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Giorgio Paludi 44 anni il giorno dei Santi
Giorgio Paludi 44 anni il giorno dei Santi
Giorgio Paludi 44 anni il giorno dei Santi
Ebook250 pages

Giorgio Paludi 44 anni il giorno dei Santi

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About this ebook

Un ragazzo in coma dopo un incidente stradale, un uomo misterioso con il tarlo dei gialli, un cane che non dorme mai.
Un commissario di polizia che sente la mancanza del mare, un medico legale col vizio delle barzellette sporche, un ispettore narcolettico, una studentessa modello. Bionda, fatale. Morta. La Torino dei Murazzi e della vita notturna. La Torino borghese delle strade ordinate, dei caffè, e dei cortili del centro che nascondono scenari inquietanti. Un assassinio efferato e inspiegabile. Una città mangiata dalla nebbia dove tutto svanisce nel nulla e appare all’improvviso, inaspettato. Un romanzo corale che cola nelle pieghe più nere del Po.
LanguageItaliano
Release dateSep 16, 2012
ISBN9788875637774
Giorgio Paludi 44 anni il giorno dei Santi

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    Giorgio Paludi 44 anni il giorno dei Santi - Beccacini Fabio

    Cop_12041_paludi.JPG

    I tascabili

    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    editing

    Sonia Cosco

    layout copertina

    Sara Chiara

    impaginazione

    Michela Volpe

    copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846

    isbn 978-88-7563-777-4

    Fabio Beccacini

    Giorgio Paludi

    44 anni il giorno dei Santi

    LogoFratelliFrilliEditori.JPG

    Fratelli Frilli Editori

    Ogni riferimento a fatti, persone o luoghi è da considerarsi puramente accidentale

    La donna mosse impercettibilmente le labbra.

    – Centomila. Non una lira di più, né una lira di meno.

    L’uomo piantò il gomito nella tovaglietta.

    – Ormai ci sono gli euro, signorina. Le lire sono andate in pensione da un pezzo. Ma è difficile abbandonare le vecchie abitudini, vero? A volte è un po’ come morire.

    La donna si specchiò sotto il candelabro e un piccolo rivolo di sudore le imperlò il colletto della camicia.

    – La vedo preoccupata. Ma non dovrebbe, la sua offerta è buona.

    Improvvisamente iniziò a nevicare, al ralenty, neve grigia da sembrare cenere, fiocchi grandi come confetti.

    – Non trova che questi bar siano anacronistici? Arredi in noce, tutto levigato, cioccolatini e acqua frizzante. Ha notato che a Torino danno ancora l’acqua frizzante prima del caffè?

    La donna non riusciva a seguirlo. Non voleva seguirlo. L’aveva fatto troppe volte perdendone il filo. Allora si alzò e andò alla cassa.

    – Torino è rimasta ferma a metà ottocento. Ma adesso non è più la capitale d’Italia. E neppure quella dell’automobile. Adesso è una fabbrica in disuso. È una fabbrica chiusa capisce?

    Lei continuò a non ascoltarlo, infastidita.

    – Non ci sono più gli operai. Non si produce più niente di niente. Si vive di calcoli. Calcoli e ruggine.

    La cassiera le porse il conto in un piattino. Cinque euro e ottanta centesimi per un tè alla menta e un Ricard con ghiaccio. La signorina guardò fuori dalla porta, l’uomo le si fece accanto prendendola sottobraccio. Uscirono senza parlarsi come due coniugi annoiati e meteoropatici. Allora glielo disse.

    – Ha vestito un elefante col tutù e adesso vuole anche che impari a ballare. Ma va bene. Apprezzo pur sempre l’originalità.

    La donna prese mezzo metro e gli mise gli occhi addosso. Grigi o verdi? Non avrebbe potuto capirlo da lì.

    – Lei è bella, signorina. E non bada al tempo, non sa stare sotto all’ombrello. Capisce cosa intendo dire?

