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Mariani e le ferite del passato
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Mariani e le ferite del passato

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È gennaio e Antonio Mariani è ancora in congedo per malattia a causa dell’incidente di novembre quando ha rischiato di morire travolto dal Cerusa esondato. Trascina le giornate nell’apatia, sente e patisce la freddezza della moglie Francesca, evita anche di girare per la città che ha sempre amato. Accetta quindi, con un senso di liberazione, la richiesta di sua madre Emma di andare a Nizza Monferrato per parlare con Giuditta, la figlia di Noemi, deceduta nell’inverno e amica di Emma dai tempi della guerra, quando una era staffetta partigiana e l’altra viveva nascosta perché ebrea. Noemi, prima di morire, aveva raccontato alla madre di Antonio come alcuni suoi parenti, i Pinto, poco prima della fine della guerra fossero stati individuati e quindi deportati. Un loro nipote, Samuele, aveva minacciato di vendicarsi sul responsabile della loro deportazione o sui suoi discendenti. Ora Emma ha bisogno dell’aiuto di Antonio, della sua esperienza di commissario di polizia, perché nelle alture di Bolzaneto sono stati barbaramente uccisi una giovane donna e il suo bambino: discendenti di chi aveva denunciato i Pinto. Quell’antica storia è collegata al duplice omicidio? Antonio ottiene di rientrare in servizio al più presto e chiede che gli venga affidata l’indagine… Forse riuscirà a ritrovare la lucidità e la voglia di andare avanti. Il lavoro è stato spesso la cura dei suoi mali.

Maria Masella è nata a Genova. Ha partecipato varie volte al Mystfest di Cattolica ed è stata premiata in due edizioni (1987 e 1988). Ha pubblicato una raccolta di racconti – Non son chi fui – con Solfanelli e un’altra – Trappole – con la Clessidra. Sempre con la Clessidra è uscito nel 1999 il romanzo poliziesco Per sapere la verità. La Giuria del XXVIII Premio “Gran Giallo Città di Cattolica” (edizione 2001) ha segnalato un suo racconto La parabola dei ciechi, inserito successivamente nell’antologia Liguria in giallo e nero (Fratelli Frilli Editori, 2006). Ha scritto articoli e racconti sulla rivista “Marea”. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato Morte a domicilio (2002), Il dubbio (2004), La segreta causa (2005), Il cartomante di via Venti (2005), Giorni contati (2006), Mariani. Il caso cuorenero (2006), Io so. L’enigma di Mariani (2007), Primo (2008), Ultima chiamata per Mariani (2009), Mariani e il caso irrisolto (2010), Recita per Mariani (2011), Per sapere la verità (2012), Celtique (2012, terzo classificato al Premio Azzeccagarbugli 2013), Mariani allo specchio (2013), Mariani e le mezze verità (2014), Mariani e le porte chiuse (2015), Testimone. Sette indagini per Antonio Mariani (2016), Mariani e il peso della colpa (2016), Mariani e la cagna (2017) Mariani e le parole taciute (2018), Matematiche certezze (2019 scritto a quattro mani con lo scrittore Rocco Ballacchino), Mariani e le giuste scelte (2019), Nessun ricordo muore (2017), Vittime e delitti (2018) e Le porte della notte (2019) questi ultimi tre con protagonista la coppia Teresa Maritano e Marco Ardini. Per Corbaccio ha pubblicato Belle sceme! (2009). Per Rizzoli, nella collana youfeel, sono usciti Il cliente (2014), La preda (2014) e Il tesoro del melograno (2016). Morte a domicilio e Il dubbio sono stati pubblicati in Germania dalla Goldmann. Nel 2015 le è stato conferito il premio “La Vie en Rose”. 2018, terza classificata alla prima edizione del Premio EWWA.
LanguageItaliano
Release dateSep 16, 2020
ISBN9788869434679
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    Mariani e le ferite del passato - Maria Masella

    CAPITOLO 1

    Notte fra giovedì 15 gennaio e venerdì 16 gennaio

    Mi rigiro, non riesco ad acchiappare uno scampolo di sonno. So di essere qui, nel mio letto, sento il corpo di Francesca a un palmo dal mio, ma una parte di me è là, ancora intrappolata nell’auto mentre esondava il Cerusa e una ondata la travolgeva. Ho nelle mani i gesti necessari a liberarmi in fretta della cintura di sicurezza e tirar dentro più aria che posso, ignorando il dolore pulsante allo sterno.

