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Il silenzio della bassa: Un'indagine di Galeazzo Trebbi
Il silenzio della bassa: Un'indagine di Galeazzo Trebbi
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Il silenzio della bassa: Un'indagine di Galeazzo Trebbi

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About this ebook

Autunno 2011, dal villaggio Airone a pochi chilometri da Bologna, scompare Celeste Maccaferri, una ragazza di diciassette anni, famiglia piccolo borghese, in crisi economica ed esistenziale profonda. La sezione persone scomparse della Polizia di Stato inizia subito a investigare fra i compagni di scuola, nell’ambito familiare. Parallelamente una disinvolta conduttrice televisiva, Fiorella Benedetti, inizia una sua indagine ufficiosa entrando prepotentemente nel ménage già sconvolto della famiglia di Celeste, ingaggiando un investigatore privato, Galeazzo Trebbi, costruendo con professionalità un caso con l’unico fine di alzare gli indici d’ascolto dell’emittente televisiva per la quale lavora, una rete privata legata alla curia bolognese. Viene rinvenuto il diario segreto di Celeste e seguendo le confessioni private della giovane inizia una caccia al tesoro fra sette sataniche di periferia, il parroco del villaggio, e infine un giovane nord africano che lavora a pochi chilometri dalla villetta Maccaferri. Solo Galeazzo Trebbi con il suo metodo di investigazione vecchio stile e la conoscenza dei luoghi e dei personaggi della città riuscirà a dare una svolta alle indagini.

Massimo Fagnoni. Cinquantott’otto anni, bolognese,laureato in Filosofia, ha lavorato a lungo nei servizi sociali e psichiatrici della sua città. Da 16 anni fa parte della Polizia Municipale di Bologna. Dalla collaborazione con le forze dell’ordine è nato il desiderio di narrare storie noir. È autore di: «Bologna all’Inferno» 2010, Giraldi editore. «La ragazza del fiume» 2010, 0111 edizioni. «Belva di città» 2010 Eclissi editore, primo romanzo della serie del maresciallo Greco che nel 2011, ha vinto il primo premio al concorso letterario «Lomellina in giallo». «Cielo d’agosto» 2012 Eclissi editore, secondo romanzo della serie del maresciallo Greco. «Solitario bolognese» 2013 Giraldi editore. «Lupi neri su Bologna» 2013, Minerva Edizioni. «Vuoti a perdere» 2015 Eclissi Editrice.
«Bologna non c’è più» 2015 Fratelli Frilli Editori, primo premio al concorso letterario I Sapori del giallo, poliziotti che scrivono. «Bolognesi per caso», racconti. 2016 Giraldi Editore. «Il giallo di Caserme Rosse» 2016 Fratelli Frilli Editori. «Il ghiaccio e la memoria». 2017. Minerva Edizioni «Il bibliotecario di via Gorki». 2017. Fratelli Frilli Editori. «La consistenza del sangue».2018. Girali editore.
LanguageItaliano
Release dateJun 17, 2014
ISBN9788875639662
Il silenzio della bassa: Un'indagine di Galeazzo Trebbi

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    Il silenzio della bassa - Massimo Fagnoni

    Il Messaggero, 25 marzo 2010

    Venticinquemila persone scomparse in Italia.

    Elisa Claps è l’ultima depennata dall’elenco: ben 91.087 dal 1974 ad oggi, di cui 65.858 ritrovati e 25.229 ancora da ricercare.

    Tra questi ultimi, circa diecimila sono minori, quindicimila gli stranieri.

    Sono invece 829 i cadaveri non identificati che giacciono negli obitori e negli istituti di medicina legale. Questi i dati della quarta relazione semestrale sulle persone scomparse diffusi oggi nel corso di una conferenza stampa al Viminale cui hanno partecipato il ministro dell’Interno Roberto Maroni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il capo della Polizia, Antonio Manganelli e il commissario straordinario del Governo alle persone scomparse, Michele Penta.

    La maggior parte dei minori scomparsi si è allontanata da istituti o comunità, il 25 per cento si è allontanato volontariamente dalla famiglia, per il dieci per cento si tratta di casi di sottrazione da coniuge, l’uno per cento è possibile vittima di reato.