    La guardò sotto la frangetta millimetrica e nera. I suoi occhi grandi dalle ciglia di rimmel, scure di seta. No. Non poteva capire. Ma ancora un piccolo moto di tenerezza lo sorprese e le rivolse una preghiera.

    – Non vada via da sola, la prego. La accompagno solo alla fermata del tram. Sempre che me lo permetta.

    Ma stavano già camminando. L’uomo guardava la schiena dei portici annerita dai gas di scarico delle macchine, poi pensò ai suoi polmoni e a come dovevano essere abbruttiti anche loro, dentro, dal fumo.

    All’edicola di piazza Castello comprarono un biglietto del bus. Lui alzò gli occhi sulla statua di Emanuele Filiberto, sull’armeria e più a sinistra fino al cancello magro di Palazzo Reale. Tutto secco e immobile, senza vita. Era ancora inverno. Poi senza ammettere esitazione, o come se la aspettasse, attirò la donna a sé e la strinse.

    Il quattro arrivò davanti alla pensilina.

    Le porte del tram si aprirono e dal lato posteriore scesero una vecchia con una sporta della spesa della CRAI e uno studente con le cuffie inforcate sulla fascetta verde militare. Il ragazzo si riparò la bocca con la sciarpa e la donna lo sentì distintamente imprecare.

    – Santa merda.

    La signorina sorrise. Allora avanzò verso il predellino, il tacco dodici che spariva nella neve. Finalmente ce l’aveva fatta. Da adesso in poi sarebbe cambiato tutto.

    L’esplosione spostò la motrice di lato come un compasso, portandola a scontrarsi con la tripla fila di macchine ferme al semaforo. I vetri di palazzo Madama deflagrarono in un fragore di cristallo, rumore di pentole amplificato dal basso del traffico. Più lontano, verso via Roma e via Pietro Micca, gli allarmi delle macchine iniziarono a brillare, l’insegna giallarancione del McDonald’s sfondò il chiosco di kebab di via Accademia delle Scienze. Lo spostamento d’aria si propagò concentrico per la piazza, incanalandosi per le vie e i corsi, sfondando vetrine e sollevando gonne.

    La parte superiore del corpo della donna andò a schiantarsi sul bordo della recinzione della pista di pattinaggio. Dopo un attimo attorno a lei iniziò ad allargarsi un cerchio di sangue che presto scomparve nella neve.

    L’ultima cosa che la donna ricordò fu il silenzio innaturale degli uccelli e il loro tornare al canto, feroce.

    Da sopravvissuti.

    TORINO NON ESISTE

    DAL NERO DISSOLVE SU:

    INTERNO. UNA CAMERA D’ALBERGO. GIORNO

    […]

    Un divano disfatto color blu azalea. Un paralume a doppio stelo schermato da un drappo rosso. Due ragazze entrano in campo da destra. La più alta si va a sedere cavalcioni allo schienale, l’altra finisce in piano americano. Quella bionda ha i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo, la seconda ha un angelo tatuato sul basso ventre e le tette gonfie come palloni. Hanno entrambe una mascherina nera sugli occhi e indossano solo un paio di mutande di cotone.

    [un campanello che suona]

    La bionda tira fuori la lingua e si inumidisce le labbra.

    RAGAZZA BIONDA

    Do you know that we’re bitch, daddy?

    RAGAZZA BIONDA

    Siamo le tue porcelline

    La più alta si scomoda dallo schienale del divano e si porta dietro alla bionda.

    [un campanello che suona]

    RAGAZZA BIONDA

    Ci puoi scopare come cani.

    Guardano dritto in macchina. Poi la bionda si avvicina e la sua testa scende fuori campo. La camera allarga sulla stanza dissolvendo.

    [un campanello che suona]

    00.59.00.

    I treni mi sono sempre fuggiti.

    Li ho sempre persi anche salendoci sopra. Questione di talento. Talento e determinazione per non arrivare da nessuna parte, essere la persona sbagliata nel posto sbagliato. E con troppi bagagli a mano, con troppi pacchi ingombranti che nessuno si prenderebbe il disturbo di occultare.