    Porto una mano sul petto: sembra guarito. Una cicatrice in più a far compagnia a quelle al ventre, alla gamba e all’avambraccio sinistro.

    Il mio corpo è guarito, ma io lo sono?

    Eppure, dovrei essere abituato a vedere la morte in faccia. Non soltanto quella che ha raggiunto altri e su cui ho dovuto indagare, ma per me, per Antonio. Ho perso il conto di quante volte l’ho vista in faccia.

    – Perché non dormi? – è la voce di mia moglie. – Continui a rigirarti.

    – Non riesco a rilassarmi.

    – Se evitassi di rigirarti, riusciresti ad addormentarti. Oppure prenditi il calmante che ti è stato prescritto.

    Già sull’ultima frase si gira voltandomi le spalle. Un tempo… Non un tempo, solo qualche mese fa, per la precisione a metà novembre, si sarebbe girata verso di me e avrebbe allacciato il suo corpo al mio. Lentamente, da vecchi coniugi, avremmo fatto all’amore e lei si sarebbe addormentata sopra di me. Avrei chiuso gli occhi, in pace, e avrei dormito.

    Da metà novembre sono precipitato in un’altra vita che sento estranea, perché non mi riconosco negli occhi di mia moglie.

    Fra tre settimane finirà il periodo di congedo seguito alla convalescenza e riprenderò la solita vita. Non dovrei lamentarmi perché, a novembre, ho visto la morte in faccia. Me la sono cavata soltanto perché sono un buon nuotatore; la cintura di sicurezza mi ha salvato dall’impatto con la massa d’acqua, ma ho rimediato la frattura dello sterno. In ospedale hanno commentato che sono stato molto fortunato perché me la sono cavata con trauma cranico non commotivo, contusioni multiple e rischio di infarto.

    Sì, sul momento non avevo avuto il tempo di avere paura, avevo soltanto dovuto vincere la tentazione di lasciarmi andare, chiudere gli occhi e riposare per sempre. Lasciarmi andare, lasciare che il Cerusa esondato mi portasse a mare insieme a tanti detriti.

    Andare al largo, verso l’orizzonte, come tante volte avevo nuotato.

    Smettere di lottare era stata una tentazione. Avevo dovuto combattere più contro quella che contro l’ondata di piena.

    A costringermi a reagire era stato il pensiero di Fran, no, la sua voce a ordinarmi di provare a uscire dall’auto prima che fosse troppo tardi.

    Fran. Mia moglie Francesca: è stato suo il viso che ho visto per primo risvegliandomi nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Martino. Non potevo muovermi, neppure sorriderle, ma avevo provato con uno sguardo a dirle… Dirle che ero vivo per lei.

    Il suo viso era senza colore, le labbra come una ferita. Lei era rimasta in silenzio. Un silenzio che non è ancora finito.

    Perché? Da allora me lo chiedo e non trovo risposta. Avevo fatto quello che avevo ritenuto giusto, cercando di catturare un assassino. Avevo rischiato la vita. Sì, quando avevo riaperto gli occhi e avevo visto il suo viso senza colore, spento, avevo capito che una vita non è soltanto di chi la dipana ma appartiene anche ad altri.

    La mia è anche di Francesca, ma lei ha sempre saputo che rischiare la vita, ogni giorno, fa parte del mio lavoro!

    La mia vita appartiene anche a mia madre. Non posso pensare a come si sarà sentita proprio lei, che aveva già perso un figlio, quando aveva saputo che ero ricoverato in rianimazione. Però mia madre non si è chiusa in un ostinato silenzio, anzi ieri mi ha confidato uno dei suoi segreti.

    Continua a stupirmi la sua forza d’animo.

    Mi alzo, vado in bagno e butto giù una compressa del sonnifero che mi è stato prescritto dal medico. Ha garantito che al risveglio non mi sarei sentito confuso, speriamo: domani dovrò guidare. Meta? Nizza Monferrato sulle tracce di una busta gialla.