    Per l’undici per cento la causa della scomparsa non è stata determinata.

    Prologo

    Trebbi è immerso nel solito incubo dei momenti peggiori.

    Osserva la scena dall’alto, come se fosse in galleria al cinema. Sotto c’è un Trebbi più giovane, più magro e più cattivo che sta pestando a sangue un individuo che un tempo doveva avere un nome. Trebbi sa che sta sognando, è il suo incubo preferito, quello dal quale non riesce mai ad uscire, subendolo ogni volta fino alla fine come se attraverso la sua evocazione potesse sperare in una riparazione, ma non c’è nessuno a perdonargli i suoi innumerevoli peccati quasi tutti mortali. Trebbi ricorda con esattezza le battute dei protagonisti.

    «Se mi dici chi ha passato la dose a mia figlia forse non ti ammazzo, non questa volta. Che ne dici Aziz?».

    Lui è chinato sopra il nord africano che sanguina copiosamente dal naso e dalla bocca, mentre cerca di coprirsi il viso con l’avambraccio per ripararsi dai colpi successivi. Trebbi lascia fare, non ha fretta, non ha più fretta. Una furia cieca lo sta divorando, un odio talmente potente che deve sgorgare con calma, deve arrivare fino al suo nemico, penetrarlo fino in fondo, così da farglielo memorizzare per poi raccontarlo con terrore agli altri, quelli che verranno dopo di lui. Perché non ci sarà pace fino a quando l’ultimo dei responsabili non sarà morto o in galera, ma Trebbi lo sa, meglio morto. La galera nel suo ridicolo paese è idea virtuale, specialmente per gli spacciatori clandestini.

    «Se ti dico i nomi degli altri quelli mi ammazzano, lo capisci? Tu mi puoi picchiare, ma non mi puoi ammazzare perché sei uno sbirro, uno di quelli onesti, non lo faresti mai».

    La voce esce fioca, nel suo italiano metallico, mescolata a rantoli e sangue. Nonostante le manganellate non riesce a perdere la sua arroganza, non ha paura di lui, perché sa che non può andare oltre a ciò che già gli sta facendo.

    Trebbi ha in mano un bastone estensibile di metallo sporco di sangue, anche i suoi anfibi sono sporchi di sangue e ha schizzi di sangue sul cappotto corto, sul viso, sulle mani, negli occhi, ma non se ne cura, lui è già morto, morto dentro, non gli frega nulla di cosa accadrà dopo, vuole solo quei nomi per completare, con metodo, la sua vendetta. Quasi con delicatezza sposta l’avambraccio del giovane nord africano che capisce le sue intenzioni e cerca di resistergli, di afferrargli il polso, ma Trebbi lo colpisce di nuovo, con precisione scientifica, prima sullo zigomo, provocandogli un piccolo squarcio dal quale subito cola sangue, poi gli sferra un calcio controllato nello stomaco, cercando di non rompergli le costole. Il giovane comincia a rantolare e vomita bile sulle sue scarpe, poi tossisce convulsamente e piange e si lamenta nella sua lingua oscura, sembra un bambino indifeso. Trebbi si ferma un istante, raddrizza la schiena indolenzita e rimane stupito a osservare il suo sistematico lavoro di demolizione. Rimane in attesa nel semibuio della casa abbandonata dove sapeva che avrebbe trovato il giovane spacciatore ancora intento a smaltire alcol ed eroina, dopo una notte di lavoro in stazione. Improvvisamente gli cala sulle spalle una stanchezza insopportabile, vorrebbe smettere, andarsene, dimenticare tutto. A quel punto del sogno vivissimo, cinematografico, Trebbi cerca regolarmente di svegliarsi, perché ha già espiato abbastanza, anche lo psicanalista più severo gli direbbe basta Trebbi hai già dato, ma il suo cervello bacato di poliziotto in pensione se ne frega, lui dovrà scontare una colpa per tutto il resto della sua esistenza e forse anche dopo se esiste un inferno dei poliziotti. La scena riprende esattamente identica, precisa, rigorosa, come dopo una pausa del videoregistratore.

    «Adesso me li vuoi dire i nomi di quelli che hanno venduto l’eroina a mia figlia o vuoi lasciarla qui, in questo buco lercio, la tua anima inutile?».

