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Milano rovente: L'estate feroce del commissario Ferrazza
Milano rovente: L'estate feroce del commissario Ferrazza
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Milano rovente: L'estate feroce del commissario Ferrazza

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About this ebook

Ritornano il commissario Ferrazza e l’ispettore Ceolin detto ‘Ndemo tosi, qui coinvolti in un caso torbido, dai confini ambigui, al limite delle loro competenze ufficiali. Un imprenditore dal passato avventuroso, Enea Bentivoglio, titolare di una ditta di riciclo di rifiuti, viene trovato cadavere in un noto ritrovo di tossicodipendenti. Del delitto è accusato Vittorio Gugliaro, un agente della Polizia giudiziaria in forza al commissariato dello stesso Ferrazza, e la delega per le indagini viene assegnata al capitano dei carabinieri Francesco Calabrese. Temendo una vendetta da parte dell’Arma, a causa di una precedente inchiesta di Ferrazza che aveva portato all’incriminazione di elementi dell’Arma stessa nel caso denominato “Notturno metropolitano”, il commissario si attiva in un’indagine parallela coadiuvato dall’ispettore Ceolin e dal detective, ex carabiniere, Romano Montanari. Il terzetto, che rappresenta tre segmenti umani del classico “investigatore solitario” della narrativa noir, si troverà immerso in una vorticosa vicenda di traffici illeciti di rifiuti e di flussi internazionali di stupefacenti, in cui sono coinvolti il boss della ‘ndrangheta Manlio Tripodi e una misteriosa donna russa, Julia Litvinova, una vecchia conoscenza di Bentivoglio approdata in Italia con il figlio Ivan. Al terzetto di unirà segretamente il maresciallo dei carabinieri Iginio “Joe” Callegari, che non crede alla colpevolezza di Vittorio Gugliaro. Sarà un’inchiesta faticosa, la loro, complessa, condotta sul filo del rasoio, per di più trascinata, tra mille ostacoli, colpi di scena e verità inaspettate, in una Milano oppressa da un caldo tropicale che ottunde le menti e fiacca i corpi, una città nerissima, nella quale, parallelamente allo svolgimento del caso, si assiste allo sgretolamento del rapporto tra Daniele Ferrazza e la sua compagna, l’anchor woman della tv Laura Barbieri.
Milano rovente è un romanzo noir di denuncia, un’indagine a tutto tondo sugli aspetti neri del mondo nel quale viviamo. Un romanzo che fa male, perché spiazza il lettore, costringendolo a porsi delle domande alle quali è difficile dare risposte.

Alessandro Bastasi è nato a Treviso nel 1949. A 27 anni si è trasferito a Milano, dove attualmente vive. Nel passato è stato attore e autore di numerosi articoli di argomento teatrale per riviste del settore e quotidiani. Dal 1990 al 1995 ha trascorso lunghi periodi all’estero, in particolare a Mosca tra il 1990 e il 1993. Gli avvenimenti di quegli anni - di passaggio dall’URSS alla nuova Russia - gli hanno dato materia per il suo primo romanzo La fossa comune, pubblicato nel 2008 e ambientato nella capitale russa. In seguito ha pubblicato i romanzi La gabbia criminale (2010), Città contro (2012), La scelta di Lazzaro (2014), Era la Milano da bere (2016), Morte a San Siro (2017) e Notturno metropolitano (2018), gli ultimi tre con Fratelli Frilli Editori. Suoi racconti sono presenti in varie antologie e siti letterari.
LanguageItaliano
Release dateOct 25, 2019
ISBN9788869434051
Milano rovente: L'estate feroce del commissario Ferrazza

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    Milano rovente - ALESSANDRO BASTASI

    Dicembre 1990

    Seduto a un tavolo del ristorante dell’albergo Moskva. Tovaglia blu, tovaglioli azzurri.