    Forse non è il ricordo del Cerusa esondato, forse non è la freddezza di mia moglie a tenere lontano il sonno: richiama giorni difficili quella busta gialla che mi è stata consegnata ieri e che ora è ripiegata nella tasca del giaccone. Era stato il lavoro a tenermi in piedi, spero che funzioni ancora.

    Mia madre ha intuito il mio sbandamento e ieri pomeriggio, per smuovermi, mi ha consegnato la lettera che mesi prima le era stata affidata da Noemi? È possibile.

    Cosa mi ha detto mentre uscivo? Mai smettere di lottare, Nino. Per la verità e la giustizia. È forse questa la sorgente della sua forza d’animo?

    Capire il significato della lettera di Noemi sarà la via per riprendermi la mia vita?

    CAPITOLO 2

    Venerdì 16 gennaio

    Neve fresca imbianca le colline solcate dagli scuri segni delle vigne, ma oggi una lama di luce colpisce un gruppo di case: il rosso del tetto è abbagliante. Ricordo d’improvviso un brano letto da ragazzo, doveva essere di Fenoglio, ma non riesco a sistemarlo con precisione… Un tetto appena rifatto è come un garofano rosso fra i capelli di una vecchia megera. Ma non ne sono certo. Dovrò chiedere a mia madre, gran lettrice.

    È per lei che sono salito fra queste colline.

    È per lei che mi sto dirigendo verso Nizza Monferrato. Per la verità, forse per ritrovarmi.

    Per lei e per un omicidio.

    L’omicidio è accaduto a Genova, non qui, nelle colline di Nizza Monferrato, ma secondo mia madre è possibile che qui tutto abbia avuto inizio, nel ’44, quando lei era ragazzina.

    Aveva sempre parlato poco di quei tempi, a volte con un mezzo sorriso ironico commentava Mi hanno dato pure la medaglia, ho fatto solo quello che dovevo.

    A mio padre aveva raccontato di più? Me lo ero chiesto da ragazzo, poi avevo smesso quando avevo capito che eravamo simili, perché neppure a me piace parlare del passato pur sentendolo sempre presente.

    Sì, il marzo scorso mi ero stupito quando mia madre, mesi dopo l’infarto, mi aveva chiesto se potevo accompagnarla a Nizza Monferrato perché doveva salutare un’amica. Non sono più quella di un tempo, Nino, e lei deve andare via.

    Non avevo mai saputo che avesse un’amica, forse speciale, in quella zona. Neppure una conoscente. Lei è molto riservata e io sono parecchio distratto.

    Accompagnandola avevo presto capito che doveva essere andata spesso in quella cittadina, perché si orientava con facilità e aveva indicato con sicurezza i sensi unici e dove lasciare l’auto. Forse erano ricordi risalenti a cinque anni prima, quando guidava ancora.

    Quel giorno era inizio marzo e c’era freddo, nonostante le colline avessero già i segni dell’arrivo della primavera.

    Seguendo le precise indicazioni di mia madre, avevamo percorso i portici della cittadina simile a una piccola Cuneo dirigendoci verso la punta. Ci eravamo arrestati in una piazza, grande e grigia, fumosa, ma forse dipendeva dalla giornata di pioviggine, forse dai mattoni umidi.

    Un lato era chiuso da una chiesa, incombente.

    Avevo seguito mia madre fino a un portone. E lì si era fermata. – Salgo qui. Starò due ore, Nino. Hai il cellulare? – Avevo preso lo smartphone dalla tasca del giaccone. – Per qualsiasi cosa ci sentiamo; ricordati di tenerlo acceso. – Perché aveva già chiarito che le servivo soltanto come autista e che dalla sua amica Noemi sarebbe salita da sola.

    Quindi avevo girato per due ore.

    C’era freddo in città, un freddo diverso da quello genovese. L’aria era densa di vapori e sapeva di terra e di sangue. Ma questo forse lo dico ora che so, perché il presente modifica i ricordi del passato e li riscrive mostrandoli in una diversa prospettiva.

    No, non è vero del tutto. Subito mi aveva colpito il gran numero di macellerie; sotto i bassi portici, dietro le vetrine d’epoca, erano esposti quarti e ancora quarti di animali macellati e appesi ai ganci, sui vassoi lucenti erano adagiati tagli di carne.