    L’uomo sanguinante lo guarda, gli occhi pesti, le labbra rotte, sangue ovunque, non sembra in grado di dire nulla ormai, si è anche pisciato addosso e un odore pungente di urina e vomito raggiunge il naso e lo stomaco di Trebbi e solo allora si rende conto di essere lui l’artefice di quel macello.

    L’uomo scuote desolato la testa di capelli ricci, non si ripara più il viso con le braccia, è esausto.

    Trebbi vorrebbe andarsene ma in quel desiderio intravede sua figlia nel letto di ospedale dove l’ha lasciata, rievoca di nuovo le parole del neurologo, lente, pacate, irrimediabili come una condanna a morte, danno cerebrale permanente, problemi cognitivi da valutare, nel tempo… nel tempo.

    Trebbi in quel ricordo perde definitivamente ogni scrupolo e colpisce senza pietà, spacca, rompe, fermandosi con il fiato grosso e i muscoli delle braccia indolenziti solo quando si rende conto che l’uomo è morto. È un passaggio obbligato, adesso si dovrà per forza svegliare, come al solito tremante e sudato, e riemergere, non nel suo letto, ma sulla barella di un’ambulanza.

    È legato alla lettiga, intorno fuoco e fiamme, gente che urla, vigili del fuoco in azione. Un infermiere lo guarda con occhi curiosi e professionali, gli applica sul viso una mascherina dalla quale esce ossigeno con un sibilo rassicurante. Sente qualcuno che parla di lui muoviti a caricarlo... lo stiamo perdendo.

    Chi stanno perdendo? E soprattutto dove si trova? Un sogno? Un nuovo incubo? Una cosa nuova finalmente, ma non è convinto, troppo realistico. In compenso non sente il suo corpo, non sente le gambe, non sente le mani, fatica a respirare e gli arriva addosso calore intenso, è l’energia potente di un incendio, poi sente che stanno sollevando lettiga e tutto, si ritrova all’interno dell’ambulanza, una luce fredda gli entra negli occhi, sente la sirena urlargli nelle orecchie e spera con tutte le forze, che non sia un sogno ma una qualsiasi realtà e mentre perde conoscenza è sicuro di mostrare un sorriso di circostanza per la piccola platea intorno.

    Non devono preoccuparsi per lui. Adesso finalmente potrà riposare.

    Uno

    Un mese prima…

    La prima immagine che si scorge nelle giornate uggiose come questa è quel pennacchio biancastro sputato verso il cielo. Chi viaggia da quelle parti non può non chiedersi almeno per un istante di che natura sia quel fumo bianchissimo che scompare nel buio della sera autunnale.

    Esce silenzioso dall’altissimo comignolo di una struttura di metallo e vetro. Quando fu costruita non c’erano case vicine, si osservava con diffidenza quello che tutti chiamavano inceneritore.

    I bolognesi lo chiamano affettuosamente il Frullo, dandogli il nome della via nella quale è stato costruito. Quelli che lavorano per strada in città quando hanno qualcuno o qualcosa che li disturba abbastanza gli trovano subito un’adeguata e virtuale collocazione nella sua capiente camera di combustione. I bolognesi non protestano per la forzata vicinanza con il mostro ecologico, anzi gli attribuiscono poteri quasi purificatori ed è un gioco quello che spesso fanno fra loro, quando in dialetto si raccontano dove collocherebbero spacciatori di eroina, borseggiatori seriali per autobus di linea, soprattutto l’autobus 13 il più amato da peruviani, e cialtroni stanziali in genere.

    Le battute sono sempre le stesse me a i purtarévv al Frôll, acsé i la piäntan ed ruber! I cosiddetti umarells reinventati da Danilo Masotti¹, con tono pacato e leggero, guardando poliziotti o agenti della municipale, mentre sudati portano via il delinquente di turno in manette, capita che chiedano agli agenti allegramente: Mo parché an i purté brisa al Frôll?

    Entità quasi divina, superiore agli accadimenti umani, imparziale, antirazzista, obiettiva e definitiva, il Frullo domina la pianura fra Bologna e Granarolo, località rinomata per il suo latte.

