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L'importanza delle acciughe: Delitti a Loano
L'importanza delle acciughe: Delitti a Loano
L'importanza delle acciughe: Delitti a Loano
Ebook256 pages

L'importanza delle acciughe: Delitti a Loano

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About this ebook

E' giugno. La Loano pre-vacanziera è turbata da un delitto apparentemente assurdo. Sul greto del Nimbalto viene ritrovato il cadavere sgozzato di un libraio di Pietra Ligure: sarà solo il primo di una serie. A risolvere il mistero contribuiranno il naturale talento investigativo e la tenacia di un’insolita coppia: la battagliera vedova settantenne Berta Riccardi e suo figlio, l’agente immobiliare Davide Traverso, con il prezioso, involontario aiuto del gerbillo della Berta, Roddy, un topolino del deserto ghiotto di baci di dama. Il tutto condito da humour e dal leitmotiv delle acciughe, che richiamano profumi e sapori della tradizione rivierasca ponentina.
LanguageItaliano
Release dateAug 11, 2012
ISBN9788875637668
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    L'importanza delle acciughe - Retteghieri Nicoletta

    Cop_12030_acciughe.png

    I tascabili

    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    impaginazione

    Raoul Gazza

    copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846

    isbn 978-88-7563-766-8

    Nicoletta Retteghieri

    L’importanza delle acciughe

    Delitti a Loano

    LogoFratelliFrilliEditori.JPG

    Fratelli Frilli Editori

    Ai giullari, al carpe diem, alla risata, alla vita

    (a qualunque costo e nonostante tutto)

    NOTA INTRODUTTIVA

    Non vi tedio, cari lettori, altrimenti non proseguite e vi perdete qualcosa (scusate, è la lezione di autostima n° 46). Solo due informazioni: primo, il personaggio principale, la Berta, ESISTE! Sì, con qualche variante, beninteso, ed il suo vero nome è, per la precisione, Anna Maria Bianca Berta Siccardi. Chi è, volete sapere?

    Nientemeno che mia mamma. Grazie, mamma, per l’ispirazione; spero che il romanzo ti piacerà e che non ti scandalizzerai troppo...

    Secondo: io sono genovese per nascita, crescita, ed attuale dimora, ma mia mamma e tutte le generazioni prima di lei sono di Loano. E io ho passato interminabili estati, a Loano, a volte anche rompendomi le palle, diciamolo, ma ho imparato ad amarla, a conoscerla.

    Questo romanzo è quindi un tributo, un segno di affetto e – perché no? – un tentativo per farla conoscere a chi ancora non c’è stato.

    Cari probabili turisti, visitatela pure tranquillamente; non c’è nessun serial killer, almeno per ora...

    Le pietre del torrente sono sempre quelle. Immutabili, riarse dal sole che le fascia d’estate, tanto che quasi ti aspetti di vederle sudare. O ghiacciate d’inverno, che ti sembra di potertici costruire un igloo. Tutt’al più spostate da frotte di anatre starnazzanti per loro questioni condominiali. Ma pietre sempre insensibili a tutto, anche al tocco della carne che poco prima era viva e al rivolo di sangue che schiarisce non appena l’acqua capricciosa lo va a cercare.

    Capitolo 1

    Loano, giovedì 14 giugno, mattina

    La Berta Riccardi dava il meglio di sé quando si trattava di cucire e tagliare i panni addosso agli altri. Bisogna dire, a sua discolpa, che se non li cuciva e tagliava lei i panni, chi lo poteva fare meglio? Era stata una sarta, una anche brava, che diamine. Prima, cioè tanti anni prima, lavorava nella sartoria della Celestina Croce, che si diceva fosse davvero la miglior sartoria di Loano. Beh, per forza, visto che era anche l’unica. Ma in realtà a servirsi lì ci veniva gente da Pietra, Finale, Albenga, finanche da Alassio, che a quell’epoca era vista un po’ come una Portofino, rispetto a Loano, che gli stessi loanesi consideravano un paesotto. Altro che adesso, che si era evoluta e si autodefiniva città, riempiendo i giornali con un sacco di iniziative. D’altra parte i posti che vivono di turismo devono lanciarsi in qualche modo.