    Le volte di pietra e mattoni comprimevano l’odore del sangue sparso, ne erano impregnate.

    Non ero, non sono vegetariano, ma quell’abbondanza era inquietante.

    Per togliermi dalla bocca il sapore di tutto quel sangue avevo preso un caffè; per passare il tempo ero entrato in una libreria e, dopo aver occhieggiato, avevo comprato per le figlie che sono gran lettrici come la madre e la nonna.

    Esattamente all’ora prevista ero al portone. Pochi minuti dopo, mia madre era arrivata. Le avevo chiesto come stava la sua amica.

    – Non ci vedremo più, Nino, a giorni Noemi lascerà la sua casa per un pensionato.

    – Potrò accompagnarti ugualmente, ma’. Se non potrò io, ci sarà Fran. Lo sai.

    – No, non ci vedremo più. Mi ha ripetuto che preferisce di no. – Aveva distolto lo sguardo. – Siamo vecchie, ormai. Ma non ho voglia di parlarne, Nino.

    Entrando in auto, le era caduta una busta chiusa. Gialla, non grande, una di quelle che si usano per spedire pochi documenti e sono imbottite. Mi ero chinato per raccoglierla, ma lei, in fretta, me l’aveva tolta di mano, l’aveva piegata e l’aveva infilata in tasca.

    Mia madre Emma non era, non è, persona a cui si possano chiedere spiegazioni. Se lo ritiene opportuno, le dà di propria iniziativa.

    Non so quanto siano complete le spiegazioni che ha fornito ieri quando mi ha mostrato il contenuto della busta gialla e mi ha chiesto di venire qui, a Nizza Monferrato. Doveva decidere cosa fosse giusto fare e quindi aveva bisogno di informazioni. Ho aspettato che ti fossi ripreso, Nino.

    Sono arrivato a Nizza Monferrato, rifacendo il percorso suggeritomi da mia madre all’inizio del marzo scorso. Ho trovato anche posto per l’auto dove l’avevo lasciata allora.

    Che utilità può avere questo viaggio? Temo nessuna. Ma l’utilità è qualcosa di ponderabile? Ho bisogno di immergermi nella storia per capirla e l’unica persona a cui posso chiedere è la figlia di Noemi.

    Mia madre ha detto che si chiama Giuditta. Giuditta Cavalieri.

    Suono al campanello del portone, campanello senza nome, ma conosco l’interno.

    Mi presento secondo istruzioni: – Sono il figlio di Emma.

    – Nino? – Un’esitazione. – Antonio?

    – Sì, sono Antonio.

    – Le apro. Spinga forte perché la serratura si inceppa. Stiamo all’ultimo piano.

    I luoghi hanno un odore proprio e qui si sente odore di terra, forse di mosto. Salgo le scale evitando l’ascensore. No, non ho fretta. Io, che vivo interrogando, a questa donna non so cosa chiedere.

    Inquadrata dalla porta c’è una mia coetanea, anno più, anno meno: capelli senza un filo bianco e anche un po’ di trucco, maglione e pantaloni grigi.

    Porge la mano facendomi segno di entrare. – Sono Giuditta Cavalieri, la figlia di Noemi. Emma ha telefonato per avvertirmi del suo arrivo. Non apro volentieri agli estranei, comunque si presentino. La bestia che sembrava sconfitta ruggisce di nuovo.

    Non so come commentare, opto per il silenzio, accantonando il problema. – Non vorrei disturbare, signora Cavalieri.

    – Giuditta. Mi chiami Giuditta e io la chiamerò Antonio. Se posso. So da Emma che è un commissario di polizia.

    Così lei sa qualcosa di me e io conosco soltanto il suo nome. – Va benissimo, Giuditta.

    La seguo, sembra uno di quegli appartamenti di un tempo, con tante stanze comunicanti e non grandi. Arriviamo a un soggiorno che è anche sala da pranzo: decori di graniglia sul pavimento e rosoni di stucco al soffitto a sottolineare i due lampadari danno un aspetto d’altri tempi a quest’ambiente più ampio ottenuto abbattendo una parete.

