Giallo Venezia: Un'indagine del commissario Enzo Fellini
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Nathan Marchetti (Adria, 1973) ha maturato, a vari livelli, esperienza ventennale nel mondo dell'editoria italiana. Marchetti è laureato in lettere moderne con una tesi sul regista svedese Ingmar Bergman. È inoltre diplomato in flauto traverso al conservatorio. Ha svolto studi di composizione. Con "Giallo a Venezia" (Fratelli Frilli Editori), prende vita il Commissario Enzo Fellini che, come l'autore, ama infinitamente la città lagunare più famosa del mondo.
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Giallo Venezia - Nathan Marchetti
PROLOGO
Ventitré passi
1
Vodka. Vodka alla pesca. Vodka al limone. Sambuca. Averna. Lucano. Limoncello. Due bottiglie di whisky. Idem di grappa. Tre di Aperol.
Idem Campari.
Vino, birra, analcolici, caffè: solite quantità.
Champagne Brut Millésime. Una cassa.
Antonio Procaccioni si sofferma sull’ultima riga.
Champagne Brut Millésime. Una cassa.
Bestemmia tra i denti.
«La Cristofori… La Cristofori griderà: Coooosa?! Toni!! Seu deventà mato?!
. Valle a spiegare che i giapponesi se ne sono scolate quattro bottiglie, l’anno scorso. Che tornano stasera. E che…».
Così dice tra sé il barman. Ma in fondo pensa: non riuscirò mai a convincerla.
Ruota la matita per cancellare una cassa.
«No!», esclama gettando il lapis alle spalle.
E ripassa l’ultima riga a penna.
Una cassa di Champagne Brut Millésime.
«Non posso far brutta figura con i giapponesi. Ho già abbassato le pretese sui liquori. Niente scotch invecchiato vent’anni, niente grappa da settanta euro, niente…».
Giovanni Garavello, enorme cuoco dell’Hotel Levante, passa davanti al bancone: «Parlèo da solo, Toni? Seu deventà mato?».
«Te vegnìsse un colpo!», grida il barman. Ma Garavello ha già voltato l’angolo.
Procaccioni continua lo stesso a inveire: «Balena… Te credi di èssare chissà chi parché i te ga nominà nela Guida Michelin…».
Abbassa la voce: Quella stronza d’una taccagna… Potrebbe almeno dare una rinnovata in giro! Moquette, arredi… Qua ghe xe da rifàr tuto… Ahhh… L’avessi in mano io, quest’albergo di merda…
Guarda l’orologio: 9.20. Entro dieci minuti la Levantina partirà per Mestre.
Procaccioni sbircia dalla finestra. I facchini stanno seduti nella barca.
Chiacchierano.
Il barman esplode: «Vi va sempre dritta, a voialtri! Va dritta a tutti tranne che a me! Ogni santo venerdì mi tocca fare il facchino al vostro posto, mentre voi due vi divertite al Cash & Carry!».
Mormora tra i denti: Che ingiustizia… Sono un barman, io! Mica il sostituto dei facchini...
Prende il cellulare.
Rubrica.
Ne ha decine, di alternative. Alberghi su alberghi. Tutti pronti ad assumerlo con tanto di aumento.
Poi preme il pulsante in basso.
Schermata Home.
Recita: «Chi lascia la strada vecchia per la nuova, la perde e più non la ritrova!».
Un’altra sbirciatina alla finestra. L’albanese e il romeno continuano a chiacchierare.
Vi va sempre dritta, a voialtri…
9.24.
«Òstrega se passa, el tempo!».
Afferra il foglio su cui ha annotato gli acquisti da fare. Lo piega in due. In quattro.
Stabilisce: «Ancora tre minuti, dai».
E fissa le bottiglie del bar.
Amaretto di Saronno… Vecchia Romagna… Glenlivet… «Strano. Garavello non è ancora tornato indietro. Vuoi vedere che stavolta si è preso una cioccata?».
Ride: «Ah ah ah… Ben ti sta, Balena. Oggi cambiamo programma».
E si versa tre dita di Glenlivet.
Beve d’un fiato. Poi caccia in bocca due Halls.
«Vado!», esclama rinforzato dall’alcol.
Prende la lista piegata in quattro. La piega ancora.
Mentre fa i ventitré passi che separano il bar dall’ufficio, si rammarica di essere magro come un chiodo.
«Garavello sì che è protetto! Con tutti quei chili di grasso, si difende bene dal mondo esterno».
Otto, nove…
Balena…, mormora Procaccioni.
Quindici, sedici…
…e la direttrice? Cos’è che è?
Ventitré.
Una puttana.
Bussa. Anche se non è pronto a udire la solita nenia: Móvite Toni! Rapido! Vien ’vanti!
.
Non sente niente, invece.
Strano.
Bussa di nuovo.