    Celeste non ha ancora capito se deve avere paura di quella macchia di metallo incastrata nella pianura. In rete ha letto le esternazioni dei grillini bolognesi che sostengono la nocività di quelle emissioni, ma lei non ci vuole credere che i suoi abbiano comprato casa vicino a qualcosa di pericoloso. La campagna fra Bologna e Ferrara attraversa il suo piccolo borgo che non è un paese, non è un quartiere, ma solo un luogo, dove la città si è allargata, come per una contrazione spaziale, disseminando il territorio di servizi che non potevano sorgere troppo vicino al centro.

    Sarà un caso, ma a pochi chilometri dall’inceneritore sorge un centro modernissimo e tecnologico che accoglie malati terminali. Vengono da tutta le regione a morire vicino a casa sua. Celeste si chiede se ci sia un collegamento fra quello strano posto e l’inceneritore.

    A volte si è fermata a pensare a quanto sarebbe funzionale alimentare il termovalorizzatore con tutti quei morti... cadaveri riciclabili. Certi pensieri li tiene per sé, li appunta ordinatamente in un piccolo quaderno nascosto in un luogo segreto. Una volta ha guardato il borgo dove è nata dall’alto di una fotografia presa dal satellite, era una foto di qualche anno prima, perché Google Earth non è mai aggiornato al presente. Mancavano le case dell’agglomerato dove è nata e cresciuta, c’era solo il cantiere nel luogo in cui il suo mondo, il suo piccolo mondo doveva ancora sorgere.

    La piccola frazione dove vive sorge a due passi da Bentivoglio esattamente fra il paese che prende il nome dalla storica famiglia bolognese e Santa Maria in Duno. L’agglomerato di case è cresciuto talmente tanto da assumere un suo nome, oggi si chiama Villaggio Airone.

    L’hanno chiamato Airone per ricordare alla gente di passaggio che a pochi chilometri sorge un parco naturale, in parte acquatico popolato di aironi e cicogne.

    La campagna bolognese è come un puzzle schizofrenico, parchi naturali al posto delle dimenticate risaie dove le donne, gonne raccolte su cosce bianchissime, sguazzavano con i polpacci forti nell’acqua, togliendo le erbacce infestanti che crescevano nelle risaie disturbando la crescita delle piantine di riso. Allora c’erano i padroni, quelli veri, procedevano a cavallo lungo i sentieri di campagna osservando con occhi stretti nel sole le mondine al lavoro. Erano vestiti di bianco, le ascelle delle giacche di lino gialle di sudore, curavano il loro patrimonio fatto di carne e sudore, si preoccupavano quando le mondine smettevano di cantare, perché era segno che qualcosa non girava a dovere. Oggi le mondine non ci sono più. Non ci sono più le risaie.

    C’è un parco dove un tempo le zanzare la facevano da padrone e un borgo, una sorta di quartiere residenziale popolato da famiglie apparentemente normali come quella di Celeste. I suoi amici, i compagni di classe del liceo, residenti a Bologna, trovano strano tutto ciò che sorge fuori dalle antiche mura della città turrita. Il borgo di Celeste lo hanno ribattezzato l’Avvoltoio, perché nel tempo intorno all’Hospice sono cresciute come funghi agenzie di pompe funebri. Si sa la morte è un business, uno dei pochi sicuri. Si vedono sfrecciare, estate e inverno, feretri luccicanti agghindati con fiori e corone, dietro i parenti dolenti in lunghe file di auto a coprire la pianura verso destinazioni ignote. Spesso, per comodità, i funerali si celebrano nella piccola chiesa del villaggio, nuovissima, cresciuta in pochissimo tempo, per le esigenze della comunità.

    Celeste abita in questo singolare villaggio emiliano, mai e poi mai potrebbe dirsi scontenta della scelta fatta vent’anni anni prima dai suoi genitori. La sua villetta a schiera sorge a fianco di altre villette identiche, pulite, ordinate, silenziose a comporre tante piccole corti con all’interno aiuole composte da alberi e panchine per sedersi a leggere il giornale. Celeste non vede mai nessuno seduto in quei luoghi, dieci giardini deserti per altrettante corti di villette tutte uguali.

