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Mariani e il caso irrisolto
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Ebook286 pages

Mariani e il caso irrisolto

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About this ebook

Da mesi, per le conseguenze di una ferita, il commissario Antonio Mariani è ricoverato in ospedale e non sa quando riuscirà a guarire. E’ una notizia avuta dall’amico e medico legale Torrazzi a scuoterlo dal torpore e a dargli la voglia di guarire: è stata uccisa una giovane donna incinta e le modalità del delitto sono simili a quelle di un caso di cui Mariani si era occupato anni prima senza riuscire a risolverlo. E’ anche per riempire le lunghe ore solitarie che Antonio comincia ad indagare, ignorando le proteste dell’ispettore Lorenza Petri cui è stato affidato ufficialmente il caso. Ma sarà la scomparsa di una giovane donna, Kuei-Mei, a spingere i superiori di Mariani a chiedergli di collaborare alle indagini, anche se in modo ufficioso.

Maria Masella è nata a Genova. Ha partecipato varie volte al Mystfest di Cattolica ed è stata premiata in due edizioni (1987 e 1988). Ha pubblicato una raccolta di racconti – Non son chi fui – con Solfanelli e un’altra – Trappole – con la Clessidra. Sempre con la Clessidra è uscito nel 1999 il romanzo poliziesco Per sapere la verità. La Giuria del XXVIII Premio “Gran Giallo Città di Cattolica” (edizione 2001) ha segnalato un suo racconto La parabola dei ciechi, inserito successivamente nell’antologia Liguria in giallo e nero (Fratelli Frilli Editori, 2006). Ha scritto articoli e racconti sulla rivista “Marea”. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato Morte a domicilio (2002), Il dubbio (2004), La segreta causa (2005), Il cartomante di via Venti (2005), Giorni contati (2006), Mariani. Il caso cuorenero (2006), Io so. L’enigma di Mariani (2007), Primo (2008), Ultima chiamata per Mariani (2009), Mariani e il caso irrisolto (2010), Recita per Mariani (2011), Per sapere la verità (2012), Celtique (2012, terzo classificato al Premio Azzeccagarbugli 2013), Mariani allo specchio (2013), Mariani e le mezze verità (2014), Mariani e le porte chiuse (2015), Testimone. Sette indagini per Antonio Mariani (2016), Mariani e il peso della colpa (2016), Mariani e la cagna (2017), Mariani e le parole taciute (2018), Nessun ricordo muore (2017) Vittime e delitti (2018) e Le porte della notte (2019) questi ultimi tre con protagonista la coppia Teresa Maritano e Marco Ardini. All’inizio del 2019 ha scritto con Rocco Ballacchino “MATEMATICHE CERTEZZE” ottenendo il consenso dei lettori per l’originale trovata di dar vita a un’indagine portata avanti dai due commissari di polizia Mariani e Crema. Per Corbaccio ha pubblicato Belle sceme! (2009). Per Rizzoli, nella collana youfeel, sono usciti Il cliente (2014), La preda (2014) e Il tesoro del melograno (2016). Morte a domicilio e Il dubbio sono stati pubblicati in Germania dalla Goldmann. Nel 2015 le è stato conferito il premio “La Vie en Rose”. 2018, terza classificata alla prima edizione del Premio EWWA.
LanguageItaliano
Release dateSep 4, 2012
ISBN9788875637583
Mariani e il caso irrisolto

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    Mariani e il caso irrisolto - Masella Maria

    CAPITOLO 1

    Orario di visita dalle 12,30 alle 14

    So che è sabato perché la sfilata dei medici è stata in formato ridotto. La faccia di Torrazzi non è dei giorni migliori, me ne accorgo appena entra: sarà l’effetto week-end.

    – Disturbo? – Perché da quando sono inchiodato a questo letto d’ospedale è così riguardoso da farmi sentire ancora peggio. Eppure è amico di vecchia data, oltre che medico, e dovrebbe sapere che non sono tipo da smancerie. Se mi chiede come sto è la volta che urlo.

    – No. E lo sai. – A fatica cerco di sistemarmi un po’ meglio.

