La guaritrice: Piccoli sospetti
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Racconta di un’anziana guaritrice che viene trovata morta nella sua cucina. Il fatto è derubricato dai carabinieri come incidente, ma è davvero così?
La piccola Maria coadiuvata dal nonno indaga. Riuscirà a scoprire cosa è successo veramente?
E dove stanno andando Maria e suo marito e perché?
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La guaritrice - Maria Teresa Valle
Personaggi principali
Ai giorni nostri
Maria e Francesco hanno appena finito di cenare. Sulla tovaglia di cotone écru i piatti sporchi, i bicchieri con un goccio di vino sul fondo, il pane sbocconcellato e le stoviglie aspettano pigre di essere sparecchiate.
Francesco gusta beato l’ultimo sorso di caffè, lo sguardo vacuo di chi pensa già al divano e a un talk-show soporifero.
Maria non beve caffè la sera. Troppo nervosa. Forse un orzo, più tardi, o addirittura una camomilla.
Guarda il marito e pensa. Pensa a come dirglielo.
Tutto dipende da come gli presenterà la cosa.
L’importante è non farsi dire subito di no, perché se Francesco dice di no alla prima, poi non si rimangia più la parola.
È un tipo coerente, Francesco. Se dice di no, non se lo rimangia. È un tipo ostinato, Francesco.
Nella cucina i due sono fissi nella stessa immobilità. Apparentemente il loro atteggiamento è simile, ma in realtà, è motivato da necessità del tutto diverse.
Francesco si gode la sensazione di sazietà riducendo al minimo il dispendio di energia a favore di una digestione agevole. Le braccia rilassate, le palpebre semichiuse e le labbra distese fanno presagire un paradiso privato in cui il suo spirito si sta aggirando.
Maria cerca di tenere a bada un crescente nervosismo bilanciando la furiosa attività mentale con l’inattività del corpo. E a guardarla bene negli occhi si intuisce, dietro il suo sguardo, tutto l’impegno che sta mettendo in quella che deve essere una ricerca delicata e difficile.
Finalmente la sua mente partorisce il disegno che andava cercando. L’ora è propizia, la trappola è finalmente pronta: non resta che farla scattare.
Maria si alza da tavola e mentre comincia a raccogliere le posate, a impilare i piatti sporchi, a radunare i bicchieri con un goccio di vino sul fondo, lascia cadere una frase, così, come niente fosse.
– Tutte le famiglie felici sono simili, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo
. Chi l’ha scritto?
– Eh?
Francesco risvegliato dal suo torpore stenta a reagire.
– Chi l’ha scritto? Dai è facile.
– A quest’ora...queste domande...
– Non puoi non saperlo, è Tolstoj. L’incipit di Anna Karenina. L’incipit più famoso del romanzo più famoso del mondo.
– Bene. Ne sono felice.
Francesco non sembra molto colpito dalla citazione della moglie.
– Francesco, tu sei d’accordo?
– Su cosa?
– Su quello che dice Tolstoj.
Le rotelle del cervello di Francesco girano a vuoto.
– ...
– Io, no! – sbotta Maria.
– Ah! E perché?
– Perché, secondo me, non è vero che tutte le famiglie felici sono uguali!
– Ah!
– Secondo te, noi siamo uguali a una qualunque delle famiglie felici che conosciamo?
– Non saprei...
– Ma certo che no. Abbiamo un modo tutto nostro di essere felici. Facciamo cose diverse dagli altri. Siamo capaci di essere complici, di non essere convenzionali, laddove maggior parte delle persone della nostra età si trova a suo agio solo nella consuetudine.
– Se lo dici tu.
– Per esempio se ora io ti dicessi: Francesco, voglio farti una sorpresa, saltiamo in macchina e portami a Londra
, sono sicura che tu lo faresti. Lo faresti, vero?
– Lo farei?
– Certo che lo faresti. Per farmi contenta, no?
– Sì. Certo, lo farei per farti contenta.
– OK! Facciamolo.
– Come, scusa? Cosa hai detto?
Francesco comincia a rendersi conto che qualche cosa sta succedendo, che una qualche trappola diabolicamente si sta chiudendo su di lui.
– Ho detto che voglio farti una sorpresa.
– Sì, ma vai avanti...
