lavo, io.

    Appunto sentenzia lei non ti lavi e quindi metti il deodorante per puzzare di meno. Logico, no?.

    No, non ci siamo, Angela borbotto, mentre deposito la bomboletta di Baygon nel lavandino dove tengo i pennelli per i trompe-l’oeil, forse non sai più chi sono... Quello non è deodorante, è Baygon, l’insetticida. Ti sembro il tipo che si mette il deodorante, io? Proprio tu che mi parli di logica? Ma insomma. Abito da anni in questa cascina abbandonata, qui a Stupinigi; dormo su quel materasso gettato su un pallet trovato in discarica; mi vesto di cenci fregati nei cassonetti della carità; se ho una banconota qualsiasi ti cerco per una sveltina; e per di più bevo come un vichingo, con il doppio rivolo alla bocca. E tu mi parli di deodorante? Non ti riconosco più. Aldo deve averti menato, stamattina. Hai fatto pochi soldi, stanotte?.

    Ehi, calma, bamboccio. Frena, frena si inalbera lei, allacciandosi la gonna di gomma nera, più corta di un cerotto, e puntando i pugni sui fianchi. Primo, Aldo non mi mena mai, se no lo butto nel Sangone in un minuto; secondo, stanotte ho lavorato come sempre. E poi, per me, ti puoi mettere quello che vuoi, sotto le ascelle, che mi frega?.

    Metto il Baygon perché sento roba muoversi, lì, sotto le ascelle, nell’umido, insetti, alghe, non so. Tu che faresti al mio posto? Lo metto anche nelle mutande, quando sento roba muoversi, dato che non mi lavo. E poi, se mi lavassi, cancellerei i numeri di telefono che mi sono trascritto su braccia e gambe con il pennarello. Mica ho l’agenda, io.

    Sei un cretino, Cardo, dice Angela senza quasi ascoltare, ma adesso andiamo; hai promesso che mi avresti accompagnato laggiù, vicino a Buriasco, in cambio. E adesso devi mantenere.

    Non so dove vuole portarmi Angela, ma salgo con lei sulla sua Panda nera. Forse me lo ha detto... Sì, mi sembra di ricordare che stanotte, mentre rientravo dopo avere scolato metà delle scorte della bocciofila di Stupinigi, Angela mi ha detto qualcosa prima di appartarsi con un cliente, e credo anche di aver risposto... Ma vai a ricordare. Comunque, lei stamattina è entrata nel cortile della cascina, ha spalancato il battente sempre aperto del mio tugurio e mentre dormivo nudo sul pallet mi ha preso a calci nelle costole con quelle sue scarpe che hanno un metro di punta, dicendo che eravamo d’accordo che l’avrei accompagnata sa solo lei dove. Io ho bofonchiato, nel sonno, che c’era un accordo, che in cambio lei doveva darmi il buongiorno alla maniera mia. Lei ha subito eseguito, mani e bocca e tutto il resto del repertorio che maneggia così bene, e adesso eccomi qua, ottenebrato dal vino, come sempre; annebbiato per naturale indolenza e stupidità; appannato nei gesti e lento di testa. Ma felice. Di una felicità inorganica, certo, o forse vegetale, nulla più, ma sempre felicità. Già, perché da tempo ho capito che bisogna stare alla larga dagli umani e dai sogni, per godersela davvero. Perciò mi sono rifugiato nella cascina abbandonata di Stupinigi, dove non ci sono legami con i vigili, con l’anagrafe, con le bollette, con i doveri... E vivo della pura e primaria gioia dei sensi, senza volere nulla, senza desiderare nulla, senza chiedere nulla al mondo se non un colpetto ogni tanto con Angela e il paio di pintoni quotidiani scolati alla bocciofila con Aldo e con qualche altro pappone del borgo. Insomma, mi accontento della putrida e umida e sana vita del lombrico sotto la pietra.

