Bacci Pagano cerca giustizia: Nuove indagini per l'investigatore dei carruggi
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Info su questo ebook
Quando si presenta all’appuntamento con Bacci Pagano ha l’aria dimessa e veste con la trasandatezza che può permettersi chi da sempre appartiene alla comunità in cui vive.
Si esprime in un italiano ricco e appropriato con marcato accento genovese. È timido e cortese, ma un fatto sconcerta Bacci Pagano: Mario Canepa è un uomo di colore. Figlio adottivo dei Canepa, è stato, dopo la morte del padre, titolare della “Mario Canepa & figlio”, una ditta che importava caffè dal Corno d’Africa.
“Ritrovi mio figlio dottor Pagano.”
Inizia così per Bacci un’inchiesta, forse la più velata di malinconia della sua carriera, nella quale il suo senso di giustizia, forse retaggio dei sogni e delle speranze della gioventù che credeva perduti per strada, lo spinge ad andare con determinazione oltre il proprio mandato, fino a risolvere un caso ben più oscuro e complesso del solo ritrovamento del giovane.
Completano il libro altre quattro brevi inchieste di Bacci Pagano: Bacci Pagano al Roger Café, Bacci Pagano sul lago, Bacci Pagano al ballo di Fontanigorda, Gli uccelli di Pechino.
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Anteprima del libro
Bacci Pagano cerca giustizia - Morchio Bruno
I tascabili
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editing e impaginazione
Michela Volpe
layout copertina
Sara Chiara
Dello stesso autore nel catalogo Fratelli Frilli Editori
Bacci Pagano - una storia da carruggi
Maccaia - una settimana con Bacci Pagano
La crêuza degli ulivi - le donne di Bacci Pagano
copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori
Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846
isbn 978-88-7563-752-1
Bruno Morchio
Bacci Pagano cerca giustizia
Nuove indagini per l’investigatore dei carruggi
LogoFratelliFrilliEditori.JPGFratelli Frilli Editori
a Claudia
Un ibrido d’uomo
Le gallerie, che il treno infilava una dopo l’altra, annunciavano che Genova era ormai vicina. Di lì a poco avrebbe rivisto il mare.
Superata l’ultima stazione dell’Appennino, man mano che i minuti trascorrevano, un’emozione strana, misto di ansia e frenesia, si impadroniva di lui. Non si trattava di una sensazione piacevole, ma il fatto di avvertirla lo caricava di speranza. Se non altro, dopo tanto tempo, provava finalmente qualcosa.
Era partito la mattina presto dalla clinica I Tigli
di Bellinzona, lasciandosi alle spalle una interminabile serie di giornate vuote e tutte uguali. Non avrebbe saputo dire quante, solo che la cifra sborsata era stata alta e testimoniava che il soggiorno tra quelle montagne era durato a lungo. Non avrebbe nemmeno saputo dire perché.
I medici avevano diagnosticato una depressione atipica, ma lui non si sentiva disperato.
L’unica certezza era che non gli importava niente di niente. Neppure la musica jazz riusciva più a commuoverlo. L’ultima volta che aveva ascoltato una compilation di Erroll Garner, uno dei suoi preferiti, anche il tocco misurato e sicuro del maestro lo aveva lasciato indifferente, nessun brivido alle liquide scale di Dancing in the dark, nessuna vibrazione quando era partita la struggente melodia del St. Louis Blues. Da quel momento gli era mancato il coraggio di accendere la radio o infilare un cd nel lettore.
Ora che stava ritornando a casa – anche se la sua casa non c’era più – a ogni strappo di luce tra una galleria e l’altra sobbalzava e sentiva il mare farsi sempre più vicino. Questo gli metteva addosso un’agitazione che quasi lo spaventava. Avvertiva il battito del cuore accelerare e, intanto, stropicciava le suole delle scarpe sul sudicio pavimento di linoleum e stringeva le mani sudate facendo schioccare le dita.