    La Berta non è che i turisti li amasse alla follia, soprattutto negli ultimi tempi, quando bande disordinate e fracassone calavano dall’estero (per lei fuori Loano era già estero) per fare vacanze tutte uguali, tutte caotiche e tutte stressanti. Solo per poter tornare in squallidi uffici e fabbriche e dire di essersi proprio riposati e divertiti. Mah. Non a caso la Berta amava l’autunno, quando Loano si trasformava in un posto quieto e delizioso, e gli scogli del molo dove lei andava a prendere il sole erano finalmente più numerosi dei bipedi che vi stazionavano in luglio e agosto.

    Ma adesso era giugno e la Berta si preparava ad un’altra estate di passione. Intanto applicava una striscia di passamaneria dorata ad una gonna che le aveva commissionato la signora Manfredi, una milanese poco più giovane di lei che abitava nella sua scala per almeno metà anno. Far passare il filo nell’ago era sempre un po’ un problema, e dire che si era operata solo l’anno prima di cataratta. Ma forse aveva ragione Davide, suo figlio. Quasi sempre il problema non è la vista, ma il fatto che il filo non è reciso di netto e quindi fa fatica ad infilarsi. Ma – rifletteva la Berta – se sei sbrincia[1] non ti accorgi neanche che il filo non è reciso di netto.

    Si interruppe di colpo. Coglieva dell’agitazione giù in strada. Abitava al primo piano ed il suo poggiolo era il più basso di Loano. Praticamente quando uno ci stava sotto e parlava era come averlo in casa.

    Spazzò i residui di filo dalla cappa a fiori che usava per stare in casa ed andò a vedere. L’Agnese du Besagno, che assieme al marito Pinin gestiva il bar sottostante, era impegnata in una concitata conversazione con altre due comari del posto. Naturalmente gestire un bar non c’entrava niente col fare la besagnina, come il suo soprannome suggeriva, ma i soprannomi sono duri ad abbandonarti, e lei si portava appiccicato il suo da quando aiutava il padre nel negozio di frutta e verdura. Poi aveva incontrato Pinin Schiappacasse, che gestiva il baretto della stazione coi genitori, e che aveva fatto carriera fino a mettere su un esercizio discretamente elegante e ben frequentato dai turisti, dall’originale nome Da Pinin. Peccato che, di due figli ormai grandi che avevano messo al mondo, uno fosse emigrato in India sulle tracce di un santone che in foto sembrava un elefante drappeggiato con un pareo rosa, e l’altro lavorasse nel bar, sempre mugugnando che non vedeva l’ora di mollare ’sto cazzo di lavoro. Se andavano in pensione loro, e non mancava tanto, che ne sarebbe stato del bar?

    Comunque la Berta si sporse dal poggiolo quel tanto che bastò a farsi notare dall’Agnese, che ovviamente non stava più nella pelle per poterle dare la notizia. Mollò le due befane e si piazzò a naso in su. La cofana cotonata dall’improbabile colore pannocchia abbrustolita sembrava poterle crollare da un momento all’altro.

    Berta! Hai sentito? Un affare....

    Alla Berta seccava naturalmente moltissimo ammettere di non essere al corrente di qualcosa di clamoroso, ma da qualcuno le cose bisogna pur cominciare a saperle, per poi poterle spiattellare a qualche altro ignaro di turno. Si accorse di non avere inforcato gli occhiali, che portava appesi al collo con una catenella di plastica azzurrina. Cataratta a posto, va bene, ma non è che sia diventata proprio una lince. Li indossò e poté constatare come l’Agnese fosse veramente brutta, con quella bocca flaccida che le ricordava una fetta di prosciutto accartocciata come avanzo nel piatto, e i denti che sembravano un’opera di Gaudì. La Berta ci godeva un po’, in quello. Un po’ tanto, veramente, visto che lei era stata una gran bella ragazza ed ancora adesso, a settantaquattro anni, si beccava delle botte di bella donna da uomini che attentavano al suo stato vedovile. I fini capelli bianchi, accuratamente permanentati, formavano una nuvola dai riflessi argentei che spiccava sulla pelle abbronzata. Gli occhi castani guizzavano ancora impertinenti sotto al rimmel e la bocca tinta di rosso amarena perlato rivelava una chiostra di denti perfetti. Non proprio tutti veri, ma nessuno andava a farci un’indagine dei RIS.