    Sì, è vero, per qualche strana ragione i miei occhi registrano tutto, sicché copiare un disegno o un quadro mi riesce facile come pisciare, e perciò ogni tanto faccio un trompe-l’oeil su una parete, a casa di qualcuno che ha saputo di questa mia involontaria competenza. E con i soldi pago Angela e il vino. Tutto lì, ma nessuno può dire che si tratti di un lavoro. Del resto, fu proprio a causa di un trompe-l’oeil che conobbi Ribò, che adesso non lavora più in polizia, alla Scientifica... Mi avevano fermato, come sempre, ma uno dei due, a differenza del suo collega che voleva arrestarmi solo perché ero sporco e puzzavo di vino, dopo aver capito che ero innocuo come uno scarabeo stercorario, mi chiese qualcosa sul mio lavoro e io gli dissi che ero un esecutore di trompe-l’oeil, tanto per darmi un tono ai suoi occhi. E allora, forse per mettermi alla prova, chiamò al telefono un suo collega della Scientifica, Ribò, appunto, il quale mi propose di dipingergli un camaleonte su una parete di casa sua, proprio sopra una cornice. E così diventammo amici. O meglio, conoscenti, perché lui, Ribò, non sa definire la parola amici e allora non la usa.

    Quindi, da buon lombrico, non chiedo niente ad Angela e mi acciambello sul sedile, mentre la Panda prende la strada per Pinerolo. Angela, che oltre a mantenere in vita i suoi sogni (vorrebbe un marito e una bella casa, ma si può?) non è indifferente come me alla natura e ai paesaggi, comincia subito a scassarmi la chincaglieria alzando un inno al colore quasi azzurro delle montagne, là in fondo, poi si lancia in avanti intonando un’ode alla luce di settembre, che secondo lei è la più bella, perché il sole, ancora limpido ma già radente, rende tutto nitido, specie in giornate come questa, con il vento da nord che toglie l’umidità... Io sento e non sento, me ne frego del paesaggio e mi crogiolo nel mio ambiente naturale, il nulla. Ma per pura cortesia provo a dire qualcosa.

    Come fai a sapere dov’è il nord? chiedo.

    Lascia stare, Cardo fa lei parlavo da sola.

    Allora dormo un pochino concludo, rasserenato dall’esonero alla conversazione.

    No dice Angela non puoi dormire. Voglio spiegarti tutto. Ti ricordi di Isoke?.

    Minchia, se mi ricordo urlo, ridestato dalla visione di quella superba mignotta, la nigeriana! Sontuosa, magnifica, con quel culo che sembrava scolpito nella roccia... Non la vedo da un po’. Dov’è sparita?.

    Ecco dice Angela è proprio questo il punto: è sparita.

    Ma non batteva lì vicino a noi, dietro la Palazzina di Caccia di Stupinigi?.

    Ha lavorato lì per un poco. Ma a Stupinigi c’è l’inflazione di puttane, ormai, e si lavora poco e male. Allora ha deciso di spostarsi in provincia. Tra Buriasco e Cercenasco, vicino a Pinerolo, c’è una strada secondaria, tranquilla, silenziosa, ma c’è un bel passaggio di macchine, e c’è un sentierino che si avvia in un bosco ceduo, comodo per stare in disparte....

    Un bosco cedro? Che vuol dire?.

    Ho detto ceduo, cretino. Vuol dire un bosco piantato apposta per essere tagliato anni dopo. Ne avrai visti mille, di quei boschi poco fitti, con gli alberi ben distanziati fra loro, pioppi in genere, tutti ben in linea, con poco sottobosco....

    Sì, sì, ho capito farfuglio.

    Bene, Isoke è andata a lavorare lì e io ogni tanto sono andata a farle compagnia per vedere che tutto fosse a posto... Sai, la zona è comunque isolata.

    E il suo boss?.

    Lui è uno serio, le lascia il guinzaglio lungo. Va e viene tra Torino e Buriasco, ma non sta sempre lì. Ha anche altre ragazze da seguire.

    Bene, e adesso salta fuori che Isoke è sparita deduco.

    Già, sono giorni che non si fa viva con me. Non è da lei. Ci sentivamo ogni giorno. E io sono preoccupata.

    Figurati io, bercio un culo come quello... Perderlo di vista... No, no, dobbiamo cercarla, per forza.

    2

    L’attesa

    In piedi, con le braccia incrociate sul petto, Ribò guarda oltre la porta a vetri, scruta la massa verde della collina. Al suo fianco, appesa a un trespolo di ferro, pende una sacca di sangue collegata a un tubo che si infila poco sotto la sua spalla destra, nella vena succlavia. Il sole sfiora la sacca di sangue rendendola quasi color rubino. Da tre giorni Ribò è lì, in collina, nella clinica Villa Maria Pia, in attesa di essere operato per un cancro al colon. Questa è la sua quarta trasfusione.

    Bisogna accettare ciò che non si può rifiutare, ha detto Ribò, rivolto a Raffaella, prima di entrare in clinica.

