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Milano disillusa: 1978, un’indagine del commissario Negri
Milano disillusa: 1978, un’indagine del commissario Negri
Milano disillusa: 1978, un’indagine del commissario Negri
Ebook155 pages1 hour

Milano disillusa: 1978, un’indagine del commissario Negri

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About this ebook

1978, Piccolo Teatro, Milano. Lo spettacolo che si presenta di fronte al commissario Negri è davvero inaspettato: in un teatro silenzioso, buio, in un clima surreale, in una teca di vetro piena d’acqua, un uomo è fermo immobile a testa in giù con gli occhi sbarrati ormai privi di vita. In un’Italia e una Milano sconvolte per il rapimento di Moro e l’omicidio di Fausto e Iaio, il commissario Negri annota tutto sul suo taccuino, dove prendono vita osservazioni, indizi e spunti che diventano la narrazione di eventi drammatici e comici, più complicati di quanto la superficie li presenta come sempre accade in una Milano nera, esoterica, disperata, in cui la magia e lo spiritismo sembrano diventate l’unica via d’uscita possibile, oltre ogni razionalismo. Tutti i personaggi, dal vicecommissario Palamara, all’ispettore Coviello, fino all’amico di bevute Beppe, detto l’africano, ruotano come in un caleidoscopio di pensieri nel Negri che di punti fermi ne ha davvero pochi: la passione per la sua bella Milano, i panini salamella-maionese-tutto del Frank e, in primis, il suo Negroni “alla Negri” che solo il Nino sa fare.

Oscar Logoteta è nato a Milano il 13 aprile 1983. Creativo, scrittore e padre. O, almeno, ci prova. Nel 2014 esce il suo romanzo di esordio intitolato A come Armatura. Questa è la prima indagine del commissario Negri edita da Fratelli Frilli Editori.
www.oscarlogoteta.it
LanguageItaliano
Release dateSep 28, 2017
ISBN9788869432231
Milano disillusa: 1978, un’indagine del commissario Negri

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    Milano disillusa - Oscar Logoteta

    Nota dell’autore

    Tutti i personaggi narrati in questo romanzo sono frutto di pura invenzione. I luoghi di Milano sono veri. Per il resto, serve solo un po’ d’immaginazione, un po’ di magia e il gioco è fatto.

    Buona lettura.

    Milano

    Luglio 1955, quartiere Giambellino

    – Va’ che se te ciapi… Scappa che l’è megl! Ma va che prima o poi te ciapi, sbarbatel d’un sbarbatel!

    Luigi correva a più non posso con il suo compagno di avventura. Erano uguali: scarpe a mocassino nere, calzoncino corto color sabbia e la canottiera bianca talmente zuppa di sudore da cambiare colore in base alle zone del torso più o meno umide. E tutti e due avevano capelli scuri con la riga di lato, ma Luigi era più bello: oltre a essere leggermente più alto e muscoloso, aveva gli occhi talmente chiari che d’estate sembravano di ghiaccio e d’inverno diventavano blu come il mare.

    – Dai, ci attacchiamo all’8 al volo!

    – No Gino dai, poi la mamma ci sgrida…

    – Oh… Il Carletto ha paura del rimprovero della mammina – ribatté Luigi, schernendolo, e Dio solo sa quanto i bimbi possano essere terribili nella loro genuina cattiveria.

    Il tram stava passando proprio di fianco a loro e, prima Luigi e poi Carlo, si attaccarono alla coda, come se il tram fosse una bestia da domare. L’8 attraversava tutta via Giambellino per trovare il capolinea in piazza Tirana.

    – Gino, va che il signor Pietro si è arrabbiato questa volta… – gli disse Carlo, con ancora il fiatone che lo aveva reso paonazzo: la corsa lo aveva sfiancato.

    – È colpa sua! – gli rispose Luigi, che non dava il benché minimo segno di affaticamento – È lui che vuole che gli faccia il gioco con le carte… E ogni volta perde 1 Lira! – e quando raccontava le sue storie vincenti, gli occhi gli brillavano ancor di più.

    Luigi e Carlo non erano fratelli, ma era come se lo fossero. Luigi aveva vissuto fino ai sette anni insieme ai Martinitt, la struttura che ospitava gli orfanelli di Milano. I bambini erano chiamati Martinitt e le bambine erano chiamate Stelline.