    – Ti ho portato qualcosa da leggere. – Dalla cartella toglie un libro e lo posa sul comodino. – Parla di delitti.

    Lo capisco, non sono un amico facile, ancor meno ora che sono in ospedale. Da mangiare non può portarmi, perché ho tutte le analisi sballate e mi tengono a dieta stretta; da fumare (e ne ho proprio bisogno) ancor meno, eppure quando medici e paramedici mi si avvicinano lo sento che sono fumatori. Tutti virtuosi a parole e sulla pelle degli altri. Odio le parole incrociate, il calcio non mi interessa... Trovare qualcosa da portarmi e che mi aiuti ad ammazzare il tempo è arduo.

    Così mi porta un libro che parla di delitti.

    Ringrazio, cercando di mettere un po’ di calore nella voce.

    – Cosa ti dicono?

    Alzo le spalle. – Sei medico e lo sai. Le solite menate. Di dimettermi neppure ne parlano.

    Tossicchia. E poi: – Come ti senti?

    – Come sempre. E tu cosa hai?

    – Niente. – Ma dicendolo fissa il muro alle mie spalle come se fosse interessante.

    – Non dire cazzate. Ti conosco. Hai qualcosa.

    Un altro colpo di tosse.

    – Non sto così male da non vederti la faccia dei giorni no.

    Si sistema meglio sulla sedia. Metallica, modello ospedale, forse facile da tener pulita, ma scomoda e fredda, anche a vederla. Quando ha finito con le sue manovre finalmente mi guarda di nuovo. – Un caso.

    Mi tiro su. – Dimmi. – Perché Torrazzi, come il sottoscritto, ha visto di tutto e non è facile alterarlo.

    – Donna, ventiquattro anni.

    Aspetto perché, finora, non riesco a capire cosa l’ha tanto sconvolto. Di giovani donne morte ne abbiamo viste.

    – Dissanguata. – Pausa. – Era incinta... – mi guarda.

    Non sento più il dolore alla schiena, conseguenza di tante ore sdraiato, neppure più il pulsare della ferita che non vuole rimarginarsi. Comincio a sentire quella strana sensazione fra le scapole... Ricambio l’occhiata.

    – Ricordi quei tre omicidi? – Ma è domanda pleonastica, perché sa che, come lui, non ho dimenticato. Forse non sapeva come dirmelo.

    – Ferite al ventre?

    Annuisce.

    – Sì, Antonio, come negli altri due omicidi.

    – Tre – lo correggo automaticamente.

    Alza le spalle. – La terza vittima non l’ho repertata io.

    Lascio correre. – Tracce?

    Dà una tiratina alla giacca come per sistemarla. – Per ora niente. Non sapevo se parlartene, dicono – e con un cenno indica, oltre la porta, tutto il personale medico dell’ospedale – dicono che devi stare tranquillo, che non dobbiamo agitarti... Ma l’avresti saputo dai giornali, allora meglio da me.

    – Avete informato la stampa dei dettagli?

    – Con il contagocce per non diffondere il panico... Sembra che si voglia evitare qualsiasi collegamento con i casi precedenti.

    – Chi si occupa delle indagini?

    – Per ora la Petri.

    – Non un commissario?

    Alza le spalle. – Non è periodo dei migliori.

    È quando siamo ai saluti, dopo aver parlato del più e del meno, che gli chiedo se può farmi avere notizie.

    – Certo.

    – Ma non soltanto quello che passate ai media.

    Fa segno di sì.

    – Nel mio ufficio c’è anche la cartella degli omicidi precedenti, con le copie dei reperti, delle deposizioni. È roba mia, per uso personale, dovresti portarmela.

    – La Petri si è spostata momentaneamente nel tuo ufficio, problemi logistici.

    Spero di mascherare l’irritazione. Assurda. Ancor più assurda per uno che ha deciso di dimettersi appena guarito. – Vai e le dici che ti ho chiesto di portarmela. La cartella, non la Petri.

