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Il mistero del cadavere senza nome
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Ebook185 pages2 hours

Il mistero del cadavere senza nome

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About this ebook

Il ritrovamento del cadavere di un uomo sconosciuto, brutalmente seviziato, è l’incipit di un noir la cui soluzione è da ricercarsi nel passato di tre uomini coinvolti in altrettanti fatti di cronaca avvenuti tra la metà e la fine degli anni Settanta. I tre protagonisti del romanzo effettueranno individualmente scelte estreme che li porteranno a condividere un unico ed ineluttabile destino, caratterizzato dal tradimento e dalla fragilità umana.
LanguageItaliano
Release dateFeb 7, 2016
ISBN9788869431159
Il mistero del cadavere senza nome

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    Il mistero del cadavere senza nome - Roberto Negro

    1

    Perinaldo, 9 agosto 2014

    Il caldo opprimente era mitigato dalla brezza che accarezzava ginestre selvatiche e gruppi di brughi mentre il canto delle cicale si diffondeva incontrastato dalla sommità dell’Alpicella verso sparuti casolari che, come frammenti di pietra, emergevano dalle fronde di antichi olivi.

    La mano dell’uomo aveva inciso quella terra aspra, rubando alla roccia brulle fasce, un tempo risorse di una cultura contadina ormai scomparsa.

    Il cielo era una tavolozza azzurra macchiata dal volo statico di due falchi, che con occhi acuti osservavano gli intrusi mentre aggredivano faticosamente l’erta, cercando di guadagnarne la vetta.

    Erano uomini sudati che sbuffavano, bestemmiavano infastiditi da mosche, tafani e moscerini che si aggiravano petulanti attorno alle loro teste. Non c’era albero che regalasse un attimo di sollievo, né fonte alla quale dissetarsi. Più salivano e più la meta sembrava lontana. L’acido lattico attaccava muscoli troppo abituati all’abbraccio di una poltrona, mentre la stanchezza si stava impossessando anche delle loro menti.

    Erano quattro. Quello che chiudeva la fila pareva il più stravolto, con la camicia azzurra zuppa di sudore, si fermava ogni dieci passi per cercare dentro di sé quelle energie che non avrebbe mai trovato. I due più avanti sostavano accanto ad un cumulo di pietre guardando fisso un punto davanti a loro. Il quarto aveva ancora fiato per imprecare mentre avanzava, scalciando i rovi infestanti lo stretto sentiero sul quale si trovava e che gli ferivano le gambe con le spine che oltrepassavano la tela dei pantaloni.

    Maledetto il caldo, maledette ’ste cazzo di erbacce, maledette le mosche....

    Lontano, oltre il Toraggio, un tuono fece sentire la propria voce ed il maresciallo Calì spinse lo sguardo verso le montagne. Pregò il dio della pioggia affinché trasferisse il temporale su quel lembo di Ponente... non subito, ma dopo il sopralluogo che stava per effettuare.

    Raggiunti il brigadiere Giovannelli e l’appuntato Bruno, ebbe la conferma che quello sarebbe stato un pomeriggio di merda, altro che andare al mare come aveva promesso a sua moglie.

    Da quando l’estate era cominciata, per lui la spiaggia era stata solo lo sfondo del panorama che ammirava dal belvedere.

    Accanto al cumulo di pietre, il corpo nudo di un uomo giaceva supino su una fascia. Era stato legato, mani e piedi con lacci da elettricista, a quattro picchetti di legno conficcati nel terreno, in una posizione che al maresciallo ricordava le torture indiane dei fumetti di Tex Willer. Insetti di diversa natura si ammassavano sulle ferite da taglio che incidevano il torace, mentre mosche metalliche sciamavano ovunque, depositando uova bianche negli orifizi.

    Le orbite oculari erano buchi scuri di sangue coagulato, tutte le dita delle mani erano state amputate così come gli organi genitali che giacevano tra le gambe sulla chiazza ematica, ormai secca, formatasi intorno al cadavere.

    Il ventre era gonfio di gas putrefattivi e Calì pensò che a breve sarebbe esploso.

    Guardò l’orologio: erano le quattordici di un venerdì di agosto, il cielo era terso e ciò significava che ci sarebbero state ancora sette ore di sole e di caldo al limite dei trenta gradi. Osservò le nubi sulle Alpi, consapevole del fatto che non sarebbero mai arrivate e che quel corpo era destinato a disfarsi. Il processo di decomposizione era iniziato da un po’ e le condizioni climatiche avevano contribuito ad accelerarne il ciclo.

    Il rantolo dell’appuntato Leccese lo sorprese alle spalle. Era profondo, al limite dell’asfissia, quello di un uomo trasfigurato che lo stava fissando con occhi annebbiati dalla fatica. Lo vide liberarsi della borsa contenente la macchina fotografica ed accasciarsi su un cespuglio di timo, producendo lo stesso rumore di un albero che viene abbattuto.