– Per farti questa sorpresa mi devi accompagnare a Londra.
– Ti accompagno volentieri, ma perché IN MACCHINA?
– Lo sai che ho paura dell’aereo. Non vorrai che vada a Londra in macchina da sola?
– No, no. Ma perché a Londra?
Ma te l’ho appena detto. È una sorpresa!
Ai giorni nostri
Francesco è alla guida dell’auto dalla mattina. L’incessante rettilineo e il panorama sempre uguale gli provocano una pericolosa sonnolenza.
– Dimmi qualcosa, altrimenti mi addormento.
L’autostrada corre dritta in mezzo a campi arati di fresco.
Sulla terra scura, da cui si leva una nebbiolina leggera, alcune cornacchie sono intente a stanare lombrichi.
In qualche campo le stoppie si sbriciolano nella luce di un sole velato. In altri, rettangoli di erba appena nata brillano di rugiada. Nel mezzo filari di pioppi costeggiano i fossati.
Tutto è pianura e silenzio.
Seduta nell’auto accanto al marito Maria guarda distrattamente la pianura padana scorrere fuori dal finestrino.
– Possiamo fermarci a bere un caffè. Tra qualche chilometro c’è un autogrill.
– Non ho voglia di bere un altro caffè. Raccontami qualcosa, così mi tieni sveglio.
– Cosa posso raccontarti che non ti annoi? Non so che dirti.
– Non ci credo.
– Ti assicuro...
– Raccontami qualcosa di te.
– Di me? Ma sai tutto di me! Se ti parlo di me è la volta che ti addormenti davvero.
– Figurati se so tutto di te! Non credo proprio. Abbiamo tutti degli angoli bui che teniamo nascosti. E scommetto che tu ne hai di molto interessanti.
– Ora pretendi troppo. Se angoli bui hanno da essere, non possono essere raccontati. Tanto meno al marito, non ti pare?
– Peccato. Allora potresti raccontarmi qualcosa di quando non ti conoscevo ancora. Di quando eri bambina, per esempio.
– Davvero t’interessa che ti racconti cosa facevo da bambina?
– Perché no? Chissà che non capisca qualcosa di più di te, di quello che sei ora e che riesca a evitare le trappole che mi prepari quando sono indifeso. Potrebbe essere l’occasione giusta: abbiamo tempo, siamo chiusi dentro la macchina e non possiamo evitare di stare insieme. Questa volta non puoi fuggire cara mia!
– Potrei raccontarti di quella volta che sono scappata di casa per andare a comprare le nocciole caramellate che erano la mia passione...
– Quello me lo hai già raccontato.
– Allora di quando sono caduta dalla bicicletta!
– Non fare la furba! Lo sai che son cose che ho sentito mille volte. Ci deve pur essere qualche cosa che ti sei dimenticata di dirmi.
– Mi sembra naturale. E tu stai insinuando che qualcosa che ti ho tenuto nascosto può aver condizionato i miei comportamenti di oggi. Però, sicuramente, anche tu non mi hai raccontato tutto quello che ti è successo quando eri bambino.
– Non mi è capitato niente di importante.
– Questo è quello che credi tu. Per esempio per quale motivo non riesci a buttar via nulla? Se è vero quello che pensi per me, la cosa vale anche per te: ci sarà stato qualche avvenimento nella tua infanzia che giustifica questo atteggiamento. Anche episodi insignificanti possono aver condizionato il tuo modo di essere da adulto...
– Non cambiare discorso. Si parlava di te.
– Ok! Ok! Veramente ci sarebbe un episodio che non ti ho mai raccontato...
– Allora, avevo ragione!
Maria si fa pensierosa.
– Quello che mi hai detto mi ha fatto tornare in mente questa cosa... Davvero non me ne ricordavo. È una storia lunga...
Anche il nostro viaggio. Abbiamo tutto il tempo. E adesso sono curioso...
1955
1
Il golfo è un arco perfetto che va dalla Mola a Punta Aspera. L’Aurelia corre lungo il litorale; da un lato la passeggiata a mare, i giardini e il viale delle Palme, e dall’altro le case tutte in fila, sciorinate come i grani di un rosario.
L’abitato si estende nell’interno per poche centinaia di metri, poi sparpaglia le sue costruzioni sui fianchi delle colline che guardano il mare.