    L’Agnese non aspettò la risposta della Berta ma, a semplice distanza poggiolesca, facendo finta di parlare sottovoce (e avendo lei una voce chioccia il sottovoce era quantomeno utopistico), si produsse in un’interpretazione filodrammatica.

    Un morto! E pare che l’abbiano fatto fuori! esclamò con malcelato entusiasmo. Un morto è un morto e la sera stessa magari si sarebbe detto il rosario per lui all’oratorio, ma poter dare la notizia di un fatto così clamoroso, vuoi mettere?

    La Berta capì che era indispensabile incalzare la Scorfana du Besagno, se si voleva vendere bene una notizia così succulenta. Chiese quasi con noncuranza: Ma chi era? E dove l’hanno trovato?.

    L’Agnese si guardò attorno, come per assicurarsi che nessuno fosse in grado di percepire quel segreto di stato, poi pseudo-bisbigliò, rispettando scrupolosamente l’ordine delle domande: Non si sa ancora chi sia. Comunque l’hanno trovato nel Nimbalto, dal ponte del Gioco del Pallone.

    Il Gioco del Pallone è una grande piazza che ha anche un nome normale, piazza Cadorna, ma per i loanesi resterà per sempre u zogu du balun, forse dai tempi in cui Genoa e Samp erano entità embrionali. La Berta visualizzò mentalmente il ponte di S. Sebastiano, detto du Nicciu per via di una nicchia con una madonna posta a metà dell’unica arcata.

    Ma perché dovrebbe essere un omicidio? Non può essere semplicemente caduto giù? chiese, ma forse ragionava solo a voce alta.

    L’Agnese protrasse le fette di prosciutto a mo’ di culo di gallina e ri-pseudo-bisbigliò: Mah, non so, ho sentito che lo dicevano. Forse è morto prima e l’hanno buttato giù, oppure lo hanno ucciso lì, sul greto. Alzò le spalle, come dire che non aveva altre ipotesi e che le sue informazioni finivano lì.

    La Berta fece un veloce cenno di saluto e rincasò. Tolse la cappa a fiori, indossò una gonna nera con una maglia beige e aprì la gabbia di Roderico. Roderico, detto amichevolmente Roddy, era un gerbillo color miele che serviva alla Berta soprattutto come destinazione dei suoi soliloqui. Un ascoltatore ci voleva e poco importava se mentre lei parlava lui passava il tempo a scorrazzare dentro alla ruota o ai cunicoli trasparenti della gabbia. O a sgranocchiare frutta secca. La Berta lo aveva ereditato dalla Pasqualina Oddone, la cui nipote di sette anni l’aveva voluto per ignorarlo poi quasi completamente più o meno dopo sei mesi, quando in casa era entrato un cucciolo beagle che stava sperimentando più o meno la stessa sorte. La Berta non aveva mai manifestato un così grande interesse per i roditori, ma siccome la Pasqualina non faceva che lamentarsi di quella specie di topo, una volta che era andata a trovarla, il minuscolo essere le aveva fatto tenerezza. Le sembrava una missione sottrarlo a quella gabbia di matti. In gabbia sì, ma con una persona che lo rispettasse e si prendesse cura di lui. Roddy era così diventato un compagno per la Berta, che ne andava fiera e alcuni giorni prima si era fatta addirittura costruire da Giulin il cuoiaio una piccola imbracatura rossa con relativo guinzaglietto per portarlo fuori. Roddy era un gerbillo educato ed affettuoso, quindi non c’era motivo di pensare che non tornasse sempre fra le braccia della padrona, però all’esterno il guinzaglio era una misura cautelativa. Più che altro per proteggerlo dal rischio di essere schiacciato come un chewing gum da qualche sandalo di barbaro turista.