    Prima e dopo il cumulo di pietre c’erano due corpi distesi al sole, quello di un morto ammazzato e quello di un carabiniere che temeva di essere giunto alla fine dei propri giorni. In mezzo a loro, altri tre uomini che non sapevano da che parte cominciare.

    Mario, le sai fare le foto? chiese il maresciallo al brigadiere.

    No.

    Allora è un casino. Se aspettiamo Fabio, rischiamo che il morto ci esploda ed io volevo fare qualche scatto.

    Con le compatte sì, ma con la macchina dell’ufficio non saprei... posso provare, disse Giovannelli.

    Non guardate me, io non ne capisco nulla, precisò Bruno.

    Lasciate perdere, faccio io, non sarà così complicato. In fondo è una fottuta macchina fotografica.

    Recuperò la borsa con l’attrezzatura, prelevando la Nikon D7000 che studiò con sospetto stringendola tra le mani. Era più difficile di quanto pensasse e la fottuta macchina aveva più comandi del cruscotto di un jet. Il panico lo assalì mentre manovrava sulla ghiera, su cui erano incise alcune lettere che non gli suggerivano nulla perché le uniche fotografie che aveva fatto in vita sua, le aveva scattate con il telefono cellulare ed erano anche venute uno schifo.

    Scelse la lettera A, sperando che corrispondesse ad automatico. Se fosse stato così, sarebbe facile perché automatico è sinonimo di faccio-tutto-da sola e quindi l’unica preoccupazione sarebbe stata quella di inquadrare e scattare, confidando sul Nikkor 18-105 autofocus. Per lui anche autofocus era sinonimo di faccio tutto da sola.

    Dopo il primo scatto, guardò il risultato sul display della Nikon: era un’immagine pessima, per giunta mossa. Ci vollero quattro tentativi prima di ottenere una fotografia dignitosa e poi fu tutto più semplice. Fotografò la scena da ogni angolazione possibile, cercando di ricordare le nozioni di polizia scientifica apprese al corso da sottufficiale. Così ottenne immagini di insieme e particolari, manovrando sullo zoom con la stessa naturalezza di un bradipo a cui per Natale è stata regalata una Reflex.

    Quando il ventre del cadavere si squarciò e l’odore della putrefazione si inasprì, Calì aveva già completato il suo reportage.

    In quel fetore non c’era più nulla di umano ed anche gli insetti che stavano banchettando sul corpo, per un attimo si allontanarono, quasi storditi dai gas che si erano liberati nell’aria.

    Il brigadiere vomitò su una pianta di rosmarino, il maresciallo rimase impassibile, l’appuntato Bruno si voltò verso il mare mentre Leccese ritornò tra i vivi.

    Rimasero per circa un’ora a vegliare il morto, ognuno di loro isolato nel proprio silenzio. Calì aveva scelto nel cumulo di pietre un sasso più piatto degli altri e ci si era accomodato sopra, dando le spalle al cadavere. Con gli occhi puntati verso il nulla analizzava la situazione che aveva trovato in cima all’Alpicella, cercando di elaborare una teoria su come erano andate le cose, ma non ne trovava una valida. Chi era il morto? E soprattutto, poteva essere uno degli abitanti di Perinaldo?

    Mario, lo conosci?, chiese il maresciallo.

    In queste condizioni, è difficile. È ridotto veramente male ed il suo viso non ha più nulla di definito. Potrebbe essere anche del paese....

    Tu Carlo?.

    Impossibile riconoscerlo, affermò Bruno.

    Leccese, ripresosi dal colpo di calore, si era mosso lentamente tra gli arbusti, cercando elementi utili all’indagine, ma soprattutto sperando di rinvenire le falangi amputate. Con quelle avrebbero potuto identificarlo, ammesso che le sue impronte fossero presenti nella banca dati. Chiunque avesse commesso l’omicidio, probabilmente si era portato via i monconi.

    Che facciamo?, chiese Giovannelli

    Cominciamo ad avvisare tutti: il capitano, il magistrato, il medico legale e le pompe funebri, poi aspettiamo, rispose il maresciallo.

    Aspettiamo cosa?, domandò il brigadiere.

    Che arrivino, precisò Calì.

    Sotto questo sole....

    Aspettiamo....

    Il maresciallo gettò un’occhiata rapida al cadavere che avrebbe voluto ricoprire con un lenzuolo, se solo l’avesse avuto.

    È inutile aspettare in quattro. Mentre Fabio finisce la perlustrazione, voi due potreste ritornare in caserma e convocare il tipo che ci ha avvisati. Magari tu, Mario, lo senti a verbale, fosse mai che la prima gallina che canta... come si chiama?.

    È Piero Guglielmi, il giardiniere del castello, precisò Giovannelli.

    L’esperto dei funghi?.

    Lui.

    Quello stronzo non mi ha mai voluto dire dove trova i porcini. Mettigli un po’ di pepe al culo, magari vuota il sacco....

    Comandante, pensa che sia stato lui? Chiese il brigadiere indicando il cadavere con un movimento della testa.

    A fare cosa?.

    A ucciderlo.