«Sióra diretrice?».
Nessuna risposta.
Forse è andata in bagno… E Garavello? Che abbia fatto il giro lungo per tornare in cucina?
Guarda l’orologio alla parete: 9.32.
Uno stormo di gabbiani garrisce alle sue spalle.
Si volta: gli uccelli saltellano sopra il molo. Sulla riva opposta del Canal Grande troneggia la Chiesa della Salute.
Un rumore richiama l’attenzione del barman. È un suono sofferto, scuro.
Procaccioni fissa la porta.
Bussa.
Bussa più forte.
«Sióra diretrice!».
Ecco ancora quel suono. Terribile, come il richiamo di un mostro.
Il barman si decide: abbassa la maniglia. Prova a spingere la porta.
Qualcosa sbarra l’ingresso.
Spinge a tutta forza.
Riesce ad aprire poco più d’una spanna. Infila la testa dentro la porta.
Vede Garavello, che giace immobile: è lui a bloccare l’ingresso.
Raggomitolata, in mezzo alla stanza, Donatella Cristofori emette l’ultimo rantolo.
E muore.
2
No, non se li sta sognando: la Cristofori e Garavello sono lì, stesi a terra.
Morti.
Morti sul serio.
Il barman ritira la testa. Chiude la porta.
Si passa una mano sulla faccia.
Guarda in giro. Nella hall: nessuno. Sul molo, i gabbiani sono volati via.
Oltre le travi: i passi felpati di Irina, cameriera addetta al primo piano.
«Ir…!».
No, non conviene chiamar gente. Gli altri sono sempre un problema. Ti guardano male, se attacchi a bere.
E Procaccioni ne ha assoluto bisogno, in questo istante.
Dio, se ha sete!
Rifà i ventitré passi. Va a cacciarsi dietro il bancone.
Nella tana.
Guarda il bicchere da cui prima ha bevuto il Glenlivet. Sembra un bicchiere intelligente, pronto a capire la situazione meglio di chiunque altro.
Afferra la bottiglia di Vecchia Romagna e ne versa con generosità. Aggiunge due cubetti di ghiaccio.
Forse il buon liquore annullerà l’immagine dei morti, stampata nel cervello.
La rende più evidente, invece.
Procaccioni si sporge dal bancone. Allunga il collo, strizza gli occhi: nessuno fa capolino nella hall.
Guarda le travi: non ode più i passi della cameriera.
Corre alle scale. Chiama: «Irina! Irina!».
Non c’è risposta.
«Irina!».
Sale tre scalini. Torna indietro.
«Niente. Devo occuparmene io».
Di nuovo dietro al bancone. A scuotere la testa. A guardare le bottiglie.
«Mi chiederanno un sacco di dettagli. Dettagli a non finire. Liste di dettagli».
Liste.
Le odia, lui, le liste.
Tutte.
Amaretto di Saronno.
Tre dita nel bicchiere intelligente. E poi giù, nel gargarozzo.
«Era l’ultimo», dice tirando il fiato.
Non ha neppure terminato la frase e già sente la lingua secca.
Guarda l’orologio: 9.40.
«Ma che c’entro, io? Non ho visto niente! Nossignori, io non mi sono mosso da qui! Non ci sono mica andato, stamattina, a consegnare la lista!».
Stronzate.
Sanno tutti che il venerdì, alle 9.30, Antonio Procaccioni presenta quella maledetta comanda alla direttrice dell’Hotel Levante.
Il barman ha l’impressione di essere circondato. C’è una folla alle sue spalle. Persone che ondeggiano, mentre lo indicano.
Sono accigliate. Cattive.
Si volta di scatto. Ansima.
C’è effettivamente qualcuno, di là dalla finestra: i due facchini.
Continuano a raccontarsela, comodi, nel battello.
«Disgraziati! Perché ve ne state là a far niente?!».
Ha gridato. Ma la finestra è chiusa. E la moquette attutisce i rumori.
«Basta!», urla pieno di rabbia. Afferra il cellulare. Compone tre cifre: 1-1-3.
Preme Chiama.
La voce d’un uomo risponde all’istante: «Pronto?».
Procaccioni guarda l’inutile foglio che ancora stringe in mano.
Vodka. Vodka alla pesca. Vodka al limone. Sambuca…
«Pronto?! Chi parla?!», ripete la voce.
«Son Procaccioni. Chiamo dall’Hotel Levante», dice il barman, controllando i movimenti della lingua e delle labbra. Recita bene la parte del sobrio, pure quando beve oltre misura. Comunque la sera, per servire i clienti, rifugge l’alcol come un astemio.
«Cos’è successo?», chiedono dall’altra parte della linea.
Procaccioni dice dei cadaveri.
È una telefonata rapida, molto più veloce del previsto.
Quando riattacca, il barman guarda ancora l’odiata lista.