    I suoi amici si perdono regolarmente quando vengono a studiare a casa sua, non sa se quest’anno accadrà di nuovo, in famiglia non si respira una bella atmosfera.

    Una leggera pioggia ricomincia a cadere, si mescola alle luci arancioni dei lampioni che costeggiano il grande parcheggio dell’Hospice. Celeste è lì in attesa all’imbocco del vialetto ghiaioso che conduce all’ingresso principale della struttura. Una sola volta è entrata nel centro, se la ricorda ancora. A quel tempo frequentava la terza media del villaggio e una sua compagna di classe si era ammalata. La ricorda bene Samantha Vannini, un nome da attrice americana di terza categoria e un fisico esile come quello di una contorsionista anoressica. A Celeste non piaceva molto Samantha, ma quando la madre della ragazzina le telefonò pregandola di andarla a trovare non esitò un solo istante. Ricorda la tensione nel momento di entrare in quella specie di edificio futuristico disposto come un pentagono accessibile, privo di barriere architettoniche e silenzioso.

    Celeste era preparata a urla di sofferenza, a volti contratti dal dolore, all’odore della morte.

    Rimase stupita dal clima di serenità diffuso. Le infermiere sorridevano rilassate e accoglienti, non c’erano i ritmi convulsi e nevrotici dei pronto soccorso cittadini, lì nessuno lottava per riparare persone ma solo per aiutarle a fare il grande passo, senza dolore. Una infermiera bassina e cinese l’accompagnò fino a una porta socchiusa, dentro c’era Samantha o Sammy come preferivano chiamarla tutti i compagni di classe. Sammy stava giocando con il Game Boy Advance, accanto era seduta la madre, sembrava l’ombra di se stessa, una donnona di campagna. Celeste la ricordava indaffarata fra campi e cucina, la trovò dimagrita con due occhiaie scure e un sorriso stanco.

    Il padre non c’era. Celeste intuiva già allora la latitanza dei padri nel momento del dolore e della sofferenza, non sono capaci di sopportare. Ricorda bene quel pomeriggio di un giorno di primavera trascorso con Sammy a giocare con la console, guardando la televisione, fra le trasmissioni del palinsesto pomeridiano, la De Filippi con Uomini e donne, Cristina Parodi con Verissimo, Mara Venier con La vita in diretta.

    Le trasmissioni del nulla pomeridiano fra litigi insensati per contendersi un uomo, gossip di dubbio gusto sulla vita degli italiani più famosi e cronaca nera. Le due ragazzine trascorsero diverse ore a ridere, commentando insieme alla mamma di Samantha la televisione più guardata dalle casalinghe. Infine Celeste salutò l’amica con un bacio leggero sulla fronte fredda e sudata.

    Si fermò sulla soglia della bella camera, asettica come quella di un albergo di passaggio, con una grande finestra dalla quale entrava un pezzo di campagna dolce nel sole del tramonto.

    «Torni domani?» le chiese Samantha con un tono incerto inaspettato. Solo allora Celeste si rese conto della nuova magrezza dell’ amica, di quelle flebo nelle braccia, della spossatezza della ragazza dopo un pomeriggio a sforzarsi di apparire normale.

    Celeste annuì, con un nodo alla gola spuntato senza chiedere permesso, corse verso l’uscita ascoltando il rumore attutito delle All Star sul linoleum del lungo corridoio.

    Samantha non arrivò mai a domani. Forse è per questo motivo che Celeste stasera ha deciso di venire qui. Ricorda quel viso magro di adolescente appassita, il naso lungo, trasparente di venuzze sottili. Da allora la morte la immagina così, una trasparenza della pelle.

    Allora non capiva. Celeste si rende conto di arrivare sempre dopo la percezione oggettiva degli accadimenti. Funziona così la sua testa, ormai si è rassegnata ai suoi limiti.

    Prima si materializza l’immagine, che può essere accompagnata da una serie di accadimenti anche apparentemente straordinari, dopo, solo dopo, esplode la consapevolezza.

    La consapevolezza Celeste la colse il giorno del funerale della piccola Sammy, negli occhi stravolti della madre, nella folla elegante e convulsa di parenti, compagni di classe, insegnanti e curiosi.