    Non puoi accettare una cosa simile ha risposto Raffaella, in lacrime.

    E invece sì ha mormorato Ribò si può e si deve. E accettare non vuol dire sopportare, tollerare di malavoglia, stringere i denti, perché queste sarebbero soltanto forme impotenti del rifiuto. No, accettare significa andare incontro alla cosa con viva curiosità, con interesse tecnico, con il desiderio di conoscere aspetti di sé che si ignorano, con la volontà di affrontare l’incubo come una iniziazione che spaventa l’immaginazione ma allarga la mente e l’esperienza.

    Ma non è umana, una simile cosa, Ribò, ha detto Raffaella è tremendo... Tu pensi di esserne capace?.

    No, non credo ha risposto Ribò.

    Il sangue scende a goccia a goccia nelle vene di Ribò.

    Una cimice verde cammina lenta, con la sua forma a scudo, sul terrazzo. Ribò la segue con lo sguardo e fa sua l’idea di scudo e di guerra che la cimice evoca.

    Un samurai, dice Ribò, ad alta voce, da solo nella stanza, devo essere un samurai. Devo diventare un samurai capace di gettarsi nella battaglia senza timore di perdere la vita, pur di difendere il suo padrone. E io sarò samurai di me stesso. Mi getterò nella battaglia, mi lascerò fare a pezzi, purché nessuno tocchi o sfiori la mia mente. La mia mente resterà lucida, fredda e distante, piena e luminosa, mentre sarà il mio corpo ad andare in guerra per proteggerla, per lasciarla intatta, per impedire che l’angoscia o il panico la trasformino e la impoveriscano.

    Ribò non è sicuro dell’efficacia di questi sofismi, ma sa che deve dare una struttura alle sue sensazioni, sa che può organizzare intorno al cancro e all’operazione che dovrà subire un pensiero limpido a cui appoggiarsi durante la malattia. E anche dopo.

    Stai sereno, e tranquillo gli ha detto il giorno prima qualcuno.

    Certo ha risposto Ribò ma adesso lasciami solo. La serenità si conquista con la concentrazione, costruendo un sistema di pensieri e una scaletta di modalità tecniche da usare per ritrovare la serenità stessa quando se ne va. Ma per fare tutto questo devo essere solo.

    La scaletta, già...

    La sua scaletta era semplice ed era stata costruita soltanto negli ultimi due giorni: accettare con curiosità l’ignoto e andare in guerra per proteggere la sua stessa mente dai nemici.

    Hanno preso la stanza privata a due letti. Ribò occupa quello vicino alla porta a vetri che immette sul terrazzo. L’altro letto, dal lato della porta di ingresso della stanza, è vuoto, a disposizione di Raffaella.

    Non voglio avere nessuno vicino. Ho bisogno di stare solo, di pensare ha detto Ribò, prima di entrare in clinica. La porta della stanza di Ribò resta sempre chiusa. Le infermiere e i medici bussano, prima di entrare.

    Nei tre giorni prima dell’intervento Ribò non ha quasi mangiato, se si escludono le trasfusioni e le flebo, e il suo volto già scarno e ossuto ha assunto un aspetto antico, per certi versi asiatico, con quel suo naso ricurvo che sembra volergli entrare in bocca e con i baffi da turco.

    Lei vuole mangiare? dice l’inserviente che annuncia i pasti a Raffaella.

    No, grazie.

    Devi mangiare, le suggerisce Ribò sei magra come un sedano.

    Io sono sempre stata magra come un sedano risponde Raffaella scuotendo la sua chioma di capelli anarchici o elettrici, come a voler rendere più visibile e pieno il volto affilato su cui gli occhi, circondati da un forte tratto di matita, alla maniera dei dipinti dell’antico Egitto, appaiono grandi e costantemente stupefatti.

    3

    Battiamo la zona ma nessuno batte

    E questo tu lo chiami un bosco? bercio, grattandomi le ascelle (dovevo mettere più Baygon).

    Con il Monviso costantemente ritagliato nel parabrezza, là sullo sfondo, siamo arrivati qui, dalle parti di Cercenasco, dopo avere lasciato la strada che corre fra piantagioni di granturco per imboccare una stradina secondaria, stretta stretta, che scivola a fianco di questa sequenza ordinata di alberi distanti almeno cinque metri l’uno dall’altro.

    Bosco ceduo, babbeo ripete Angela fermando la macchina in una rientranza sterrata.