Il verde argentato degli ulivi si alterna con quello scuro dei pini marittimi. Qua e là, verso il finire dell’inverno, nuvole di mimosa scoppiano nel verde. Per tutto l’anno cascate di gerani incendiano balconi e ringhiere, mentre le rose fioriscono nei giardini.
Lungo l’Aurelia le pareti rocciose a picco sulla strada sono popolate da piante spontanee che crescono e fioriscono al sole della riviera.
Naviganti, marinai, pescatori, maestri d’ascia, bagnini, piccoli artigiani, modesti albergatori, uomini e donne del popolo animano Varazze negli anni del dopoguerra.
Nella casa di via Camogli due donne parlano tra loro.
– Quella bambina mi preoccupa. Sempre per strada a giocare con i maschi. Sempre con le ginocchia sbucciate e quella maledetta bicicletta a rotta di collo giù per la discesa. Un giorno o l’altro si farà male sul serio.
Rosa, la madre, è seduta al tavolo. Indossa una camicetta a piccoli fiori su sfondo rosa e una gonna blu. Ha qualche filo bianco tra i capelli e occhi mansueti nei quali si specchiano le pentole della cucina e qualche sogno preso in prestito da Grand Hotel
. Fianchi generosi e braccia robuste, come le donne che conoscono la fatica.
Alle sue spalle, sulla cucina economica, una grossa pentola di alluminio colma d’acqua. Sul lavandino di marmo le verdure pulite per la minestra.
Sul davanzale un gatto grigio ronfa beato.
Sul ripiano della credenza una grossa sveglia con le lancette sulle cinque.
Rosa sta avvolgendo la lana recuperata da un vecchio maglione. Le sue mani lavorano veloci. Sono mani ruvide, temprate dall’acqua bollente e dalla liscivia per il bucato. Abituate a brandire il battipanni per pulire i tappeti, a strizzare gli stracci per lavare i pavimenti, a tirare la galera
per lucidare la cera, a pulire i vetri con l’alcol e la carta di giornale, a rammendare buchi nei calzini, a lavorare a maglia fino a tarda notte, a cucire con la vecchia Singer
i vestiti per le figlie.
Di fronte a lei Ida, la nonna, sferruzza un paio di calze per il marito.
Il suo corpo è fatto della stessa materia dura e robusta di quello della figlia, nonostante gli anni l’abbiano un poco piegato e rattrappito. I capelli sono tutti bianchi e raccolti in uno chignon all’altezza della nuca.
– Non dovresti lasciarla andare a giocare per strada. è una femmina. E si comporta come un maschiaccio.
La nonna ha rincarato la dose, ma nonno Galdino, entrato in cucina per bere un bicchiere d’acqua, come sempre difende la nipote.
– Avete finito voi due di dare addosso a quella povera bambina? è esuberante. Bisogna lasciarla sfogare. Non fa niente di male. Quando crescerà vedrete che si calmerà.
Nella casa di via Camogli, nel quartiere Caminata
Maria abita con la sorella Anna, i genitori e i nonni materni.
– Non sono sicura che crescendo cambi. È così diversa dalle altre bambine! Le sue compagne stanno ore a cullare le loro bambole, a fare il negozio, a giocare alle signore. Lei no. Sempre in strada a giocare con i maschi. E se tanto mi dà tanto, con il caratterino che ha, quando diventerà adolescente sarà anche peggio.
Mentre le due donne parlano, Rosa non smette di lavorare. I gomitoli aumentano e, quando saranno completati, la lana, con l’aiuto della nonna, verrà ridotta in matasse, per permetterne il lavaggio. Dopo l’asciugatura verrà riavvolta per essere lavorata ai ferri.
– Hai provato a parlarne con Armando?
– Per carità! Lui dice che sono fissata. Del resto lui avrebbe voluto dei figli maschi e invece sono capitate due femmine. Forse Maria è quanto di più simile a un maschio si possa pensare.
– Almeno Anna è un po’ più tranquilla.
– Un po’, ma con l’esempio della sorella maggiore non so quanto durerà...
– Cosa pensi di fare con questa lana?
– Era un maglione di Armando, ma aveva i gomiti consumati. Quando sarà lavata aggiungerò un filo nuovo, e farò una maglia per le