    Abbozza una mezza risata. – Ma va là che anche la Petri non ti spiacerebbe! In quel letto sarebbe una buona compagnia.

    Orario di visite dalle 18 alle 19.30

    Torrazzi è venuto a trovarmi alle tredici; alle diciotto e trenta arriva lei, la Petri. In divisa.

    Si avvicina al mio letto accompagnata dalle occhiate dei tre uomini in camera con me: non è una novità che piaccia ma lo è il venirmi a trovare.

    Entrando ha detto soltanto Buonasera, commissario, ma arrivata al letto posa sul comodino un fascicolo: – Il dottor Torrazzi ha detto che lo voleva.

    – Sì, una curiosità – minimizzo.

    – Ci sono altri modi per passare il tempo.

    Una risatina soffocata dal letto accanto al mio e poi un commento in genovese stretto dal portuale che lo occupa.

    La Petri non si scompone, forse non capisce il nostro dialetto; aggiunge, calma: – Il nuovo caso mi è stato assegnato. Forse temporaneamente, ma non gradisco interferenze. Sono venuta a ricordarle che, attualmente, lei non è in servizio attivo.

    – Ovvio, ispettore.

    Si ammorbidisce un po’. – Volevo anche sapere come sta e portarle i saluti dei colleghi.

    – Grazie dei saluti. E spero di rimettermi al più presto.

    Ha lanciato un’occhiata al libro portato da Torrazzi. – Interessante.

    Annuisco anche se l’ho soltanto sfogliato.

    Anneghiamo per qualche minuto in un oceano di silenzio, che a me non disturba ma a molti indispone. Infatti lo rompe con la battuta più ovvia: – Se posso fare qualcosa per lei, commissario.

    L’occhiata del portuale, dal letto accanto, è pura poesia.

    – Grazie, Petri. – Una pausa, cercando di ignorare i miei vicini. – Non mi spiacerebbe essere informato sugli sviluppi del caso. – Alzo una mano. – Ovviamente se non interferisce.

    Sa benissimo che Torrazzi mi passerà tutte le informazioni e la richiesta è soltanto un modo per rendere meno clandestina la mia posizione.

    – Vedrò quello che posso fare, commissario.

    Si è trattenuta ancora qualche minuto e poi è uscita.

    – Bella donna. Porta benissimo la divisa. – Il commento di quello di fronte, il professore.

    – Quelle di ghiaccio ci vuole a sgelarle, ma poi... – è il portuale che, per una volta, ha lasciato da parte il genovese. – Bella femmina. Sono tutte così?

    – No. E siamo soltanto colleghi.

    – Con colleghi così la pressione ti sale – è il commento del portuale.

    Dalla fine del turno di visita alla mattina seguente

    Il tempo si dilata in una distesa deserta: questo è il guaio di stare piantato in un letto. Diminuendo lo spazio a disposizione aumenta il tempo, proprio quando non sai come riempirlo.

    I miei compagni di camera parlano, sfogliano giornali; io prendo il fascicolo.

    Sulla copertina cartonata due scritte in stampatello maiuscolo: DONNE INCINTE e, sotto, IRRISOLTO. La grafia è la mia.

    Apro, nella prima pagina un riepilogo essenziale con nomi delle vittime, date e luoghi di ritrovamento dei corpi.

    La prima, Alba Penego...

    Ricordo benissimo la chiamata, anche se di tempo ne è passato. Mia moglie Francesca non aveva perdonato che avessi messo in pericolo la vita di nostra figlia Manu; ormai vivere insieme era diventato impossibile, così avevo affittato un bilocale in Via Trento, comodo per il lavoro.

    Mi ero appena trasferito e tornando a casa continuavo a sbagliare strada e proseguivo verso levante. Al mattino, al risveglio, quando avevo dormito, faticavo a trovare l’orientamento.

    Parlando chiaro ero sfatto.

    Quella notte mi ero addormentato verso le quattro, la sveglia delle sei mi aveva liberato da un incubo angosciante in cui Francesca stava annegando. Lei, non mia figlia Manu.

    Avevo accolto la chiamata con sollievo.