    Dal suo posto, scostando con la mano i pesanti tendaggi anneriti dal tempo, vedeva la piazza Rossa illuminata, coperta da un compatto strato di neve. Il cameriere, una macchia d’unto sulla manica della giacca bianca, gli portò l’antipasto: caviale nero, cetrioli, fettine di storione. L’uomo lo guardò, la faccia di un cadavere, il collo sottile che fuoriusciva dal colletto di una camicia sgualcita, strozzato da un farfallino nero dalle ali flosce.

    «Da bere cosa desidera?», domandò il cameriere, in russo.

    «Vodka», rispose l’uomo.

    La sala era ampia, sontuosa, quasi vuota. Ma Viktor sapeva che in meno di mezz’ora tutti i tavoli sarebbero stati occupati. Politici e funzionari statali avrebbero lasciato in fretta il Cremlino e in pochi minuti avrebbero raggiunto il Moskva, dove gran parte di loro dimorava. Nel mezzo della stanza uomini in pantaloni stretti e maglietta nera allestivano in silenzio il palco per lo show serale. Balletti tradizionali, il numero di una contorsionista, prestigiatori in frac. Le solite cose, per un pubblico che avrebbe applaudito senza entusiasmo.

    Viktor si versò da bere e guardò l’orologio. Le otto e un quarto. La donna che stava aspettando era in ritardo. Scolò il suo bicchierino di vodka. Mai una volta che sia puntuale, pensò, addentando un cetriolo. Dal tavolo di fronte al suo due ragazze lo stavano fissando. Sorridevano. Quella bionda gli fece capire con un cenno che avrebbero gradito un invito. Lui scosse il capo, stringendosi nelle spalle. Le due ragazze continuarono a sorridergli, anche se gli occhi esprimevano delusione.

    Alle otto e trentacinque la donna che Viktor attendeva comparve sulla porta del ristorante, si guardò intorno qualche istante, lo avvistò e gli fece un breve gesto di saluto. Lui si alzò, l’aiutò a levarsi cappotto e colbacco e li consegnò alla guardarobiera, un’arcigna signora grassa dai capelli bianchi. Quindi la fece accomodare al suo tavolo. Nonostante il freddo esterno, sui dieci gradi sotto zero, la donna era sudata.

    «Una riunione che non finiva più. Scusami per il ritardo», disse, in italiano, mentre si sedeva. Le labbra morbide, quasi immobili.

    Il medesimo cameriere portò l’antipasto alla nuova venuta e chiese a Viktor se voleva una zuppa. Lui con un gesto della mano lo invitò ad andarsene.

    «Allora?», disse.

    L’altra non rispose subito, strinse le mascelle. Poi sollevò il mento, evitando però lo sguardo di Viktor.

    «Un milione, di più non sono riuscita. Il nostro contatto è irremovibile.»

    «Ah.»

    Viktor la fissò, costringendo la donna a guardarlo negli occhi.

    «A voi quanto va?»

    «Duecentocinquantamila dollari. Il solito, il venticinque per cento.»

    Lui afferrò stizzito il tovagliolo e lo gettò in mezzo al tavolo.

    «Non se ne parla. Io pago i costi del sistema, il trasporto, i soldi che devo sborsare alle dogane per farlo passare. Con tutti i rischi del caso, che se mi beccano mi sbattono dentro e buttano via la chiave. A me non resta quasi nulla. No. Di’ al boss che si trovi un altro mediatore.»

    Lei iniziò lentamente a mangiare. Poi, con la bocca piena di caviale, disse:

    «Guarda che, se non accetti, qui hai finito. Ne parla con Kryuchkov, e tu in Unione Sovietica non ci metti più piede.»

    «Te l’ha detto proprio in questi termini?»

    «Me l’ha fatto capire.»

    «Senti, ma tu, con Kryuchkov…»

    «Ho fatto il possibile, credimi. Ma non c’è nulla da fare. E comunque meglio che non insistiamo, Viktor, coi tempi che corrono quelli hanno ben altro cui pensare.»

    «Cos’è, il segretario generale che rompe il cazzo?»

    «Proprio lui. Sembra che abbia in testa di fare piazza pulita e di mandarci tutti in pensione. Approfittane, prima che sia troppo tardi. Ché poi per un po’ te ne dovrai stare buono anche tu.»