    Non sono mai stato in grado di definire una destinazione, darle i suoi motivi e i suoi scopi. Mai stato capace di tracciare una linea retta tra due punti, anche se a volte il percorso più breve tra due persone può essere una curva. Sarà.

    È che da un po’ di tempo ho un grosso problema.

    Sono morto.

    Almeno così dicono.

    – Elettroencefalogramma piatto. Praticamente nessun segno di attività elettrica. Signora, suo figlio è un vegetale.

    Mia madre che si ravvia i capelli, guarda me, guarda fuori dalla finestra. Il tempo.

    – Meno di un vegetale. Succhia la linfa, ma non cresce, non mette le foglie. Non fa più radici. Che senso avrebbe darle speranza?

    Mia madre, cinquantotto anni, le rughe sulla faccia e sul corpo, chissà da dove vengono i segni sulla faccia delle persone?

    – Una volta ho letto che un architetto di Bridgeport si è risvegliato dopo due anni. Due anni e mezzo. Bridgeport è nel Connecticut…

    – Signora. Vuole vedere ancora vivere suo figlio? Vuole sperare ancora? Allora firmi questo. Ci pensi.

    Mia madre che tiene in mano il modulo per la donazione degli organi, mia madre che non aveva fatto altro che ventilarmi la generosità di quel gesto, aiutare gli altri. Eppure adesso crolla il capo, la sua pelle di rafia tesa come una bandiera. Adesso tentenna. Non sa che fare. Non ci sono attenuanti.

    – Se potessi tornare indietro.

    Pensa. Il dottor Chianese che esce dalla stanza. Mia madre che ha pianto tutta la vita, che ha pulito cessi e pannolini, scale e cucine e sottotetti. Mia madre che da quando sono qui attaccato a succhiare glucosio e soluzione salina non lo fa più.

    Che ha imparato a sopravvivere. Non l’avrei mai detto.

    Fuori dalla finestra nevica.

    E io sono morto.

    00.58.11.

    Cazzi amari.

    Il primo pensiero della sua giornata. E poi.

    Mal di testa. Mal di stomaco. Sonno.

    E così avanti per tutta la mattina. Testa pesante. Pausa caffè. Esofago in fiamme. Pausa sigaretta. Occhi secchi come mandorle. Pranzo.

    Pranzo…

    Due uova in camicia senza neppure le maniche d’olio a dire il vero. E con tanto di fornelli da lucidare, piatti da lavare, scadenze da rispettare. Una cucina che sembrava il refettorio di un istituto per paraplegici, montagne di carta con cui ci si sarebbe volentieri lustrato il deretano e invece erano lì. Impilate e quasi serie nelle loro cinque colonne da sembrare le padrone della casa santoddio. Se non riusciva a portare avanti quel lavoro sarebbero stati cazzi. Cazzi sul serio.

    Il commissario Giorgio Paludi litigò con lo sparato della camicia, poi lo lasciò dondolante sulle reni e diede gli ultimi respiri alla sigaretta. Quindi la spense nel portacenere sbreccato della Punt & Mes e fece ripartire il nastro. Prima di sedersi recuperò il bicchiere di rum e cola e gli diede una botta con lo stecchetto.

    Le due ragazze avevano appena smesso di civettare e si stavano togliendo le mutande. La più alta in realtà era come se si fosse tolta uno straccio, il pudore del suo Cristo, l’ambizione di una modella dell’est rimasta in croce in qualche studio ammuffito dell’hinterland torinese.