    Alba Penego. Ferite al ventre inferte con un’arma da taglio, lunga, poco affilata. E non identificata.

    Già ad una prima occhiata, senza aspettare l’autopsia, avevo capito che erano state inferte su carne ancora viva.

    I colpi non avevano leso organi vitali, ma la morte era sopraggiunta per dissanguamento. Non avevamo individuato l’arma, che aveva colpito, come fosse un punteruolo, ma poi, senza penetrare troppo, aveva lacerato i tessuti: doveva essere stato doloroso...

    La vittima era molto provata da un digiuno durato alcuni giorni. Abrasioni ai polsi e alla schiena indicavano che era stata tenuta legata probabilmente su una rete metallica, come quelle dei letti di una volta, quando non usavano le doghe: la vittima doveva aver cercato disperatamente di liberarsi.

    Nessun segno di bavaglio.

    Nessuna traccia di violenza sessuale.

    Soltanto quei colpi all’addome.

    Le ferite al ventre sono dolorose, lo so per esperienza personale. Per lei dovevano essere state ancora più traumatizzanti, anche a livello emotivo, perché era incinta.

    Quando Torrazzi me l’aveva comunicato, avevo subito acceso una sigaretta per mascherare un attacco improvviso di nausea: ricordavo Francesca incinta di Manu e avevo visto lei al posto di Alba Penego sul tavolo dell’obitorio.

    Fran. Si può amare una donna e non riuscire a vivere senza di lei. Ma neppure con lei.

    No, a Fran non devo pensare. È anche questo che mi impedisce di guarire e mi fa sballare tutti i valori, facendo dannare i medici che mi zampettano attorno...

    Mi è bastato pensarla e il monitor ha cominciato a lampeggiare. Lo odio, peggio che avere una spia alle costole: un uomo ha diritto ai suoi pensieri, anche se lo fanno sentire male.

    La caposala Amalia, ho diritto al meglio, arriva in tre minuti. – Antonio! Antonio! Deve riposare e stare tranquillo.

    Mi parla come fossi un bambino capriccioso: neppure mia madre mi ha mai trattato così. Di certo Francesca non ha mai usato questo tono con Manu o con Ludo...

    – Ecco, l’ha fatto di nuovo! Cosa devo fare con lei? Un calmante, devo darle un calmante? Ha male?

    – Non ho niente. – Non voglio i calmanti che mi intontiscono. Meglio il dolore e la testa lucida.

    Mi sistema cuscino e lenzuolo con rapida efficienza. – E cosa abbiamo qui? Cosa mi nasconde, Antonio?

    Appena il monitor ha cominciato a lampeggiare, sapendo che sarebbe arrivato qualcuno a controllarmi, ho subito nascosto il fascicolo sotto la mia schiena ma un foglio deve essere scivolato via. La caposala lo solleva alla luce, dà un’occhiata... Rabbrividisce. – Queste cose la fanno star male. Deve riposare e stare tranquillo. Oppure le do un calmante. Per il suo bene.

    Mentre sventolava il foglio come per cancellarne l’immagine, l’ho occhieggiato e riconosciuto al volo. Perché Amalia non ha trovato come preda una pagina anonima invece di un nitido primo piano del ventre gonfiato e ferito di Piera, la seconda vittima?

    – Stia lì, buono e tranquillo e ogni tanto vengo a darle un’occhiata.

    Non posso stare altro che qui e le sue visite sono più una minaccia che un conforto.

    Per il mio bene vogliono togliermi anche il pensiero. La noia è peggio del dolore e dell’immobilità.

    Come dovrei passare il tempo? Cercando di prevedere quale infermiera farà il prossimo turno?

    Mi guariranno ma riuscirò ancora a pensare? A volte me lo chiedo davvero.

    È di nuovo accanto al mio letto e sistema sul trespolo il flacone per la flebo. – Ora si fa un bel sonno e starà subito meglio.

    – Non voglio un calmante.

    – Non faccia il bambino, Antonio.

    È buio. Buio da ospedale, con luci in lontananza.