    «Mmm…»

    «Dai che hai capito.»

    Il cervello di Viktor si addentrò in una sequenza di somme, sottrazioni e percentuali. Un ufficio del KGB aveva richiesto un elaboratore IBM di media potenza, lui avrebbe dovuto aggirare l’embargo e farlo arrivare a destinazione. Il prezzo del sistema, completo di periferiche, era di quattrocentocinquanta milioni di lire. Tragitto Italia-Austria, consegna alla filiale estera di una ditta italiana prestanome, fine della tratta occidentale. Quindi Austria-Budapest e proseguimento verso Mosca. Il tratto più pericoloso era Austria-Budapest, la Polizia doganale stava diventando sempre più nervosa, e forse ventimila dollari questa volta non sarebbero bastati.

    Viktor si trovò a pensare come fosse strano il mondo. Proprio ora che il PCUS aveva un segretario generale con idee più liberali, fare affari diventava più difficile e complicato. La promessa di una lotta senza quartiere alla corruzione li stava mettendo tutti in riga. A meno che…

    A meno che qualcuno non stesse già progettando di mettere in riga lui.

    «Ok», disse Viktor. «Affare fatto, consideriamolo un investimento. Mi metto subito al lavoro.»

    «Bene. Hai fatto la scelta migliore.»

    La donna posò la mano sinistra su quella di lui e chinò il capo verso destra, abbassando gli occhi, mentre un sorriso si faceva strada tra le labbra socchiuse.

    «E… Dimmi un po’», sussurrò, «per dopo… Insomma, immagino che tu non abbia alcun interesse per il solito, stupido spettacolino serale dell’albergo, eh?»

    1.

    Ragazzi, ragazze, gente di mezza età, vecchi sopravvissuti. Il caldo rovente del pomeriggio, dopo lo scroscio violento del mattino, rimane incastrato nel cemento e rigetta zaffate di calore umido sulla massa informe che s’è raccolta in via Sant’Arialdo. Volti terrei, corpi rattrappiti in indumenti impregnati di sudore. Solo una donna dalle labbra gonfie e quasi calva, avvolta in un giaccone lacero e pesante, batte i denti per il freddo interno che le domina viscere e polmoni. Una Hyundai I10 sospetta è ferma al sottopasso. Al volante un uomo dai capelli rossi tra i trenta e i quaranta, che dopo qualche minuto apre la portiera e, jeans sdruciti e maglietta bucata color antracite, scende e avanza incerto.

    Loro lo osservano, esitanti. Li scuote il fischio che segnala l’arrivo della roba. Si voltano di scatto, oltrepassano il guardrail e in massa s’inoltrano nel boschetto attiguo. Muti, pallidi, si urtano, un vecchio incespica e cade, tende le braccia, le mani rinsecchite cosparse di macchie marrone; nessuno lo soccorre, e il vecchio rimane lì, steso, a ondeggiare il capo in un flebile lamento prolungato. L’uomo dai capelli rossi s’infila in silenzio nel gruppo, calpesta anche lui frasche infradiciate di fango, pezzi di plastica e di vetro, siringhe rotte, macerie, stracci abbandonati intrisi di pioggia, dai quali esala un vapore denso dall’odore stantio di pelo di cane bagnato. Due marocchini controllano il passaggio, occhi esperti, in mano le spranghe di ferro. Scrutano il nuovo venuto, gli si avvicinano, collo teso e mento sollevato. Lui estrae un pacchetto di sigarette e ne offre un paio, sa che è il segnale per avere informazioni sulla roba. Quelli gliele strappano di mano urlando:

    «Tu! Chi sei? Fermo lì, o ti ammazziamo. Sei della polizia? Cosa vuoi? Chi ti ha fatto entrare?»

    L’uomo alza le braccia. «Ehi, buoni, voglio solo neve, calma, non ho armi, non ho niente.»