    Comunque in quel momento la Berta imbracò Roddy e, posizionandolo amorevolmente nella tasca della gonna, si diresse alla porta. Si accorse in tempo che aveva ancora le ciabatte ai piedi. In un posto dove ancora c’era qualche traccia di tempi antichi e ci si poteva affacciare dal portone in pigiama, non era tanto strano dimenticarsi di indossare le scarpe. Comunque la Berta mise un paio di sandali neri con zeppa in sughero, prese chiavi e portafoglio coi documenti e uscì di casa. Il Gioco del Pallone era a un isolato di distanza.

    [1] Sbrincia: debole di vista.

    Capitolo 2

    Loano, giovedì 14 giugno, mattina

    Intorno alle undici del mattino Davide Traverso stava spiegando ai signori Falabelli (Farabelli? Faladelli? In realtà non lo aveva ancora capito bene) che la casa che stavano visitando non presentava assolutamente problemi di rumore. Perbacco, una traversa di via dei Gazzi, che rumore poteva avere? C’è da dire che lui, abituato alla sua garçonnière sul lungomare, al confronto avrebbe trovato più silenzioso perfino il cortile di un asilo nido. Ma via, quei due tipi venuti direttamente da Lissone non potevano sostenere che in quella posizione sarebbero stati disturbati dal rumore delle macchine di via dei Gazzi e magari addirittura dell’Aurelia. Davide, esperto in tecniche di convincimento di probabili acquirenti, si posizionò a fianco dell’ampia finestra che dava sul giardino, in modo che la luce del sole colpisse i suoi occhi verdi e li facesse brillare come l’acqua di un laghetto di montagna. Sfoderò il suo mitico sorriso, quello che avrebbe fatto acquistare stufe ai beduini sahariani, e cominciò il discorsetto per convincere i Falabelli-Farabelli-Faladelli che si poteva escludere in maniera assoluta che un qualche rumore potesse turbare la quiete degli abitanti di quella incantevole casetta a due piani così centrale e a meno di duecento metri dal mare.

    I Falabelli-eccetera-eccetera stavano annuendo, cosa che lo faceva sperare nella conclusione dell’affare, quando gli squillò il cellulare. Era Cesare Ferrari, il suo socio, che parlava masticando focaccia (Davide era certo fosse focaccia; quella era l’ora della focaccia per Cesare).

    Mmmm Davide hai scentito cos’è sciuccesso sgnum sgnum sgnum. Merda, è roba grosscia....

    Che caz... volo dici?. Davide si era appena reso conto che, anche se i Fala-quello-che-erano si erano appartati a commentare sul fondo della stanza, non stava bene usare un linguaggio così poco formale davanti a loro.

    Un omiscidio! Hanno usciso uno al ponte del sgioco del pallone! Quello dal minigolf, sciai?.

    Ovvio che lo so. Ma chi è? Com’è successo?.

    E che ne scio? Sgnum. Me l’hanno detto, sc’è un gran casgino e non sci parla d’altro in sgiro!.

    Davide entrò in fibrillazione. Quelle cose lo intrigavano e si domandava se sua mamma ne fosse già venuta a conoscenza. Facevano a gara, i due, nell’essere i primi a sapere le notizie.

    Chiuse la comunicazione con Cesare, dicendo che stava lavorando, e guardò i Fala-Fara da Lissone. La risposta dei due fu classica: Ci pensiamo su e le facciamo sapere. Percentuale di probabilità che si rifacessero vivi: 40%. Che intendessero acquistare: 15%. Va beh, il suo lavoro d’altra parte era fatto così.