    Giuditta ha indicato una delle due poltrone accanto al caminetto a gas e ha occupato l’altra. – Quando guidava ancora, Emma veniva spesso, poi con il treno. Si spostava volentieri, mamma scherzava dicendo che era sempre la sua amica a venire a trovarla, come quando erano giovani. Mai ferma nonostante l’età, mai ferma per gli amici.

    Taccio. Mia madre avrebbe dovuto dirmi qualcosa di questa donna, no, avrei dovuto chiedere.

    – È stata lei a voler andare in quel pensionato ad Alessandria, non voleva essermi di peso.

    Penso che si aspetti un qualche commento e ripiego su una banalità chiedendole se vivessero sole.

    Sembra sorpresa. – Ma no. Mio marito e Daniele e Lia! Che volevano tanto bene alla nonna e ci hanno patito quando se ne è andata. – Nella sua voce l’esasperazione è stemperata dal dolore della perdita. – Ha ripetuto così tanto che voleva andare che le ho detto di fare come voleva.

    Di nuovo mi guarda, forse aspetta commenti o domande. Continuo a tacere: l’unico risultato dei suoi discorsi è ritrovare in quella Noemi che non ho mai incontrato il medesimo temperamento di mia madre.

    Hanno cercato di comandarmi per tutta la vita, così diceva. – Sbuffa e subito si passa una mano sugli occhi. – A casa il posto c’era. Avrei chiamato una donna per quando fosse rimasta sola in casa perché ormai si muoveva a fatica. No. Devo andare via. Cocciuta. Impossibile smuoverla. – Un’altra pausa. – E in meno di nove mesi ci è morta in quel pensionato.

    Si è interrotta, mi guarda. Il mio contributo è un vago assenso.

    – Sono medico, lavoro nell’ospedale di Asti. Almeno avesse deciso per Asti! Sarei potuta andare a trovarla quasi ogni giorno. Invece no, Alessandria. – Si alza. – Posso offrirle qualcosa? Emma gradiva sempre una tazzina di caffè.

    – Non voglio disturbare.

    – Nessun disturbo, ho la macchinetta con le capsule. – Una pausa. – Sua madre veniva in cucina. – Ha nella voce un tono esitante.

    – Preferirei anch’io.

    Siamo in cucina. Una cucina grande e vissuta.

    Giuditta posa due tazzine sul tavolo, chiede se gradisco latte. – No, grazie.

    – Le avevo chiesto perché ad Alessandria. Se proprio voleva andare in un pensionato, ad Asti ne avevo trovato uno, laico, anche abbastanza buono. Non mi aveva ascoltato neppure. Avevo pensato che volesse allontanarsi da me, da noi.

    Avevo pensato… dovrei approfondire, ma non riesco a trovare le parole giuste.

    – Quando avevo un turno di riposo, andavo a trovarla. Un giorno ho capito. No, sono stata troppo decisa. Un giorno ho avuto un sospetto.

    Di nuovo si è fermata e le sento nella voce quel raschio che sono lacrime tenute dentro a forza. Imbarazzante.

    – Quando mi sono trovata a faccia a faccia con uno dei fisioterapisti che lavoravano lì, l’ho riconosciuto anche se erano passati tanti anni dall’ultima volta che l’avevo incontrato. Samuele Pinto, figlio di un mio cugino.

    Samuele Pinto. Il Samuele Pinto di cui ho letto nella lettera, se è ancora vivo, sarà più vecchio di mia madre! Non può essere lui.

    – L’avrò visto l’ultima volta quando era morto suo nonno. Anche lui si chiamava Samuele.

    Il Samuele Pinto che Giuditta aveva incontrato nel pensionato di Alessandria sarà il nipote del suo omonimo citato nella lettera che Noemi aveva consegnato a mia madre mesi fa? Lettera che io ho letto soltanto ieri.

    Ma sta continuando: – Non ci frequentavamo con Samuele, perché Elia si era allontanato dalla religione, anche dalle tradizioni dei padri. Mia madre è, era, osservante e non l’aveva accettato…

    Elia? La interrompo: – Elia? – Ed è la mia prima vera domanda.

    – Elia. Figlio di Samuele – abbozza un mezzo sorriso stento – e padre di un altro Samuele, il fisioterapista. Samuele frequentava l’Università quando erano state promulgate le leggi razziali. È importante?

