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Omicidio ai Balzi Rossi
Omicidio ai Balzi Rossi
Omicidio ai Balzi Rossi
Ebook175 pages

Omicidio ai Balzi Rossi

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About this ebook

Un padre alla disperata ricerca del proprio figlio rapito da una banda di mercanti di bambini. Un poliziotto che risolve un caso di omicidio, inchiodando l'assassino con prove inconfutabili. Due vicende umane apparentemente distinte, ma sostanzialmente legate in unico dramma. Questi sono gli elementi della nuova indagine del commissario Scichilone, in cui nella è così come appare. Tra lo Sri Lanka, devastato dallo tsunami, e la struggente bellezza del Ponente Ligure, si snoda il racconto pregno di carica emotiva in cui l'amore, nelle sue diverse manifestazioni, caratterizza le vicende umane dei vari protagonisti.
LanguageItaliano
Release dateSep 19, 2012
ISBN9788875637804
Omicidio ai Balzi Rossi

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    Omicidio ai Balzi Rossi - Negro Roberto

    1

    Ventimiglia, 22 marzo 2004

    La notte era un manto scuro che lo avvolgeva in un abbraccio silenzioso. Dietro di lui la strada deserta di una città sonnecchiosa e davanti il lento vagabondare del mare.

    Non riusciva a prendere sonno e la camera da letto si era in fretta riempita di pensieri che lo soffocavano. Aveva bisogno di uscire, di sentire sul viso la brezza umida che spirava da sud. Così si alzò, allontanandosi da quell’appartamento che mai come allora non sentiva suo.

    Il quadrante del Guess segnava le tre.

    La luce fioca dei lampioni colorava di giallo le facciate di anonimi palazzi, tutti uguali, che nel corso degli anni si erano ammassati sul litorale.

    Credo che questo sia il momento migliore della giornata. Non c’è traffico, nessuno in giro, i rumori sono così assenti che l’atmosfera appare irreale.

    La voce lo aveva sorpreso alle spalle, ma ancora prima il Vidal che quel corpo informe emanava.

    L’ispettore Capurro si era avvicinato silenzioso come un killer, materializzandosi prezioso come una spalla amica.

    Anche tu, Peppino, non riesci a dormire?.

    Già.

    Oggi pomeriggio, mi ha chiamato Maria Assunta, da Palermo.

    Mmm.

    Mi ha chiesto la separazione.

    Mmm.

    Le ho detto che non ero d’accordo e lei ha replicato che mi avrebbe fatto scrivere dal suo avvocato.

    Mmm.

    Nella gola del commissario Scichilone si formò un groppo mentre una lacrima scivolò lungo la mascella quadrata.

    Il Vidal si dissolse in una bava di vento.

    Ci sono momenti in cui un uomo ha bisogno di piangere da solo.

    2

    Mirissa (Sri Lanka), 24 marzo 2004

    Il profumo della cannella arrivava sino dentro al tempio, mescolandosi con quello dell’incenso.

    Kumar, come ogni mattina, era inginocchiato davanti alla statua di Budda, con gli occhi chiusi e le mani giunte all’altezza delle labbra, recitando meccanicamente una preghiera.

    Cuore e mente proiettati nella stessa direzione, sfidando la diagnosi emessa tre settimane prima dal dottor Julius Pillay: Sterile! Lei, signora, non potrà mai avere un figlio. Mi dispiace!.

    Dopo quelle parole aveva abbracciato forte sua moglie Amali, cercando di lenire l’angoscia di un verdetto senza appello.

    Dieci anni di matrimonio erano anche il cumulo di tentavi inutili, di frustrazioni che avevano minato la solidità della loro unione.

    Prima del consulto medico gli era capitato di scorgere, negli occhi scuri della compagna, l’ombra di un’accusa, trasformatasi, con il trascorrere del tempo, in una specie di cancro che lo divorava dentro.

    Pensava di essere lui il problema, ma il dottore lo aveva sconfessato.

    Si sarebbe dovuto sentire sollevato, ed invece la sua disperazione era aumentata, alimentata dalla consapevolezza della sterilità della moglie.

    Partecipava sommessamente al dolore di Amali, che ogni notte, da quel giorno, singhiozzava al suo fianco.

    All’alba, ancora prima che il sole rompesse gli indugi di un orizzonte appena accennato, attraversava i campi di cannella per raggiungere il piccolo tempio di Kandavahani.

    Era nato, trentacinque anni prima, poco distante, consumando i propri giorni tra reti da pesca ed imbarcazioni dai profili colorati.