    Lì vicino un ragazzo seduto su uno zaino verde, in cerca della vena sul dorso della mano, guarda la scena con occhi offuscati e la bocca aperta. Una coppia, forse giovane, avanza lenta strascicando i piedi, sorrisi vaghi e braccia nere di ematomi; i pantaloni di lei di due taglie più grandi le scivolano sulle caviglie, con mani tremanti lei cerca di trattenerli, non indossa mutandine, ma nessuno sembra farci caso. «Fanculo», borbottano, «lasciatelo passare, non fate casino, che poi arrivano con i cani». A una spinta violenta dei marocchini i due barcollano, riuscendo però a mantenersi in piedi e ad allontanarsi senza una parola. Pochi metri e la ragazza scivola a terra, il compagno la solleva e l’abbraccia. Lei lo guarda con occhi lontani e gli fa una carezza. Un grugnito di uno dei due marocchini li convince però ad allontanarsi con la massima rapidità.

    L’uomo dai capelli rossi li osserva, ha un groppo alla gola, fa per dirigersi piano verso di loro, un gesto automatico, per l’uomo, ma non per i due uomini, che gli afferrano il braccio sinistro, gli occhi neri fissi su quelli di lui, i denti serrati, la spranga di ferro sollevata, mani a morsa che gli stritolano la carne.

    «Perquisiscilo», dice uno.

    Perquisirmi… Cazzo!

    Un uomo anziano compare all’improvviso dal sentiero del boschetto. Nessun altro in giro, tranne il tossico con lo zainetto verde dallo sguardo spento. L’uomo anziano è alto, magro, ha il volto rugoso, gli zigomi sporgenti, i capelli candidi raccolti in una lunga coda, baffi bianchi spioventi sulla bocca. Pare un sopravvissuto degli anni Settanta.

    O forse un boss del giro.

    Procede a scatti, volgendo attorno gli occhi. I due marocchini lampeggiano sguardi nervosi tra lui e l’intruso dai capelli rossi. Il quale, d’istinto, abbassa il braccio destro all’altezza della cintura, avvicina la mano alla schiena, solleva la maglietta ed estrae la pistola.

    Una sprangata violenta alla nuca e un lampo improvviso nella retina gli fanno perdere la cognizione del tempo e dello spazio. Altre mazzate, ai fianchi, al torace, accompagnate dal secco rumore di ossa incrinate, gli spaccano il respiro. Il fogliame fitto degli alberi volteggia sopra di lui, mentre il corpo sembra svuotarsi, afflosciandosi contro un terreno che gli sta venendo rapidamente incontro. Bocconi su un fango che sa di urina, coglie un parlottio veloce, seguito da due colpi d’arma da fuoco a distanza ravvicinata e da un tonfo sordo che lo sfiora. Tenta l’atto estremo di sollevare il capo, solo per accorgersi, a pochi centimetri dai suoi, di due occhi sgranati dentro un volto immobile scolpito da profonde rughe. Una bocca spalancata sembra chiamarlo e chiedergli perché.

    La pistola. Ne sente la durezza metallica tra le dita, l’indice spinto sul grilletto.

    Un terzo sparo, la percezione di voci concitate che si allontanano, lo spezzarsi di rami calpestati in fretta, poi più nulla.

    Dev’essere così, la morte.

    Scivolare nel sonno, la medesima sensazione di quando ti inducono l’anestesia prima di un’operazione. Un sonno privo di sogni, anche l’inconscio tace. L’assenza. Nessuna tempesta onirica, nessuna identità. Non esisti. Non esisti più. Il tuo io non esiste più.

    Poi qualcuno ti sveglia e, lentamente, torni a uno stato di semicoscienza.

    Cos’è successo? Perché sono qui, su questo letto, e indosso questa sorta di camice verde?

    Fa per sollevarsi, un angelo biondo però lo blocca, gentile, con un sorriso. Non ci sarebbe nemmeno riuscito, a sollevarsi, per il lampo di dolore atroce che gli ha trafitto i fianchi e il torace.