    Ceduo o cedro, un bosco è sempre un bosco e un bosco deve essere fitto, fare ombra, avere arbusti sotto e fare un po’ paura. Questo sembra un disegno dei bambini.

    Scendiamo dalla macchina. Angela si muove con i pugni piantati sui fianchi e gli occhi fissi al terreno.

    Qui, è qui che ha scelto di lavorare Isoke, è qui che l’ho accompagnata la prima volta, mi ricordo benissimo. Guarda, ci sono ancora i mozziconi di sigaretta a terra dice, ignorando le mie lamentele sul concetto di bosco.

    Vedo, ma che cosa pensi di trovare, oltre le cicche e qualche preservativo? chiedo.

    Non so, non so, Cardo ribatte lei, rabbiosa, ti ho chiesto di venire con me per aiutarmi, non per ostacolarmi. Isoke lavorava qui e senza dubbio è sparita da qui... Perciò è da qui che dobbiamo partire. Più semplice di così.

    Non rispondo. Io non so mai bene che cosa sia semplice e che cosa non lo sia. E allora, in casi come questo adotto la prima delle mie due sole capacità di scelta, ovvero quella di attenermi con rigore alla volontà altrui ubbidendo come un cagnolino, a patto naturalmente che quell’altrui sia di mio gradimento, come lo sono Ribò o Angela. Per tutti gli altri, invece, c’è spazio soltanto per il mio secondo e ultimo modo di reagire al dialogo con gli esseri umani, che è quello di mandare a cagare chi mi chiede qualcosa.

    E dunque, siccome la richiesta viene da Angela, mi impegno nella ricerca di tracce di Isoke facendo finta di avere idee mie, ma in pratica ripetendo i gesti di Angela, assumendone anche la postura, affinché lei scorga nel mio corpo atteggiato come il suo le sue stesse intenzioni. Sposto le foglie con un piede, raccolgo frammenti di carta, cerco tracce di lotta, mi addentro nel bosco (chiamalo bosco...), scruto in lontananza, sempre imitando Angela. Ma dopo più di un’ora, nello stesso istante, ci arrendiamo. Torniamo alla macchina.

    Nulla, nulla dice Angela, appoggiandosi alla Panda.

    Anch’io mi appoggio alla Panda.

    Forse non è scomparsa da qui, ma da casa sua provo a dire.

    No, no, quando tornava a casa mi chiamava sempre e quel giorno invece non lo ha fatto. Vuol dire che è scomparsa da qui, che l’hanno portata via da qui... Ma lei dovrebbe essersi ribellata, dovrebbe avere fatto casino... Fa sempre un tal casino, Isoke....

    Forse erano armati butto lì.

    Avrebbe fatto casino lo stesso, si sarebbe fatta sparare, piuttosto, ma non avrebbe ubbidito. E in quel caso avremmo dovuto trovare tracce di sangue, un bossolo, che ne so... Bisogna pensare, pensare uno scenario alternativo, non bisogna restare intrappolati nelle due o tre possibilità che ci appaiono subito alla mente. Pensa, Cardo, pensa uno scenario diverso dal rapimento classico.

    Già, pensare. Facile per lei che ha il cervello. Se c’è una pratica che proprio ignoro è quella di pensare. Specialmente quando si tratta di pensare a comando, di compiere l’atto di pensare. Come si fa a pensare? Posso anche provarci: chiudo gli occhi e cerco qualcosa da pensare, ma davvero non c’è trippa per gatti, nulla, il vuoto, il silenzio dei neuroni, sempre che io li abbia. Pensare non è come mangiare, che prevede l’esecuzione di alcuni gesti noti e risaputi. Non è nemmeno come dormire... Pensare è una faccenda troppo difficile anche solo da definire, figuriamoci a metterla in pratica. Ma di questo taccio, con Angela, e continuo a imitare il fesso che pensa reggendomi il mento con il pollice della mano chiusa a pugno.

    Potrebbe avere aiutato qualcuno con la macchina rotta dico all’improvviso oppure è salita in macchina con un cliente e quello l’ha portata chissà dove....

    Bella pensata, Cardo dice Angela, mentre il sole comincia a scivolare dietro le montagne rese quasi azzurre dall’effetto di controluce. Me lo devo ricordare per i futuri trompe-l’oeil. Il Monviso è sempre lì, silenzioso e autorevole, con la sua punta aguzza e quella specie di boria che volente o nolente aderisce a chi sovrasta tutti.