    Mi stringo nelle spalle.

    – Aveva cominciato a studiare medicina, all’Università di Torino, seguendo la tradizione di famiglia. Suo padre Zaccaria era uno pneumologo abbastanza noto. Poi, nel 1938, le leggi razziali avevano cancellato tutto. Poco dopo aveva sposato Sarah; erano nati due figli, Elia e Zaccaria.

    Di nuovo chiede se è importante.

    – Non so. Sto brancolando nel buio, spero di trovare qualcosa che mi aiuti a capire cosa volesse sua madre.

    Sembra stupita, forse in modo eccessivo. – Mia madre le ha lasciato un incarico? Sì, ricordo la busta gialla. L’ultima volta che si erano viste. Deve averla consegnata a Emma. Si vedevano quando potevano, ma la considerava l’amica più intima. – Una pausa. – Non si è mai fidata di me. Mia madre.

    – Non è questione di fiducia. Sono un commissario.

    – Lo so. Ma perché un commissario?

    Taccio. Non so cosa dirle. Sì, forse c’entra l’omicidio di Cremeno. Che non è un mio caso. Non ho ancora ripreso il lavoro. Vegeto. Mi limito a chiederle cosa sa della famiglia Pinto.

    Sono di nuovo dove ho lasciato l’auto, entro e invece di avviare per tornare a Genova accendo una sigaretta.

    Samuele Pinto nasce nel 1917, circa, nel ’38 deve abbandonare l’Università. Con Sarah e i figli piccoli riesce a sfuggire alla deportazione, nascondendosi in Monferrato. Nel ’43 Samuele si unisce ai partigiani e mette a frutto anche gli studi di medicina che aveva continuato sui testi del padre Zaccaria.

    Nell’ottobre del ’44 un reparto della Littorio individua il nascondiglio di Sarah e dei due bambini. Dei tre, l’unico a ritornare dai campi è Elia, di circa cinque anni.

    Elia vive con il padre fino alla maggiore età, quando sceglie di lasciare la casa paterna e accantona le tradizioni ebraiche. La figlia di Noemi ha insistito molto sul matrimonio di Elia con una donna di famiglia ebraica, ma come lui atea dichiarata. Matrimonio soltanto civile da cui nasce un figlio, nel ’75.

    L’essere umano è contradditorio: Elia, che si era allontanato dal passato, aveva poi dato al figlio il nome del padre, con cui, secondo Giuditta, da anni non aveva rapporti. E aveva tenuto quel figlio, a cui aveva dato un nome di famiglia, lontano da parenti e amici che potessero influenzarlo. Risento la voce di Giuditta voleva che suo figlio non fosse ebreo.

    Quando Samuele aveva dieci anni, i genitori erano morti in un incidente: il nonno paterno ne aveva ottenuto l’affido e aveva provveduto a fornirgli quella che Giuditta ha chiamato la corretta educazione ebraica. Ma nel ’95, quando era morto il vecchio Pinto, il nipote aveva abbandonato gli studi di medicina, tradizione di famiglia.

    Risento le parole di Giuditta: Anche di frequentare la Sinagoga.

    Scrivo qualche annotazione per non dimenticare.

    In auto spengo la sigaretta. Dovrei avviare per tornare a Genova, ma fatico a staccarmi da Samuele Pinto, il nipote. Penso che la morte dei genitori, quando aveva dieci anni, sia stata un trauma, a cui si era aggiunto l’obbligo improvviso di adeguarsi a riti sconosciuti, estranei. Alla morte del nonno, aveva affrontato una seconda inversione di rotta e, finalmente libero, aveva passato un colpo di spugna sugli ultimi anni.

    E il nonno? E il vecchio Pinto? Aveva affrontato le persecuzioni razziali, la guerra, la perdita della moglie e di un figlio… E il cattivo rapporto con l’unico figlio rimasto in vita. E ancora una morte, anzi due, perché era morta anche la nuora. Gli era rimasto il nipote, Samuele come lui stesso. Una vita scandita dal dolore.

    Avvio.

    Sono all’altezza di Acqui Terme, quando invece di dirigermi a sud, prendo verso Alessandria, allontanandomi da casa.

    Devo

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