    Arrivavano con le zattere, nascoste sui treni, stipate nei camion frigo lungo le autostrade. Venivano dalla Russia, dalle repubbliche della ex Jugoslavia, dall’Albania, dall’Africa equatoriale, da ogni buco del culo del mondo. Avrebbero fatto qualsiasi cosa pure di scappare di casa e non tornarci mai più. Si poteva vendersi così? Aveva un senso? Non c’erano altre soluzioni? Non avrebbero potuto prenderle a calci nel culo alla frontiera lasciandole alla finestra del bel paese? Che se ne rimanessero a sognare prêt-à-porter e dolce vita! Ma il commissario Paludi non era affatto sicuro che quelle fossero le domande giuste da porsi, per un poliziotto. Lui era pagato per fornire un servizio alla società, renderla più sicura, arrestare i criminali, far rispettare la legge. Di questo si doveva occupare. Non doveva capire un accidenti di niente. Per quello c’erano gli psichiatri e le cartomanti. È che certe sere, al commissario, gli andavano proprio di traverso e non riusciva che a pensare e ripensare, che ci doveva essere un modo migliore per. Un modo migliore di.

    La ripresa era amatoriale. Un campo medio di una camera da motel. Oppure di una camera arredata come quella di un motel. In ogni caso roba di gran classe, da onanista dell’edicola della stazione di Porta Susa. Appena la bionda finì la sua esercitazione la seconda ragazza si accovacciò di fronte alle ginocchia di un uomo grasso che rimase per metà fuori campo. L’altra si mise dietro lei come un paravento. Una giraffa iniziò a fare capolino sul bordo alto dell’inquadratura. Certamente non doveva essere un film di Stanley Kubrick. Giorgio Paludi si diede una pacca sulla gamba e si mise a ridere. Sbuffò una zaffata di fumo. Forse era già ubriaco.

    – Signori e signore ecco il famosissimo detective dei miei coglioni intento nel risolvere il suo ennesimo caso!

    Il commissario guardò il bicchiere, Micky Mouse portava a passeggio Pluto. Ne bevve un sorso e lo posò sul tavolino basso.

    – Non ti ho sentito entrare. Ti avevo lasciato le chiavi per usarle nel caso avessi avuto problemi.

    – Ho suonato il campanello due volte, ma dovevi essere evidentemente troppo occupato per sincerarti delle visite!

    La donna indicò il televisore adesso in fermo immagine.

    – E adesso cosa succede? Glielo succhia?

    Il Paludi sentì arrivare l’onda. La donna inseguì il discorso fino alla libreria poi capì che stava prendendo una brutta piega.

    – Non pensavo che alla tua età guardassi ancora questi filmetti! Cosa c’è che non ti va più bene di me? Non ho più il culo di una volta?

    – Eva che vuoi che ne sappia del tuo culo di una volta? Ti conosco solo da due anni. E, per favore, cerca di essere ragionevole. Sto lavorando.

    – Oh bella questa! Rum e cola, sigaretta e video porno! Sta lavorando il commissario! Allora dovevi mettere il cartellino fuori dalla porta DO NOT DISTURB dovevi mettere! Se stavi lavorando.

    Quelle ultime parole le portarono le lacrime agli occhi. Giorgio Paludi iniziò a prepararsi un nuovo cocktail.

    – Nessuno ti sta chiedendo di capirci qualcosa. Non ti è mai andato giù il mio lavoro. Punto. E poi non urlare per favore, sai quanto mi dà sui nervi.

    Il commissario sorseggiò il drink e diede un tiro alla sigaretta.

    – Certo che stai facendo di tutto per non morire di vecchiaia.

    Eva prese la borsa da sopra il piano di cottura.

    – A te non serve una donna, a te serve una balia sordomuta!

    Poi girò sui tacchi e se ne andò sbattendo la porta. La gondola di Venezia sulla mensola vacillò per un momento, ma non venne giù. Giorgio Paludi si voltò verso la finestra.

    – Esci da lì dietro. E cerca una motivazione convincente.

    Michele Paludi, suo figlio, scostò la tenda tirandola via dal montante.

    – Perché fai il guardone nascosto dietro la tenda?

    Il profilo della Mole si allineò nell’ingombro della vetrata, il volo dei numeri di Mario Merz la attraversava scarlatto.

    – Sei alto un metro e un cazzo, ma hai i piedi di un fabbro. Ti spuntavano da sotto.