    Suo padre era stato un pescatore ed ancora prima suo nonno.

    La pelle bruna aveva il profumo del mare, mentre gli occhi grandi in una testa spigolosa con zigomi sporgenti, gli conferivano un aspetto anoressico, confermato dal fisico asciutto e scarno.

    Ogni giorno, alle tre del mattino, faceva scivolare in acqua la barca, sciogliendo al vento l’unica vela quadrata.

    La prua fendeva le onde, che da tempo immemorabile tormentavano la barriera corallina, regalandogli lacrime di mare.

    Le mani salde sul timone e gli occhi al bilanciere, unico compagno di notti sempre uguali.

    Raggiunta la secca, calava le nasse ed una piccola rete che seguiva il lento scarroccio dell’imbarcazione.

    Tre ore dopo, la pesca poteva considerarsi conclusa con un bottino che avrebbe venduto ad alcuni ristoranti di Mirissa, assicurandosi così il denaro necessario per il fabbisogno quotidiano.

    Dopo la preghiera, avrebbe accompagnato Amali ad un’altra visita medica, da uno specialista di Colombo.

    Il giorno di Poya era passato da due settimane: tanto era il ritardo delle mestruazioni.

    La moglie lo stava aspettando, seduta sul bordo del letto, nell’unica stanza della loro misera casa dalle pareti in assi di legno ed il tetto in lamiera.

    L’avevano costruita a due passi dal mare, sulla spiaggia, accanto ad altre baracche uguali alla loro.

    Senza elettricità, né acqua corrente, con una buca nella sabbia per gabinetto.

    La sera, seduti a terra, illuminati dalla fioca luce di una lampada a petrolio, mangiavano in silenzio, impastando con le mani riso, verdure, pesce e curry. Conoscevano solo quel cibo, lo stesso con cui erano stati svezzati.

    Osservava il profilo dolce di Amali, le sopracciglia che parevano disegnate, gli occhi scuri e le labbra delicate, in un ovale perfetto, chiuso da una cascata di capelli corvini che brillavano di olio di cocco.

    Il corpo minuto, avvolto in un sari azzurro, con ricami gialli, le donavano un aspetto da adolescente, nonostante avesse, da poco, superato i trent’anni.

    L’amava ed avrebbe sacrificato la propria esistenza pur di renderla felice.

    Avevano quindi deciso di consultare un medico diverso da Pillay, una ginecologa indiana che operava a Colombo, nell’Apollo Hospital, indicatagli da alcuni conoscenti.

    In tutta la loro esistenza non erano mai stati nella capitale, distante alcune centinaia di chilometri da Mirissa.

    Kumar, per l’occasione, aveva rispolverato l’abito nuziale, un gessato in lana di colore nero, trasformatosi immediatamente in una sorta di coperta termica.

    Il sole, alle nove del mattino, era già una palla incandescente che colpiva inclemente oggetti e persone.

    Alla fermata dell’autobus avevano cercato un po’ di sollievo all’ombra del muro di cinta di una casa coloniale, memoria di antiche occupazioni.

    Il tetto, dalle variopinte tegole portoghesi, aveva bisogno di riparazioni, mentre gli intonaci si erano polverizzati con il tempo.

    In ogni caso per Kumar era una reggia, un sogno che non avrebbe mai realizzato.

    In quel momento, comunque, erano ben altre le sue preoccupazioni.

    Non aveva il coraggio di guardare in faccia Amali, la quale manteneva perennemente lo sguardo a terra, nel timore di leggervi la rassegnazione.

    Voleva regalarsi ancora una speranza, qualcosa che consentisse loro di continuare a vivere.

    Amali era consapevole dell’immensa tristezza del marito, sapeva che quel viaggio sarebbe stato inutile e avrebbe solo accelerato la fine della loro relazione.

    Al ritorno gli avrebbe comunicato che lo lasciava.

    Lo amava al punto da farsi da parte per consentirgli di rifarsi una vita con un’altra donna, che forse lo avrebbe reso padre.

    L’autobus era giunto con un rombo lacerante, dissolvendo per un attimo l’afa umida di quella mattina di marzo.

    L’autista aveva decelerato bruscamente arrestandosi solo per qualche secondo, consentendo agli smarriti utenti un disperato tentativo di salire a bordo.

    Kumar aveva sollevato di peso Amali, proiettandola sulla scaletta di accesso, riuscendo poi ad aggrapparsi alla maniglia della porta mentre il mezzo riprendeva la corsa.

    Era pieno all’eccesso, tanto da impedire il più impercettibile dei movimenti.