    Una cannula scende da una bottiglia rovesciata posta in alto, sopra di lui, collegata a un ago che sembra penetrare nel suo braccio. Dal pene fuoriesce una seconda cannula, attraverso la quale fluisce un liquido dal colore rossastro. Avverte il ticchettio di un monitor lì accanto, si volta a guardarlo, a fatica, strani diagrammi scorrono sullo schermo verde.

    L’angelo gli parla, ma lui non capisce, l’angelo ha una voce fioca, lui tenta di dirglielo, dalla sua gola però escono soltanto brandelli di suoni gutturali.

    Vuole tornare nell’assenza. Ho sonno, lasciatemi dormire.

    Suo malgrado segue con gli occhi le movenze dell’angelo. È vestito di bianco, e sui capelli biondi invece dell’aureola indossa una cuffietta.

    Realizza: lui è in un ospedale e quella è un’infermiera.

    E il tizio in camice che sta entrando dev’essere un dottore.

    Si parlano, ogni tanto buttano l’occhio dalla sua parte. Lei non sorride più, l’altro corruga la fronte. L’uomo sul letto apre la bocca per porre una domanda, ma non riesce a emettere alcun suono.

    Ecco però che, lentamente, comincia a percepire le parole. Prima i singoli vocaboli, poi frasi complete: soggetto, verbo, predicato.

    «Come si sente?», gli sta dicendo il medico. «Quante sono queste?», continua, mostrandogli tre dita.

    «T… r… e… L’ho detto! Tre!».

    Esulta, immobile, mentre un altro tizio compare sulla porta.

    «Diobono, Gugliaro, cosa ci combini?», esclama.

    L’uomo chiamato Gugliaro sorride. O almeno, è quello che gli sembra di fare. L’ha riconosciuto: è l’ispettore Ceolin, detto ‘Ndemo tosi’, il suo capo al commissariato di Città Studi. Uno di Belluno, un omone con i baffi che gli ricordava Gérard Depardieu. ‘Ndemo tosi… Il grido vivace con il quale chiamava a una pausa i colleghi. "Un aperitivo al bar di sotto, qualche barzelletta sui carabinieri, poi si torna al lavoro. ‘Ndemo tosi!"

    «Cioè? Che cosa… avrei combinato?», domanda Gugliaro. Parla con fatica, lentamente, la bocca impastata.

    L’ispettore mormora qualcosa al medico, che annuisce ed esce dalla stanza assieme all’infermiera.

    «Pare che tu abbia ammazzato un tizio», attacca Ceolin, dopo aver chiuso la porta.

    L’altro spalanca la bocca, trattenendo il fiato.

    «Io… Cos’è… che avrei fatto?», mormora. Il tono incerto dell’incredulità.

    «Sì, giù nel boschetto di Rogoredo. Qualcuno ha chiamato i carabinieri, il morto era lì, con due pallottole in corpo, e vicino a lui c’eri tu. Steso a terra, privo di conoscenza. Ti hanno massacrato di botte. Per fortuna sei vivo. Vivo. Con la tua pistola d’ordinanza in mano. Cazzo!»

    «Ma cosa…»

    Tendendo i nervi Gugliaro solleva la testa dal cuscino, ma una smorfia di dolore gli storce la bocca e lo costringe a desistere.

    «Tu sei pazzo», sussurra.

    «Ah, sarei io, il pazzo. E mi dici cosa ci facevi tu lì, in quel posto di drogati?»

    «Aspetta un attimo! Chi sarebbe il tizio che io avrei ucciso?»

    «Si chiamava Enea Bentivoglio, di Milano.»

    «Mai visto né sentito nominare… Ma, ispettore, come puoi pensare che…»

    «Be’, di sicuro a sparare è stata la tua pistola. Comunque ti hanno fatto un tampone¹ e stanno aspettando l’esito.»

    Una ruga profonda attraversa la fronte di Vittorio Gugliaro, agente scelto del commissariato Città Studi.

    «Chi è che sta aspettando l’esito?»

    «I caramba. Sei sotto la loro tutela.»

    Gugliaro emette un rantolo.

    I caramba!

    «Io… ispettore… ti giuro… non ho sparato io, con quella pistola.»

    Ceolin rimane in silenzio per qualche secondo, guardandolo dritto negli occhi.