    Il maresciallo guardò il sottoposto con aria interlocutoria.

    Ah, capisco... il pepe al culo. Mario intendevo che magari se la canta sui funghi, sul luogo dove li trova.

    Giovannelli si tolse il berretto per asciugare il sudore che gli imperlava la fronte.

    Caldo, troppo caldo... non connetto, mi scusi. Se non ha altre disposizioni noi andiamo.

    Andate.

    Calì li seguì con lo sguardo sino a quando non scomparvero dietro una curva, cento metri più in basso, e poi si sedette nuovamente sulla pietra piatta.

    Era giunto il momento di scrivere.

    L’unico modo che conosceva per stemperare la tensione e mettere in ordine i pensieri era quello di poetare seguendo il filo sottile di un’ispirazione che derivava da ciò che lo circondava. Se era in ufficio poteva essere un temperino, il tampone dei timbri o gli uccelli che transitavano veloci nel riquadro della finestra. Ma l’ispirazione lo poteva cogliere anche mentre guidava o si trovava sulla tazza del cesso e per tale motivo portava sempre con sé un notes ed una matita. Le poesie non le scriveva a penna, preferendo il tratto scuro della grafite.

    Prese dal taschino della camicia il necessario.

    Osservò il mare, seguendo la linea argentea dell’orizzonte, soffermandosi sull’etereo profilo di alcune nuvole.

    Nuvole che si

    ammassano

    all’orizzonte

    Profumi

    di terre lontane

    Silenzio rotto

    dalla voce

    del mare

    In questo

    punto di

    estrema terra

    mi perdo nell’infinito

    seguendo la parabola

    del giorno che muore.

    Le parole presero forma di getto, così come le stava immaginando: fotogrammi che condensavano le emozioni ed allontanavano la tensione.

    Per il tramonto dovrò aspettare ancora molto, ma nel contesto ci stava bene.

    La sirena di un’automobile istituzionale ferì l’afa.

    Calì immaginò che dovesse essere quella del dottor Gagliostro, sostituto procuratore della Repubblica, a cui piacevano molto le entrare ad effetto.

    Sorrise al pensiero che per raggiungere il morto avrebbe dovuto fare trecento metri di salita in mezzo a rovi, inseguito da insetti assetati di sangue.

    Rimase seduto, sino a quando non sentì la voce stridula del magistrato che imprecava contro tutti i santi del Paradiso.

    Maledette mosche... ahi, maresciallo mi aiuti... mi aiuti, non stia lì imbalsamato nella sua bella divisa... non vede che qualcosa si è aggrappato ai miei pantaloni... Dio mio, ma cos’è... presto, si muova!.

    L’uomo che si fermò accanto al cumulo di pietre era la concreta rappresentazione del giudice di De André: piccolo... con il cuore troppo vicino al buco del culo...

    Il maresciallo evitò di fare ulteriori accostamenti su ciò che si dice dei nani...

    Il dottor Gagliostro si asciugò la fronte larga che grondava sudore e con gli occhi piccoli e stretti scrutò la scena del crimine.

    Che schifo... ma non poteva coprirlo con un lenzuolo invece di stare lì impalato?, si rivolse a Calì agitando la mano in cui teneva il fazzoletto.

    Ad averlo....

    Come dice?.

    Dico che non avevo nulla con cui....

    Ma mi faccia il piacere... piuttosto... che caldo che fa qui e che puzza... dicevo piuttosto si dia da fare, mi trovi qualcosa, qualcuno, insomma faccia il suo lavoro al meglio... e glielo dica anche lei capitano, insomma devo fare tutto io?.

    Girò su se stesso, non prima di aver dato un ultimo sguardo al cadavere. Che schifo.

    Un quarto d’ora più tardi, il maresciallo udì la sirena che si allontanava ed immaginò il magistrato impegnato a cospargersi le mani ed il viso con l’acqua di colonia dozzinale che di solito usava.

    Calì aveva conosciuto molti magistrati, alcuni dei quali all’apice della carriera, e li riteneva tutti molto simili: come gattoni sazi si limitavano a gestire il quotidiano, preferendo evitare rogne. Di Gagliostro non conosceva i percorsi che lo avevano condotto ai vertici della Procura e si era spesso chiesto se in gioventù fosse stato mai un P.M. con le palle.

    In trent’anni di lavoro non ne aveva conosciuti molti.

    ...con il cuore troppo vicino...

    Al maresciallo venne in mente un’altra canzone di De André in cui un gorilla sodomizzava un giudice, ma scacciò immediatamente l’immagine e si accostò ai necrofori.

    Cercate di tagliare i lacci in un solo punto.

    Poi si rivolse all’appuntato Leccese: Fabio infila nei sacchetti tutti i reperti mentre io faccio un tampone del sangue e cerco di isolare qualche impronta di scarpe.

    Non sarebbe stata un’impresa semplice, ma alla scuola sottufficiali gli avevano insegnato che una scena del crimine parlava e lui doveva ascoltarla.

    Si dedicò alle impronte, constatando che non sarebbe stato facile

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