Si sofferma sull’ultima riga.
Commenta: «Niente Champagne Brut Millésime. Ha vinto la puttana. Anche da morta».
PRIMA PARTE
L’Osservatore
3
9 giugno. Sul cruscotto, l’orologio passa dalle 9.52 alle 9.53.
Sono seduto nella mia Peugeot 407 SW scura. Non ho ancora messo in moto.
Il cellulare prende a suonare.
Lascio cadere le chiavi sul posto del passeggero. Afferro il Nokia dal taschino della giacca. Guardo lo schermo; capisco che darò buca al barbiere.
«Pronto?».
«Buongiorno, dottor Fellini. All’Hotel Levante, due bei cadaveri l’aspettano con ansia».
«Buongiorno Cerón. Ma… è davvero sicuro che aspettino me?».
«Sono ancora caldi! Cosa vuole di più dalla vita?».
Già. Cosa potrei volere di più?
«Per cortesia, Livio, mandi qualcuno a prendermi al Ponte di Calatrava, riva sinistra».
«Ho già provveduto, commissario».
«E come sapeva che io…».
«Una moglie sveglia sa sempre dove scovare il marito».
«Ha chiamato a casa mia, insomma».
«Eseguo gli ordini, commissario. Sa quanto ci tiene il beneamato questore…».
«Lo so. Lo so eccome».
Chiudo la telefonata. Infilo il cellulare nel taschino.
Beneamato un corno.
Afferro le chiavi. Scendo dalla macchina.
Riapro la portiera: a momenti dimenticavo le Chesterfield.
Prendo l’ascensore. Esco dal parcheggio.
Automobili, corriere, moto… Tutti in fila per entrare nel multipiano.
Ogni giorno lo stesso assalto. Nel fine settimana, poi, i turisti si moltiplicano per dieci. Oggi è venerdì: la marea umana comincia a montare.
A passi svelti, taglio il piazzale.
Ecco il Canal Grande. E il motoscafo della questura.
M’imbarco.
L’agente Pischedda dà gas prima che io mi sieda.
«Porco diavolo, Nunzio! Vuol farmi volare in acqua?!».
«Scusi commissario! Devo ancora prenderci mano: fino a un mese fa, io non avevo mai pilotato un motoscafo».
Si vede, penso.
Passo il pacchetto da una mano all’altra. Ho acceso una sigaretta dopo colazione. Che voglia di fumarne un’altra…
No.
Se mi concedo una bionda, torno in prima pagina.
PAGATO PER FUMARE?
Un mese fa, il quotidiano Venezia Notizie
uscì con ’sto titolone. Corredato di foto esplicative.
Nella più grande ero attorniato da poliziotti in divisa. Ne fissavo uno, soffiando in aria un bel cono di fumo. Nelle più piccole, guardavo il cielo con la sigaretta agli sgoccioli. Come sfondo, c’erano la basilica e il campanile di San Marco. Mancava soltanto la scritta Baci da Venezia
per farne belle cartoline.
Di conseguenza, il questore mi convocò nel suo ufficio. Aveva una copia di VN sulla scrivania.
«Si controlli, commissario!», fu il buongiorno
. «Lei è un poliziotto! Lo Stato non la paga di certo per dare all’utenza quest’impressione di sciatteria!».
«Sempre meglio della tua antipatia», ebbi il coraggio di ribattere, tenendo testa ai suoi occhietti maligni.
Quella sera, mia moglie mi obbligò a tornare sulla retta via.
Prima di scodellare i fasòi in potacín, il piatto veneto che le viene meglio, Dora Patruno mi estorse la seguente promessa: «Domani vado dal questore e gli presento le scuse!».
Ebbene, la mattina seguente Egisto Badalamenti mi perdonò. Con la condizionale: «Sanzione disciplinare doppia, alla prossima sigaretta».
Seduto sul motoscafo malgovernato da Nunzio Pischedda, guardo la confezioncina bianca e rossa di Chesterfield.
Bionde.
Diciannove belle bionde. Chiuse nel pacchetto.
Non tentatemi, accidenti, sennò qua va a finire male!
Mi concentro sulla scritta Il fumo causa il cancro alla bocca e alla gola.
Da un pezzo non leggo più Il fumo invecchia la pelle.
Immagino che il Ministero della Salute abbia fatto i dovuti sondaggi, prima di cassare quello spauracchio. I dirigenti ministeriali devono essersi concentrati per giorni su raffiche di slide, piene di grafici e numeri.
Ed ecco il responso: ai fumatori non gliene importa un fico secco dello splendore della pelle.
Cerco il mio volto nello specchietto retrovisore: vedo un quarantanovenne niente male. Capelli castano scuro, sul lungo, ribelli a tutti gli ordini. Occhi scuri. Zampe di gallina. Piccole borse sotto gli occhi. Una vaga somiglianza con Che Guevara.