    Non so quanto tempo è passato, mi hanno anche tolto l’orologio, perché mi agita. Di giorno chiedo l’ora al vicino. Così spesso che più di una volta ha commentato: – Cosa ti serve saperla?

    Ma è buio.

    Posso aver dormito poche ore o qualche giorno. Alzo una mano e me la passo sul viso: barba da una ventina di ore. Allora sono le due, le tre di notte.

    Il fascicolo è sotto la mia schiena, ho voglia di rileggerlo con calma, anche per dimenticare dove sono. Ma se accendo la luce arriva subito un’infermiera a trattarmi come un pupetto.

    Però nessuno può impedirmi di ripensare al caso.

    Alba Penego, anni ventinove, nubile, incinta di due mesi. Da viva doveva essere una bella ragazza, una come quelle che piacciono adesso: snella, capello lungo...

    Laureata in lingue ma ancora in cerca di un lavoro, come tante. Però benestante di famiglia tanto da potersi permettere di viver sola e bene.

    Chi poteva averla non soltanto uccisa ma sequestrata per giorni? Perché i risultati dell’autopsia erano stati coerenti con le dichiarazioni dei vicini di casa.

    Era stata vista per l’ultima volta poco meno di due settimane prima del ritrovamento del cadavere.

    I dettagli, Antonio! Potessi accendere la luce! Il corpo era stato ritrovato, lo ricordo, alle sette di mattina, nella sua Smart, riverso al posto di guida, nel posteggio di Piazza Paolo da Novi.

    Un uomo era andato a prendere l’auto e aveva notato la donna riversa sul volante della Smart ferma nello spazio accanto. Di dicembre, alle sette, è ancora buio e l’illuminazione della piazza ti fa vedere e non vedere. L’uomo aveva chiamato il 118 pensando ad un malore.

    Quando l’avevo interrogato mi aveva assicurato che la sera prima, alle dieci, quando aveva lasciato la sua auto la Smart non c’era ancora... – C’era un Suv lì, commissario, ne sono sicuro. Sicurissimo. Aveva anche invaso un bel po’ lo spazio vicino e avevo faticato a far manovra.

    Quindi l’assassino aveva lasciato la Smart con il corpo fra le dieci di sera e le sette della mattina seguente.

    Giorno della settimana?

    Facile da ricordare: lunedì. Era stata la prima chiamata della settimana. L’assassino aveva portato il corpo in piazza Paolo da Novi fra domenica sera e lunedì mattina.

    Nell’auto non avevamo trovato né impronte né reperti significativi.

    Se c’è una possibilità che ho sempre lasciato per ultima nelle mie indagini è quella del maniaco, per parlare come i media.

    Perché beccarlo è maledettamente difficile. Quindi è sensato escludere prima altre possibilità.

    Si parla con parenti, amici e vicini.

    I genitori vivevano a Loano, non sapevano molto della vita della figlia, soltanto quello che lei voleva far sapere.

    Neppure che era incinta, sapevano. Ma era soltanto di due mesi, proprio all’inizio.

    I vicini, fra reticenti e maliziosi, avevano riferito di un uomo, diciamo, i quaranta passati, che veniva spesso e si tratteneva la nottata.

    Un’amica, poco più che una conoscente, intime non eravamo, come aveva tenuto a precisare spesso, sapeva che aveva una relazione con un uomo sposato, lo so perché me l’ha detto proprio lei, e ne aveva anche indicato il nome: Luca Signori.

    Il colloquio lo ricordo. Qui al buio (che non è vero buio) e nel silenzio (anche questo parziale) ricordare non è difficile: è sufficiente lasciare che parole ed immagini ritornino a galla.

    Come i corpi lasciati a gonfiare, come Piera, la seconda che avevano trovato impigliata negli scogli sotto la massicciata di piazzale Rusca, dai giardini di Quinto. Dove tante volte ho portato Manu a giocare...

    No, non devo distrarmi, devo restare su Alba e sul suo uomo, Luca Signori.

    Nel mio ufficio, dove l’avevo convocato.

    Io alla mia scrivania e Anselmi con noncuranza alle sue spalle. Ci si guardava e ci si capiva con un’occhiata.