    Milano era generosa con quei bambini e bambine ai quali, per quanto rigida, veniva data un’educazione di buon livello; poi capitava che qualche famiglia li adottasse, come era successo a Luigino.

    Luigi Bernini, detto Gino, figlio di Egidio Bernini, ciabattino morto di polmonite quando il piccolo Luigi aveva poco più di tre mesi. La madre, operaia in una seteria sui Navigli, pensò che l’unico modo per provare a garantire un futuro migliore a quel bambino, già così vispo e robusto a soli tre mesi di vita, fosse portarlo lì, dai Martinitt.

    All’età di undici anni, finite le elementari, venne preso in custodia da un vecchio amico del padre, tale Claudio Gazzola, che, con la fine della guerra, aveva messo su una merceria che gli stava rendendo bene, andava ormai in giro vestito da sciur. La gente, oltre a volere sempre lo stomaco pieno, iniziava a desiderare anche qualcos’altro e il Gazzola lo aveva capito: aveva annusato il boom.

    Carlo Gazzola e Luigi Bernini, da quel giorno lì, divennero inseparabili. Come fratelli anche se non lo erano.

    Quando era ancora dai Martinitt, Luigi conobbe un signore – uno degli uomini più grandi e grossi che avesse mai visto – che la struttura dei Martinitt ospitava soprattutto durante i mesi più freddi. Luigi lo aveva intravisto solo poche volte e gli era rimasto piuttosto impresso: alto quasi due metri, aveva lunghi capelli bianchi e un paio di folti baffi bianchi, un po’ arruffati, da far invidia a Groucho Marx. Portava sempre con sé una borsa di cuoio, chiara, abbastanza lisa ma tenuta bene, sempre in ordine e sempre chiusa. Nello spazio disponibile tra le due cinghiette c’erano incise delle iniziali: R.B..

    L’incontro tra il piccolo e il vecchio signore fu piuttosto traumatico per il povero Luigino. Si accorse di quel bimbetto mentre teneva banco davanti ai suoi compagni durante un momento di pausa in refettorio. Aveva inventato un gioco dove faceva scommettere le merende ai suoi com- pagni di classe: mangiava sempre il doppio degli altri, data la mole fisica differente rispetto ai bimbi della sua età. Il gioco consisteva in questo: Luigi si faceva legare i polsi con un piccolo cordino di fronte al suo viso e a fare i nodi poteva essere un qualsiasi spettatore, in maniera tale che potesse farne quanti ne voleva. Dopo due o tre minuti buoni di legacci continui, una volta che i polsi erano ben legati e visti e approvati da tutti i piccoli astanti che sul piatto delle scommesse avevano messo la loro merenda, saliva su una sedia. Una volta salito, rimaneva immobile, in piedi, con gli occhi chiusi, chiedendo a tutti il massimo silenzio. Poi, a un certo punto, quando tutta la platea era in attesa, batteva il piede destro per tre volte sulla sedia, con forza. Uno, due e… al terzo colpo, saltava in avanti con una capriola acrobatica e, una volta atterrato, il piccolo Luigino aveva le mani libere! Slegate!

    Il vecchio, la prima volta che vide lo spettacolo, rimase senza parole. E anche i bimbi a cui aveva vinto la merenda.

    Una volta finito lo spettacolo e allontanatisi gli spettatori, il vecchio signore si avvicinò a Luigi. Si accorse che il piccolo si stava tamponando la bocca con un fazzoletto.

    – Eh, bimbino, attento che con quella lametta in bocca rischi di farti male sul serio un giorno o l’altro…

    Luigi si girò di soprassalto mentre stava cercando di sputare la lamettina che teneva sotto la lingua. Con quella, durante il salto, riusciva a tagliare il cordino, tirandola fuori rapidamente, per poi celarla nuovamente sotto la lingua ma si era tagliato quella volta. Era spaventato da quell’omone così grosso che aveva capito subito il trucco.

    – Mi scusi signore… Mi scusi… La prego non dica nulla alla maestra che mi mandano in castigo per almeno due giorni! Era solo un gioco per passare il tempo, la prego…

    – Calma, calma… Bimbetto, ma quanti anni c’hai te?