No, l’epidermide non sembra prossima al disfacimento.
Sbarro gli occhi: in un angolo dello specchio sta andando in scena un… doppio salto mortale e mezzo indietro con un avvitamento e mezzo carpiato!
«Nunzio!!».
4
Camera 3.
Le immagini sullo smartphone ruotano di 6 gradi, secondo dopo secondo.
Che rottura di coglioni! Rotazione del cazzo!
L’Osservatore ha trascorso due notti nella camera 309: quella con la carta da parati scollata, la moquette rigonfia, una finestra bloccata con il fil di ferro.
Camera 1.
Camera 2.
Camera 3.
Camera 4.
Camera 5...
Ma chi cazzo è il secondo morto? Garavello?! Mica l’ha bevuto, lui, il succhino!
Da oltre un anno, la 309 non viene assegnata ai clienti.
Chiamare le maestranze? Non esiste proprio. Gli operai, come si dice a Venezia, creerebbero disturbo.
Chi alloggia a due passi da Piazza San Marco, non vuole sentire trapanamenti, martellate o roba simile.
Si fa prima a mettere una croce sulla stanza 309. Tanto non dà sul Canal Grande ed è più piccola delle altre.
Si fa prima e meglio.
Così L’Osservatore ne ha approfittato.
Certo, è stato un azzardo trascorrere lì tre giorni e due notti.
Ma L’Osservatore non bada a come farebbero gli altri.
Comunque, la prossima mossa sarà tagliare la corda.
Ci vorranno ancora quattro, massimo sei ore.
Porterà con sé lo smartphone, gli auricolari, il caricabatterie, gli avanzi di cracker, le prugne secche denocciolate. Più cinque bottigliette di succhi al mirtillo: i succhi buoni, quelli che alle sei del mattino ha sostituito con altrettanti identici.
Apparentemente.
Di suo, nella 309, non rimarrà niente.
Camera 3.
Che palle…
L’Osservatore ruota lo smartphone, secondo dopo secondo.
A tratti resta indietro con la rotazione. A tratti, la anticipa girando l’iPhone più di 6 gradi.
Che due coglioni megagalattici!
I poliziotti della scientifica entrano nella hall. Indossano bianche tute integrali.
Vengono spiati dall’orologio a parete. Una microcamera è nascosta nel perno delle lancette.
L’energia per raccogliere e trasmettere i dati è fornita dalla stessa pila che fa vibrare il quarzo. Gli altri dispositivi sparsi in giro, invece, funzionano a energia solare. Basta un filo di luce e si attivano automaticamente.
Uno degli agenti in tuta afferra la trasmittente e dà il via libera al resto della squadra: «Okay».
Nell’Hotel Levante entrano altri due uomini. Più una donna. Vestono in borghese.
Si fa avanti Antonio Procaccioni, sbucato con cautela dalla sua tana alcolica.
«Dove sono i cadaveri?», gli chiede la donna.
«Nell’ufficio», indica il barman.
«Prima andiamo noi», dice la scientifica.
Camera 1.
Gli agenti in tuta bianca entrano nella direzione dell’hotel. Cominciano a settacciare l’ufficio.
Cercate, cercate… Tanto, io non ho lasciato neppure mezza impronta.
Non sfiorano neanche la Garkel.
Che cazzoni…
All’Osservatore, basta e avanza che lascino la penna-telecamera al proprio posto.
Camera 2.
La dottoressa e i due uomini in borghese si spostano davanti alla porta dell’ufficio.
Camera 2 è appoggiata sul tavolo della reception. Apparentemente, è una penna di discreta qualità, marchiata Nerdsson.
«Fellini dovrebbe essere già qui. Ma quanto ci mette?», chiede la donna.
«Avrà trovato traffico sul Canal Grande».
Ad aver parlato è l’uomo più giovane. Un tipo dalla faccia lunga, immusonito.
Prende la parola l’altro in borghese: «Buona questa, Franco. Occupiamoci della routine, mentre attendiamo». Quest’ultimo ha la faccia rotonda, pochi capelli mal distribuiti. Ed è parecchio sovrappeso.
Camera 3.
’Sta rotazione del cazzo… Che due coglioni!
Il musone esce dall’albergo. Va al motoscafo. Torna munito di una valigetta. L’appoggia sul tavolino della hall, sopra un piccolo libro.
Sai che quel libretto potrebbe interessarti, Franco? Ce n’è uno uguale, sulla scrivania dell’ufficio...
Zoom sull’ispettore dalla faccia lunga.
Non mi sembri molto portato per i sorrisi. E pensare che poco fa ti sei esibito in una splendida battuta…
All’Osservatore, tutta quella serietà fa venir voglia di ridere.
Franco, dimmi un po’… Ma tu, te lo sei mai