    Gli aliti si miscelavano come all’interno di un grande polmone areato a mala pena dai finestrini spalancati.

    Il conducente, un tamil di trent’anni dalle folte sopracciglia corvine ed il naso gibboso come un’erta, danzava sul volante enorme, pigiando a tavoletta sul largo acceleratore del Tata, che più che un autobus sembrava un’arrugginita scatola di sardine.

    Tagliava le curve sfiorando il ciglio della tormentata strada che portava a nord.

    La lingua d’asfalto si sviluppava lungo il litorale, seguendo il profilo di baie e promontori, fendendo immense piantagioni di palme da cocco.

    A Galle molti dei passeggeri scesero, consentendo ad Amali e Kumar di sedersi sui consunti sedili di finta pelle da cui facevano capolino baldanzose molle.

    Da quando erano partiti non avevano scambiato una parola, ognuno chiuso nei propri pensieri, preferivano ignorarsi.

    Si erano assopiti, cullati dall’arrembante incedere del mezzo, lasciando all’inconscio il compito di spaziare nei sogni.

    Colombo li accolse, sei ore dopo, con un concerto di clacson anarchici dalle sonorità disarmoniche.

    A Kumar sembrò che per strada la gente si muovesse freneticamente in un’unica direzione, tutti affaccendati a raggiungere una meta conosciuta.

    La Galle Road era un rettilineo infinito sul quale si affacciavano una moltitudine di negozi dalle ammiccanti insegne colorate.

    Orefici si alternavano a commercianti di tessuti, a bazar che offrivano qualsiasi articolo che fosse vendibile, in una confusione etnica che mischiava mussulmani, buddisti, indù, cattolici ed ebrei.

    L’aria sapeva di petrolio, ammorbata dagli scarichi dei mezzi che si ammassavano l’uno all’altro, sino a formare un unico corpo meccanico che pareva risucchiato dal centro della città.

    Scesero all’altezza di Kolupitiya Market e come gli era stato suggerito, per raggiungere l’Apollo Hospital, utilizzarono un veicolo a tre ruote, ricavato da quello che in origine era un’Ape Bajaji per trasporto merci. I turisti lo chiamavano tuk tuk o three wheels.

    Allontanandosi dalla principale arteria della città, le vie ritornavano ad assumere un aspetto più tropicale, con ampi viali alberati, in cui lo smog pareva essere spazzato via dalle ampie fronde di ficus dai tronchi ciclopici.

    L’ospedale era apparso all’improvviso, rompendo la monocromaticità di gallerie vegetali, stagliandosi contro il cielo azzurro.

    All’accettazione un’impiegata sorridente li indirizzò al secondo piano, reparto di ginecologia, dove avrebbero trovato lo studio di Nalini Prasad, la dottoressa indiana originaria di Bombay.

    Un sari arancione le fasciava il corpo dalle rotondità generose, ed il viso tondo si illuminò di un sorriso franco in cui i denti, larghi e curati, risplendevano di un bianco abbagliante.

    Ditemi tutto.

    Kumar aveva osservato Amali che con uno sguardo d’intesa lo invitò a parlare.

    "Siamo venuti sin qui da Mirissa, per cercare delle risposte. Avremmo tanto voluto un bambino, ma mia moglie non è mai rimasta incinta.

    Ci siamo rivolti al medico della nostra città, il quale ci ha detto che Amali è sterile.

    In questo senso, noi le chiediamo delle conferme".

    Disse tutto in solo respiro, quasi un discorso liberatorio.

    Nalini Prasad si alzò dalla sedia posta dietro una scrivania dal piano in formica, accompagnando Amali ad un lettino.

    Fattala sdraiare, le coprì con un lenzuolo bianco la parte inferiore del corpo e cosparse un sensore con un sottile strato di gel, manovrando successivamente sulla consolle dell’ecografo.

    Amali fissò un punto indefinito del soffitto, mentre Kumar osservava serio ogni gesto del medico.

    Il monitor era una tavola nera sulla quale comparivano macchie bianche, disegni incomprensibili che la ginecologa studiava attentamente.

    Non una parola nel silenzio assoluto rotto dal ronzio della stampante che sputava una sequenza di immagini.

    La dottoressa si alzò porgendo ad Amali un fazzoletto di carta per asciugare il ventre e, sedutasi dietro la scrivania, osservò i visi smarriti della coppia.

    Per un lungo istante si soffermò sugli occhi della donna che parevano rassegnati all’ennesima sconfitta.

    La tensione opprimeva

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