Non disponendo di molto denaro aveva viaggiato in seconda classe. La carrozza puzzava della stoffa lercia che rivestiva i sedili e di umanità andata a male. Gli pareva che quel fetore gli avesse impregnato gli abiti, la camicia bianca con il colletto liso, la giacca e i calzoni di gabardine. Non vedeva l’ora di raggiungere l’appartamento affittato dallo zio Oreste per fare una doccia e cambiarsi.
Anche questo gli sembrò un segno di ritrovata salute. Quando era in clinica non sentiva il bisogno di lavarsi, come se il corpo non fosse roba sua. Le infermiere svizzere, invece, erano intransigenti e pretendevano che ogni mattina stazionasse almeno cinque minuti sotto la doccia.
Seduto di fronte a lui, un uomo grasso che sudava emanando un profumo dolciastro di mele cotte sfogliava distrattamente il giornale. Gli cadde l’occhio su un titolo della prima pagina.
Alla periferia di Napoli sommersa da montagne di spazzatura un campo rom era stato preso d’assalto. Disperati che aggredivano altri disperati. Discariche e baraccopoli, mondezza e nomadi, sembravano diventati la stessa emergenza: rifiuti tossici di cui liberare la terra, restituendole fertilità e innocenza attraverso un bagno di odio purificatore.
Aveva avvertito una fitta da qualche parte, tra il cuore e la spalla sinistra, ma non si era allarmato perché i medici gli avevano garantito che le condizioni del suo cuore erano eccellenti.
Scese alla Stazione di Porta Principe trascinandosi dietro il pesante trolley e, sulla scala mobile che saliva fino all’atrio, sorrise al pensiero che quello che lo aspettava aveva un peso infinitamente maggiore che nessun trolley avrebbe potuto contenere.
Si affacciò sulla piazza oltre le colonne del portico e tutto gli apparve come sempre: i taxi in attesa, l’edicola dei giornali, il chiosco delle bibite, il marmo sporco del monumento a Cristoforo Colombo.
Guardò l’orologio.
Erano i primi di giugno, le sei del pomeriggio di una giornata contro cui l’estate premeva, appena trattenuta da un involucro opaco di maccaia. Sollevò lo sguardo e si accorse che il cielo aveva il colore del latte di mandorla, lo stesso che la luce stampava sul volto di pietra del navigatore.
Si avviò lungo via Balbi seguendo la scia di una comitiva di turisti giapponesi, conscio della impossibilità di mimetizzarsi in mezzo alle loro facce piatte e rotonde e a quegli occhi a mandorla che si prolungavano nelle asettiche videocamere di ultima generazione.
Quello restava uno dei timori che i dottori svizzeri non avevano saputo curare con le loro magiche pillole colorate. Forse era più un fastidio che un timore, l’idea di essere fermato da qualcuno che lo aveva conosciuto nella sua vita precedente e rispondere alle domande che si fanno in questi casi. Come va? Come sta Paola? E Rachele? E Giovanni?
Cosa avrebbe potuto dire, senza mentire e senza suscitare compassione, di abbastanza banale da non essere preso per pazzo? Che andava così così, che non era un periodo facile. Paola era partita per un lungo viaggio, Rachele lavorava in ospedale e viveva da sola in un monolocale sulle alture e Giovanni chissà…
Dove era adesso suo figlio? Cosa stava facendo? Aveva provato a chiamarlo un’infinità di volte sul cellulare, ma l’apparecchio risultava spento. Doveva avere cambiato numero senza avvertirlo e senza fornirgli una spiegazione.
Il pensiero gli fece male, provò fatica nel respirare e la attribuì alla stanchezza e al fatto che non toccava cibo da quasi otto ore.