    Luigi, asciugandosi le lacrime, e tamponandosi con un fazzoletto la lingua tagliuzzata, rispose solo mostrando la mano con tutte le dita aperte. Il vecchio rimase scioccato: se a cinque anni era già capace di fare un numero del genere, voleva dire che Dio gli aveva dato un talento a quel bimbetto lì, pensò tra sé e sé il vecchio.

    L’anziano trasalì e riprese a parlare.

    – Ehi, calma piccolino, guarda che non sono mica uno della struttura. Sono… un ospite, ecco. Piuttosto – disse il signore a Luigi porgendogli la mano – mi presento: mi chiamo Ranieri Bruni – e facendo un rapido movimento di mano, dal pugno prima chiuso e poi aperto comparve, tenuta con i polpastrelli tra indice e medio, una carta raffigurante un drago rosso tra le nuvole, disegnato in stile cinese antico. Concluse con un sorriso e aggiunse – Ma tutti mi chiamano Drago.

    Il Carlo, ripreso completamente il fiato dopo la corsa, cominciò nuovamente a parlare.

    – Va’ che prima o poi capisce che lo stai fregando e ti prende e ti tira il collo! Come con le galline! Tac! – e fece anche il gesto, ponendosi la mano a taglio direttamente sull’ugola e tirando fuori la lingua da un lato.

    – No Carletto, il signor Pietro non ha capito proprio un bel niente.

    – Cosa? – chiese Carlo. Luigi, sollevando gli occhi al cielo, si avvicinò lentamente al Carlo.

    Una volta vicino, lo guardò con quegli occhioni chiari come il ghiaccio e gli sussurrò vicino all’orecchio – Il signor Pietro non ha capito che non è un trucco – e mettendogli la mano dietro l’orecchio, tirò fuori una carta e, dopo avergliela mostrata, sgranò ancora di più gli occhi e gli disse – È magia!

    La carta raffigurava un drago rosso, tra le nuvole, in stile cinese antico.

    16 marzo 1978

    I

    Il commissario Negri era fermo immobile davanti al televisore che c’era nel suo ufficio: un Philips abbastanza nuovo e già con sedici canali, una follia, all’epoca. Un regalo del questore Marasca, dopo un caso piuttosto complicato, risolto qualche mese prima nel dicembre del ’77: una ragazzina trovata impiccata nella sua cameretta, una storia davvero nera e complicata.

    Al suo fianco c’erano il vicecommissario, Nicola Palamara, e l’ispettore Tommasino Coviello, detto Nennì.

    Erano tutti basiti, davanti al televisore, senza parole.

    Loro la guerra non l’avevano vissuta, giusto il Negri aveva qualche ricordo, i racconti della nonna e della mamma. Ma da quei fotogrammi trasmessi dall’edizione straordinaria del TG¹, sembrava che la guerra fosse appena scoppiata e a pochi chilometri da Milano.

    Quelle immagini stavano raccontando uno dei fatti più gravi mai accaduti nella storia dal dopoguerra a oggi.

    E a me ’sto qui mi sta anche sul culo pensò il Negri guardando il giornalista che stava dando la notizia.

    – Commissario, mi sa li hanno fatti fuori tutti – disse sotto voce il Palamara, quasi impaurito dalle parole che stava pronunciando.

    Il Negri continuò ad ascoltare il telegiornale, rimanendo in silenzio.

    – Vigliacchi… – disse il Coviello, trattenendo tra i denti parole ben peggiori. Il Negri si alzò e spense il televisore.

    – Commissario ma non aveva ancora finito di…

    Di cosa, Nicola? Di mostrare quei poveri colleghi distesi, chi a terra e chi sui sedili imbrattati di sangue? Di mostrare i lenzuoli che coprono padri di famiglia? Di mostrare i bussolotti e i colpi di mitra sulle fiancate? No Nicola, scusami, ma questo per me non è informare, è essere poco rispettosi. La notizia è questa: Aldo Moro è stato sequestrato e cinque colleghi della scorta sono morti. Cinque padri di famiglia, Nicola. Cinque colleghi!

    Il Negri si accese subito una sigaretta.

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