    «Non hai idea di chi ti abbia ridotto in questo stato?», domanda poi.

    «È questo il punto. Non… lo… so…»

    «Ok, non ti agitare. Se non sei stato tu, vedrai che ne verremo a capo.»

    Gugliaro volta la testa verso il muro bianco della stanza. Chiude gli occhi, a ripercorrere la catena di eventi culminata nella sua degenza in un letto d’ospedale. In attesa di una possibile imputazione di omicidio. Una stanchezza feroce si impadronisce di lui, della sua mente, del suo corpo martoriato. Il pensiero si affievolisce e l’uomo torna a scivolare in un sonno senza sogni.

    2.

    Le sei del mattino, la notte quasi spazzata via da un chiarore lieve, e Daniele Ferrazza era sveglio già da un paio d’ore. Si rigirava nel letto, avvoltolandosi nelle lenzuola fradice di sudore, i battiti del cuore accelerati, una tachicardia che lo colpiva a tratti da qualche settimana.

    Da quanto tempo s’era trasferito nell’appartamento di Laura, in via Gran Sasso?

    Quasi sei mesi, febbraio.

    Si alzò, ciabattò in cucina e si scolò un paio di bicchieroni d’acqua mentre, attraverso i vetri della portafinestra, guardava i muri grigi dei condomìni circostanti. Se la facciata del palazzo che dava sul viale era molto signorile, arricchita da glicini ed edere che dal terreno arrivavano fino al sesto piano, il retro dava su un cortile interno attorniato da stabili addossati uno sull’altro.

    Anche quella sera si era dimenticato di abbassare le tapparelle.

    Se poi vengono a rubare, non ti lamentare!, continuava a dirgli Laura.

    Siamo al sesto piano!, rispondeva lui.

    Sono agili, era la replica, si calano dall’alto lungo la grondaia e arrivano al balcone, è gente che ha lavorato in un circo, per lo più romeni, a Telelibera abbiamo fatto un servizio, sull’argomento, ti ricordi, no?

    Sì, tutti uomo-ragno, sono, diceva lui tra sé e sé, e scrollava le spalle.

    Daniele aprì la portafinestra sperando in un refolo che rinfrescasse l’aria. Invano. Un getto d’aria calda, simile a quello di un turboreattore in funzione, lo aggredì in piena faccia. Si sporse a destra. Effettivamente la grondaia scorreva verticale a pochi centimetri dagli infissi. Fece scivolare l’indice sulla vernice color ocra e si guardò il polpastrello, strofinandolo poi sulla T-shirt. Spostò lo sguardo sul cortile, illuminato in basso da due lampade a Led. Contò i bidoni per il riciclaggio della spazzatura. Dieci, due per la plastica, due per il vetro, tre per l’umido e tre per la carta. Pensò al loft che aveva lasciato per venire qui. Là poteva girare per casa in mutande a torso nudo, o magari nudo del tutto. Qui meglio di no, per via del bambino, gli aveva detto lei.

    Per un attimo ne provò nostalgia, soprattutto del fazzoletto di verde che ne impreziosiva l’ingresso.

    Vi aveva piantato alcuni girasoli, che d’estate si ergevano allegri fin quasi a due metri dal suolo. In estate poteva uscir fuori di notte e sedersi sulla poltroncina di vimini, nel silenzio rotto soltanto da qualche eco lontano.

    Sospirò, chiuse la portafinestra, ingollò un altro bicchiere d’acqua gelata e tornò in camera.

    Incurante delle raccomandazioni di Laura, si decise ad accendere il condizionatore, si coricò vicino a lei e l’abbracciò. Lei mugolò qualcosa, cercando con le gambe quelle di lui. Daniele si sollevò leggermente su un gomito e la baciò sul collo. Lei si voltò e, sempre a occhi chiusi, gli sorrise e lo attrasse a sé. Dopo pochi minuti il cellulare del commissario vibrò. Lui a tentoni afferrò l’apparecchio e respinse la chiamata.