    Il ragazzo guardò istintivamente la punta delle scarpe nuove della Nike.

    – Eppoi con quelle scarpe così ridicole ti avrebbe scovato anche Watson.

    – Il socio di Sherlock Holmes?

    – Elementare.

    Il piccolo Paludi sorrise.

    – Ma adesso che succede?

    – Adesso te ne vai a casa. Se tua madre viene a sapere che ti faccio vedere i film porno, mi becco una bella denuncia e addio pensione a Santo Domingo.

    Michele si spostò finalmente dalla finestra. Si avvicinò al padre e gli diede un bacio sulla guancia.

    – Scusa pa’.

    – Non ti preoccupare, non è successo niente. Ma che non si ripeta.

    Allora mentre il figlio prendeva la via della porta, Paludi lo guardò bene. Le spalle strette appese su un attaccapanni, il giro vita di un lottatore di sumo. Il signorino passava i giorni davanti alla televisione, tenendo alte le azioni della Ferrero e tracannando ogni genere di porcheria al cioccolato. Aveva già quindici anni e non era nemmeno alto un metro e sessanta. Avrebbe dovuto farlo correre a pedate nel culo, altroché! E dire che il commissario aveva fatto il servizio di leva nei corazzieri… Che fossero vere quelle voci sul macellaio di Salita del Prione? Che sua moglie comprasse davvero troppa carne? Il commissario Paludi si toccò istintivamente la bocca dello stomaco. E sentì l’ulcera pulsargli di nuovo. Sigarette, alcolici, vita sregolata. Veleno per lui. Glielo diceva sempre il medico di famiglia. Ma quando avrebbe smesso? Quando sarebbe andato in pensione? Mai?

    Intanto nel video il vecchio non aveva perso tempo e stava mettendo la ragazza carponi battendola con una stecca di vimini.

    Il commissario Paludi sbadigliò.

    Il telefono prese a squillare diventando un rumore bianco. Giorgio Paludi chiuse gli occhi sperando che la smettesse, ma non lo fece.

    La gente comune aveva poca pazienza e poco tempo da perdere.

    Il lavoro chiamava.

    Era lo squillo di un poliziotto.

    00.57.46.

    Torino non esiste.

    L’uomo con la sciarpa e il cappello non lo sa.

    Torino fugge. Nelle piazze, nella prospettiva infinita degli incroci a novanta gradi, nel ventre umido dei cortili del centro.

    L’uomo con la sciarpa e il cappello è mancino e il suo cane si chiama Scerbanenco. Sta camminando sul lungo Po all’altezza dell’arcata trentacinque. Lui cammina e nessuno lo vede. Sarà la nebbia, sarà il freddo boia, la notte nera come l’interno del buco del culo di un uomo. Sarà Torino che non esiste. Che è uno scherzo dell’immaginazione, una fermata inventata dal treno: la fantasia di un cane che lo porta a rovistare tra i sacchi dell’immondizia appena sciolto il laccio che lo costringeva accanto al padrone.

    L’uomo con la sciarpa e il cappello intanto cammina e pensa ai gialli. Il suo tarlo. La quadratura dell’immaginazione. Il cerchio messo a posto a martellate e sillogismi. Allora si siede. Dall’ultima panchina dei Murazzi sente le macchine andare dentro la notte davanti al chiosco dei panini di Santa Rosalia. Sente il vapore acqueo allungarsi verso il fiume e chinarsi nelle sue ossa, sente un lento e monotono muoversi a cui non sa dare un nome.

    Torino, un milione e mezzo di persone, ognuna con la sua storia e la sua fissazione, fabbriche, terroni e magrebini. Il mercato di Porta Palazzo e le puttane di Corso Unione.

    Torino barocca, di mattoni e nebbia dura, Torino mignotta di un bambino chiamato dal ballatoio giù in cortile, febbraio e silenzio di appendicite. Quante persone ci sono come lui a Torino? Quanti controllori ligi al dovere, quanti pollivendoli, quanti studenti, quanti morti

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