    Aspettò che i tizi se ne andassero e chiuse a chiave la porta della villetta, incerto se chiamare la Berta al telefono o raggiungerla a casa. Optò per la seconda ipotesi, tanto sarebbe comunque andato a mangiare da lei. Chiuse anche il cancello e, valigetta in mano, si diresse a piedi a casa di mammà. Un bel vantaggio fare l’agente immobiliare in un posto come Loano, dove la maggior parte delle volte non hai bisogno dell’auto.

    Le sbarre del passaggio a livello di via Cesarea erano abbassate e Davide ne approfittò per togliersi la giacca di lino blu scura ed allentare appena la cravatta in tinta. Gli piaceva essere elegante, anche quando faceva caldo. D’altra parte era un modo sicuro per attirare un sacco di pollastre, ed in questo era avvantaggiato dal fatto di essere un gran bonazzo, come avrebbe detto la sua amica Marianna, che si dichiarava apertamente pazza di lui. In realtà Davide non se la filava proprio, la Marianna, una alta e secca con un naso a becco di rapace e ciuffi di capelli slavati che lei riavviava sempre, in preda a chissà che frenesia. Un po’ di tette sì, ma non abbastanza. Poco culo. E poi comunque era brutta. Maledettamente simpatica, questo sì, ma al bonazzo non bastava. Faceva sua la teoria del Dio li fa e poi li accoppia. In fondo c’erano in giro dei bruttazzi che si potevano giustamente cuccare una come la Marianna. Il problema erano le coppie formate da donne belle e scorfani o da uomini avvenenti e racchie. In quel caso Davide rinunciava a capire che strane alchimie entrassero in gioco. In ogni modo la Marianna gestiva il negozio di abbigliamento proprio a fianco della sua agenzia in corso Roma ed era stato inevitabile averci fatto amicizia. E poi lui era convinto che lei sotto sotto avesse un fascino che le permetteva di prenderne abbastanza. Quindi contenti tutti.

    Il treno arrivò urtando le sue orecchie con un fischio esagerato. D’altra parte ci sono sempre i cretini che passano sotto alle sbarre col rischio di restarci secchi. Per non parlare dei suicidi, ma a quelli del fischio del treno non frega niente, anzi. Problemi poi degli addetti ai lavori che devono andarli a riassemblare e a raccattare.

    Le sbarre si alzarono e Davide, attraversando i binari, incrociò il gruppetto di persone che stava dall’altra parte. Pochi turisti – per forza, eravamo ancora a giugno – con qualche salvagente o materassino. Quelli che non erano turisti avevano volti mai visti prima, altro che un tempo, quando a Loano si conoscevano tutti. Poi individuò una persona nota. Un ammasso di carne flaccida come cera che sta per colare. La Maria Bargiglia. Naturalmente detta così per via di una notevole pappagorgia. Davide si chiedeva da quanto l’anziana cicciona fosse soprannominata così; di solito i soprannomi te li affibbiano subito. Voleva forse dire che si trascinava i bargigli dalla nascita? Beh, comunque non era un interrogativo da farlo stare sveglio di notte. La guardò pronto a salutarla. Lei lo conosceva da quando era nato. Aveva gestito fino a qualche anno prima il negozio di alimentari di via Cavour che adesso era passato al figlio ed al nipote e Davide ci era entrato chissà quante volte con la Berta.

    Stranamente, la Maria Bargiglia lo guardò e lo incrociò senza salutarlo. Lui evitò di attirare la sua attenzione. Non moriva certo senza il suo saluto e poi capita che uno sia sopra pensiero.

    Fece un cenno di saluto a Mauri, il macellaio, che rispose da dietro alla vetrina. Arrivò in corso Europa e infilò i portici dal lato della scuola. Non poteva fare a meno di pensare, ogni volta, che quella strada fosse un obbrobrio, con quegli orrendi palazzi stile anni ’60. Eppure ci aveva venduto ed affittato tanti appartamenti. Peggio per chi li prendeva. In fondo erano vicini al mare, cavolo, non si può bere e soffiare allo stesso tempo, sciurbì e sciuscià, come si dice in linguaggio locale. Intimamente però era

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