    Il cellulare vibrò di nuovo. Daniele si alzò a guardare lo schermo dello smartphone.

    Era ‘Ndemo tosi, ovverossia l’ispettore Ceolin.

    Michele, il figlio di Laura, quasi sette anni, l’arrivo di Daniele l’aveva preso bene. Un poliziotto in casa! E con la pistola, di quelle vere, che ammazzano i cattivi. E lui non poteva negare che quel bambino fosse una strepitosa fonte di energia buona. La sera Michele ascoltava i racconti di Daniele, opportunamente edulcorati, a bocca aperta, gli occhi sgranati, finché il sonno aveva la meglio e si addormentava con le labbra socchiuse e un russare lieve lieve. Lui rimaneva ad osservarlo, incantato, facendosi mille domande sul tipo di mondo che l’avrebbe accompagnato nel corso della sua vita. Che ne sarà, da qui a dieci anni, di un bambino come Michele? Amato, accudito, affettuoso, intelligente… E il pensiero deviava inevitabilmente su Davide Tarantino, sulla fine che aveva fatto. Un brillante ragazzo di diciassette anni morto per overdose.

    Perché? Perché, una volta passata l’epidemia di eroina degli anni Ottanta, il paese tornava ad assistere impotente a questa nuova escalation? Daniele l’aveva conosciuto, quel giro infame, ci si era trovato immerso durante il caso che aveva affrontato un anno e mezzo prima, quello che i media avevano battezzato Notturno metropolitano. Il caso che, tra le vittime, aveva visto Davide, il figlio di Giulio Tarantino, un brigadiere dei carabinieri. Diciassette anni. Non faceva che ripeterselo, alla ricerca di una ragione plausibile. Perché? I prezzi sempre più bassi? La solitudine di una generazione, la fragilità, un presente privo di obiettivi, di speranza? Una criminalità ancora più molecolare e aggressiva? Nuovi attori comparsi sul mercato? Cinesi, russi…

    Notturno metropolitano. Si erano battuti come leoni, lui e il PM Giancarlo Conte, anzi, soprattutto quest’ultimo. Aggredito da settori importanti delle istituzioni e dalla macchina del fango messa in moto dai media di destra, non era arretrato di un millimetro nella sua accusa di omicidio contro elementi dell’Arma dei carabinieri. Nemmeno quando, in un servizio televisivo, l’avevano pedinato per un giorno intero con una telecamera nascosta, denunciando poi in prima serata l’acquisto da parte sua di costosissimi sigari cubani. "Un piacere pagato con i nostri soldi! Ecco chi è colui che getta discredito sull’Arma dei carabinieri, la nostra Benemerita, dimenticando la vita di sacrifici e di dedizione al dovere di questi uomini, che rischiano la vita per pochi euro. Uno stipendio con il quale certo nessuno di loro può permettersi sigari tanto costosi, ovverosia di gettare letteralmente in fumo centinaia di euro nell’arco di un pomeriggio."

    Nonostante ciò, il Gip aveva avvallato tutte le sue deduzioni e il processo era stato avviato. Si era però solo agli inizi. Chissà quanto fango ancora sarebbe stato gettato su Giancarlo Conte e, in subordine, sul commissario Daniele Ferrazza; era assodato che prima o poi l’Arma l’avrebbe fatta pagare a entrambi, a lui e a Conte. E fors’anche a Laura Barbieri, che, con i suoi servizi su Telelibera, aveva dato conto con puntiglio, passo dopo passo, degli sviluppi del caso, senza partigianerie né autocensure e soprattutto senza cedere alle pressioni di coloro i quali, dall’alto, le suggerivano prudenza. Non tacere i fatti, per carità, la libertà di stampa è sacra, ma si sa che c’è modo e modo di portarli all’attenzione del pubblico.

    «Ceolin, se non hai un buon motivo per chiamarmi alle sei e mezza del mattino, domani ti faccio trasferire.»

    ‘Ndemo tosi restò in silenzio per qualche istante, poi sussurrò:

    «È per Gugliaro.»

    «Gugliaro… cosa?»

    «Si

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