    Non so dico forse il pollice che regge il mento aiuta davvero a pensare.

    Bella l’idea del favore fatto a qualcuno riprende Angela, portandosi il pollice al mento, già, una macchina rallenta, sobbalza un poco e poi si ferma... Il tizio scende, apre il cofano, si guarda intorno... Chiede qualcosa ad Isoke, lei si avvicina, guarda in giù verso il motore e lui approfitta del momento in cui lei è piegata in avanti per tramortirla, lì sull’asfalto... Niente tracce... Ci sta, ci sta, Cardo. L’altra tua pensata, quella del cliente che la porta via, invece fa acqua, perché Isoke prendeva il numero di targa di ogni cliente, prima di salire, e telefonava subito al boss, sempre.

    Sì, ma siamo al punto di prima concludo.

    Torniamo a Stupinigi, Cardo, tanto qui non c’è più niente da scoprire, e fra un po’ è pure buio.

    4

    Disinnescare le parole

    L’infermiera accende la luce e saluta sorridendo.

    Ribò, già sveglio alle sei del mattino, risponde con un cenno della mano e con un sorriso, a sua volta.

    Lei non si lamenta mai, dice l’infermiera, aggiungendo una nuova sacca al trespolo delle flebo e proseguendo poi con la misura della pressione e della temperatura è proprio un bravo ragazzo.

    Ragazzo è una parola grossa replica Ribò, tirando la bocca di lato.

    E se si taglia quei baffi alla tartara sembrerà ancora più giovane conclude l’infermiera. E ridendo esce dalla stanza e richiude la porta.

    Ribò resta al buio, solo, nella stanza. Ha ottenuto, pagando la quota necessaria, di lasciare libero il letto al suo fianco per renderlo disponibile a Raffaella, nei giorni successivi all’operazione, ma anche e forse soprattutto per restare solo in camera, senza altri malati vicino a lui.

    Ha bisogno di pensare.

    Ha bisogno di trovare le parole esatte per andare incontro al cancro e all’operazione con un interesse autentico, non con la tensione e la paura che d’istinto si installano in chi sta per affrontare una prova alla quale non è preparato. Gli piacerebbe esser animato da quello stato di leggera voluttà che sorge quando si sta per essere messi a conoscenza di una indiscrezione, oppure, ancora, vorrebbe riuscire ad avvicinarsi alla malattia e all’operazione con lo spirito leggero di chi va a vedere la Biennale di Venezia o l’ultimo film del regista preferito. Non è un lavoro semplice. La resistenza è forte. Il cancro e l’operazione imminente non trasmettono nemmeno uno di quei segnali di piacere o di interesse che lui vorrebbe invece imporre loro.

    Ribò si rende conto di come siano stati programmati in profondità, in ognuno di noi, gli automatismi emotivi e lessicali. La parola cancro riesce a far paura in maniera pressoché automatica, deve terrorizzare, deve alludere alla morte fin dal primo istante in cui la si pronuncia o la si sente, prima ancora che la seconda sillaba sia pronunciata. E lui si rende conto di avere eseguito un ordine predefinito legato al solo uso della parola: ha avuto paura della parola cancro. Già, ora sa con certezza che è la parola a produrre spavento. Ha il sospetto che se mai riuscisse a disinnescare la parola, a toglierle l’interruttore che apre la porta allo spavento, il suo modo di affrontare il cancro cambierebbe, assumerebbe un aspetto più pratico, sempre inquietante, certo, ma composto di esperienze che si evolvono, e non definite in anticipo, non legate a ciò che la parola porta con sé, per antica zavorra, di definitivo e di devastante.

    Ma anche la parola anestesia, collegata all’operazione, si trascina dietro una coda di associazioni immediate; preme sull’immaginazione e rimanda all’idea di non risvegliarsi più, in barba alla statistica che segnala invece il contrario. Poi ci sono gli aghi e i sondini e le cannule e i cateteri, che spaventano al solo pensiero...

    E Ribò vuole disattivare tutti questi automatismi, riportare le parole alla loro innocente condizione di suoni, di segni, smantellare il processo associativo che ogni parola porta con sé. Vuole poter dire la parola cancro con la stessa pressione emotiva esercitata dalla formula ernia inguinale. Deve liberarsi delle immagini nascoste nelle parole, acquisite fin dall’infanzia e diventate parte della parola; deve ripetere mille volte che dall’anestesia si svegliano tutti; deve continuare a pensare che l’attesa e temuta invasione di aghi, di cannule, di flebo avrà uno sviluppo limitato nel tempo, un tempo non eccessivo, uno o due giorni, al massimo tre, come gli hanno spiegato, ma insomma, un tempo contenuto, breve.