    – Conosceva Alba Penego?

    – Aveva dato ripetizioni di inglese a mia figlia.

    – Non c’erano altri rapporti fra voi, signor Signori?

    Sì, ricordo come, ogni volta, quel signor Signori mi impicciava facendomi sentire un comico di Zelig.

    – Altri rapporti in che senso, commissario?

    – Secondo i vicini un uomo molto simile a lei si tratteneva spesso per la notte nell’appartamento della vittima.

    Era rimasto in silenzio per un po’, probabilmente per valutare se gli conveniva negare, poi aveva fatto segno di sì. – Da qualche tempo.

    – Da quanto? Può essere più preciso?

    – Da otto o nove mesi. Mia figlia aveva problemi con l’inglese e avevo avuto il telefono della Penego da un altro genitore. Mi aveva detto che era un’insegnate capace.

    – Sua moglie sapeva della vostra relazione?

    – Il nostro matrimonio è finito da tempo, commissario. Viviamo insieme per i figli e – mi aveva fissato – perché è più pratico. Ognuno ha la sua vita, senza recriminazioni.

    – Capisco.

    Un altro lungo silenzio.

    Poi un altro attacco: – Sapeva che la Penego era incinta?

    – C’è la pillola, non la credevo così stupida.

    – Non ha risposto alla mia domanda – avevo insistito.

    – Ma sì che lo sapevo! Me l’aveva detto quasi subito! E tutta felice. Cosa voleva? Che divorziassi da mia moglie e poi andassimo a vivere insieme! Le avevo detto subito di toglierselo dalla testa. Mia moglie non la lasciavo. Per liberarsi del bambino le davo una mano, ma niente di più.

    – E la Penego come aveva reagito?

    – Da stupida. E io che la credevo una ragazza sveglia, intelligente, moderna. Era decisa a tenerselo. E non per scrupoli religiosi ma perché mi amava.

    Aveva concluso di non avere la certezza che quel figlio fosse suo, perché Alba non era una che si tirava indietro.

    Dicendolo aveva fatto una faccia disgustata.

    Mattina

    Sono così dentro i ricordi che la voce dell’infermiera mi è estranea e mi fa sobbalzare. – Vedo che siamo svegli, Antonio! Una buona nottata e neppure un salto di pressione. Il calmante le ha fatto bene. Il professore sarà contento.

    Non è stato il calmante a farmi bene ma poter lavorare un po’: niente come un caso per il commissario Mariani riesce a tenere a bada quel fallimento che è la vita privata di Antonio.

    – Allora? Come si sente?

    – Bene. Mi sentirei meglio se potessi alzarmi.

    – Si alzerà quando lo deciderà il professore. Ora la aiuto a mettersi in ordine.

    Odio che si occupino del mio corpo. – Se mi porge il rasoio, la barba me la faccio da solo.

    Mi fa un mezzo sorriso. È Marika, una bionda moldava approdata al San Martino di Genova chissà per quali vie del destino. È, fra tutte, la mia preferita.

    – D’accordo, ma soltanto perché ha fatto una buona nottata.

    La barba me la sono fatta in fretta, tanto, con il rasoio elettrico, mi viene male anche se lavoro di fino. E l’atto di radermi giustifica la luce accesa tanto utile per dell’altro.

    Il fascicolo.

    Rileggo veloce la deposizione dell’uomo che ha trovato la Smart con il corpo della Penego. Ok: ricordavo tutto.

    Poi Signori Luca. Lavorava come direttore commerciale per una ditta di ricambi di proprietà della moglie, forse era uno dei motivi che escludevano un eventuale divorzio. Avevamo controllato il suo alibi, perché poteva aver deciso di eliminare un’amante ormai fastidiosa. Pure pericolosa, se si metteva in testa di sfasciargli il matrimonio.

    Come aveva dichiarato era stato per alcuni giorni in giro per l’Italia, motivi di lavoro.

    Ho davanti a me lo schema, ad uso personale, degli spostamenti di Signori, confrontato con sparizione

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