La casa era in un carruggio che scendeva verso San Giovanni di Pre. Un piano ammezzato semibuio e ammorbato da un tanfo di cantina e miseria che si avvertiva fin sulle scale. Lo raggiunse salendo i gradini di ardesia, consumati e chiazzati da macchie bianche, che dovevano essere stati lavati con uno straccio imbevuto d’acqua sporca. Sul ballatoio c’era uno stuoino nuovo, sotto il quale lo zio aveva nascosto la chiave.
L’appartamento era composto da tre vani.
La cucina, arredata con un tavolo, quattro seggiole spaiate, un vecchio divano e una credenza di metallo e formica stile anni Cinquanta.
La camera occupata dal letto Ikea con il materasso ancora avvolto nel cellophane e un armadio impiallacciato, forse rimediato nella spazzatura.
Una porta a soffietto di plastica metteva dentro il piccolo bagno dall’intonaco scrostato. Alla parete sopra il lavabo era fissato uno specchio rotondo, il water era privo di coperchio e la vasca, con la prolunga della doccia, era rivestita da una patina giallastra che avrebbe richiesto una energica ripulitura. La stanza prendeva luce da una finestrella quadrata che dava sul cavedio, chiusa da un griglia arrugginita che serviva a tenere fuori i ratti.
Senza preoccuparsi di cercare la caldaia, aprì il trolley e recuperò l’accappatoio cremisi e un flacone di bagnoschiuma. Si spogliò nudo e, dopo essersi infilato nella vasca, rimanendo in piedi si innaffiò d’acqua gelida, cercando inutilmente di non allagare il pavimento. Si asciugò alla bell’e meglio, indossò una maglietta e calzoni puliti e uscì di corsa.
Scese fino in via Gramsci, dove la luce gli riempì il cuore e poté finalmente vedere il porto. Accese la prima sigaretta della giornata e gli sembrò di cominciare a respirare.
Per un attimo ebbe l’impressione di avere recuperato la propria vecchia pelle. Una sensazione difficile da esprimere in parole, quasi che il presente avesse trovato un esile aggancio ai giorni e agli anni trascorsi, restituendogli un senso di continuità dell’esistenza. Perché per lui il passato era diventato un ricordo sbiadito e incolore, labile come certi sogni del mattino che il risveglio diluisce in un torbido bagno di realtà.
Mentre mi racconta queste cose, se ne sta seduto in punta di seggiola nel mio ufficio, con gli occhi socchiusi per proteggersi dal riverbero della luce. Sono le due del pomeriggio e dallo stradone sale il vociare degli studenti di architettura che entrano ed escono dalla facoltà. In sala di aspetto mi ha stretto la mano e si è guardato intorno con aria spersa, quasi a domandarsi cosa ci facesse lì e come ci fosse finito.
Una decina di giorni fa mi ha telefonato dalla Svizzera e abbiamo parlato per alcuni minuti. Voleva sapere se potevo vederlo appena tornato a Genova. Alla domanda non si accompagnava nessuna spiegazione, solo una punta di disagio, forse per scusarsi di una pretesa che poteva suonare eccessiva.
Ha accennato il nome di un avvocato genovese, conoscenza comune, che si era raccomandato di rivolgersi a me. Ha raccontato per sommi capi del suo mestiere, della crisi che per quattro anni gli ha impedito di lavorare, dei debiti accumulati e del lungo ricovero, pagato con la vendita dell’appartamento di famiglia, alla quale aveva provveduto uno zio facoltoso che gli aveva trovato un buco in affitto nella zona dell’angiporto.
Che cosa volesse precisamente non lo ha detto, e ho avuto l’impressione che neppure lui avesse le idee chiare. Appena fissato l’appuntamento e prima di staccare la comunicazione, mi ha sorpreso con una domanda a bruciapelo: «Lei è un investigatore privato, vero?».
«La licenza dice così», ho risposto.
L’imbarazzo gli impediva di continuare, ma fece uno sforzo. «Sto attraversando un brutto momento», spiegò. «Posso sapere quanto