    Ma perché non vuoi che nessuno venga a trovarti, in questi giorni che precedono l’operazione? gli chiede Raffaella, entrando con un sorriso e richiudendo la porta della stanza.

    Devo pensare dice Ribò, scendendo dal letto con imprevista agilità e avvicinandosi a lei.

    L’operazione è prevista per il giorno dopo.

    Non dovresti pensare troppo dice Raffaella, sorridendo.

    Forse hai ragione commenta Ribò.

    E anche qui Ribò scorge l’equivoco nascosto nelle parole, il malinteso secondo cui i pensieri corrispondono alle preoccupazioni, agli stati ansiosi, mentre nelle intenzioni di Ribò, in quel suo bisogno di pensare, il pensiero corrisponde a un potente processo di distruzione dei pregiudizi lessicali e alla faticosa ricostruzione di un sistema di parole, quelle stesse parole appena sgretolate, alleggerite dai carichi e restituite il più possibile alla funzione di semplici didascalie della cosa o del concetto che evocano.

    Avanti dice Raffaella, mezz’ora dopo, seduta sul suo letto, intenta a leggere un giornale, mentre Ribò, in piedi, davanti ai vetri, con la testa di lato come i cavalli, scruta la collina e il fitto degli alberi illuminati sulle punte dal sole radente.

    Buongiorno dice l’infermiera ecco l’ultima sacca di sangue prima dell’intervento. Praticamente è come bersi una bistecca liquida.

    Non vorrei diventare un licantropo. E soprattutto spero che il donatore non sia astemio... replica Ribò.

    Ma lei ha sempre la battuta pronta? commenta ridendo l’infermiera, mentre armeggia vicino alla spalla di Ribò per collegare il tubo della sacca di sangue al raccordo della cannula che l’anestesista gli ha infilato il giorno prima nella succlavia.

    5

    Meglio una torta che una merda

    Meglio dividere una torta in dieci che mangiare una merda da soli, non credi? ho detto ieri sera a Venanzio, uno dei soci della bocciofila, che stava scassando la nerchia a mezzo mondo perché ha scoperto che sua moglie (che è una gran slenga, anche se è bionda, e io non vado pazzo per le bionde), trombava con un altro oltre che con lui.

    Aldo, sebbene fosse già alla fine del pintone di barbera, era ancora un po’ sveglio e mi ha dato subito ragione con grandi cenni della testa e indicandomi con il dito come si indica chi l’ha detta giusta. Ma Venanzio continuava a lamentarsi, a insultare sua moglie, che tra l’altro è una ex puttana che lavorava qui dietro, tanto per dire.

    Venanzio, ho ripetuto te l’ho già detto, è meglio dividere una torta in dieci che mangiare una merda da soli. Tu la tua fetta di torta ce l’hai, e allora stai tranquillo.

    Lascia perdere mi ha detto infine Aldo, posando le carte sul tavolo per un giro di briscola e spruzzando saliva dappertutto, come sempre, tanto con quei tipi sentimentali non c’è speranza.

    Forse hai ragione ho risposto ma certo che è una cosa ben strana, questa di Venanzio, che proprio non capisco. Trombi con una che ti ingrifa per bene? Perfetto, che vuoi di più? No, dico, che vuoi di più? Dopo, ti fumi una sigaretta, ti bevi un bottiglia o vai al bar, bello tranquillo, e lei faccia quel che vuole, tanto per un po’ mica hai più voglia di trombarla, no? Devi vedere gli amici, brasarti ben bene di vino e insomma fare tutte quelle altre cose normali della vita, quelle che si fanno volentieri dopo che hai trombato un po’... Non so, Aldo... Tu come la pensi?.

    Zitto e gioca, Cardo ha detto Aldo facendo sbuffare il fumo della sigaretta intorno all’unico dente che spencola come una stalattite al centro della bocca. Non è che sia proprio bello, Aldo, questo no, ma è un brav’uomo, il miglior pappone che potrebbe avere Angela. Lui non mena, tanto per cominciare. A lui basta avere la grana sufficiente per ubriacarsi di barbera e perciò non controlla più di tanto il guadagno di lei. Gente di una volta, gente seria. Lui, quando parla di Angela,

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