    Accompagnata da sua madre entrò nella camera ardente, gelida e spoglia. Si ritrovò davanti il corpicino minuto di un’ amica per caso, solo allora sentì il cuore o qualcosa sopra lo stomaco, subire una specie di arresto, sentì la nausea acida salire fino alla gola, comprese che Samantha era un’amica... un’amica che non avrebbe più rivisto.

    Era un’amica perché l’aveva scelta in mezzo a tutte le compagne di classe, aveva chiesto di lei, con lei aveva deciso di trascorrere l’ultimo pomeriggio della sua vita.

    Questa cognizione legata a una lucida sensazione di solitudine si incollò allo stomaco per esplodere in un singhiozzo, interpretato dai presenti come sincero dolore per la scomparsa dell’amica.

    Celeste in realtà soffriva per se stessa, si rendeva conto solo allora di come quella porzione di tempo, trascorsa a giocare con il Game Boy Advance guardando stupidi programmi televisivi, era stato uno dei pomeriggi più intensi della sua vita e non ci sarebbe più stato, non con Samantha.

    Nacque in quella occasione una nuova ossessione per Celeste, mai più abbandonata, quella per la programmazione televisiva pomeridiana, incastrata nelle sue giornate fra studio e tempo libero.

    In quelle trasmissioni, prive di qualsiasi parvenza di genuinità, lei cerca l’amica mancata, si consola con le tragedie di italiani piccolissimi, illudendosi di non essere sola.

    La pioggia leggera le sta inzuppando i lunghi capelli castani un poco arricciati dall’umidità.

    Celeste si copre la testa con il cappuccio del Walls verde, si passa la mano piccola, intirizzita, sul viso bagnato per poi asciugarla sui jeans scuri.

    La luce arancione dei lampioni si rompe nella pioggia esplodendo in tanti raggi proiettati verso il buio. Lunghi camion attraversano la pianura rombando sulla statale.

    Celeste stringe al petto il coniglio di peluche infilato sotto il corto giubbotto. Ha deciso all’ultimo momento di portarselo appresso. Compagno di tutta l’infanzia, suo angelo custode, puzzolente conforto nelle notti solitarie, primo confessore di desideri adolescenziali.

    Non doveva trascinarlo con sé, lo sa, ma non tutto ciò che è ragionevole è sempre fattibile.

    Ogni grande passo richiede una forza disumana. Celeste sbircia con occhi bagnati di pioggia leggera le luci della struttura ospedaliera. Ricorda gli spazi puliti, la musica soffusa, la biblioteca colma di libri e film disposti ordinatamente. Per un istante desidera entrare in quel luogo e chiedere un letto, solo per una notte, solo per un istante. Pensa ai suoi genitori, non diventerà mai come loro.

    Sua madre era così bella, la rivede nelle fotografie del liceo scientifico bolognese al fianco di suo padre, la coppia più bella del liceo, la coppia più bella del mondo.

    Non sa tutto della coppia dei suoi vecchi. Sa che sono sufficientemente giovani, quarantacinque anni il padre Piersilvio Maccaferri, quarantadue anni la madre Margherita Trevisani.

    I suoi genitori si sono conosciuti al bar del liceo, nelle pause dettate dalla campanella, nei lunghi corridoi deserti durante i compiti in classe, ma si cercavano da tempo, inconsciamente, raccontano nei momenti più melensi dei ritrovi amicali.

    Suo padre nessuno lo chiama con il suo nome tanto è detestabile, abitualmente lo chiamano il Pier.

    A scuola non era una cima, ma ha portato a termine gli studi dignitosamente, fino alla laurea in economia e commercio. I nonni erano contenti, famiglia borghese, nonno commerciante di calzature, nonna preside di una antica scuola bolognese, la nonna più amata da Celeste.

    Margherita Trevisani, invece, è nata in una tipica famiglia bottegaia bolognese, genitori salumieri di quartiere, con piccola e fiorente attività in via Matteucci, un avviato negozio abbandonato alla loro morte. Margherita, sua madre, non ha lavorato un giorno in tutta la vita, laureata in legge, non ha mai fatto l’esame di stato, perché Pier già lavorava.

    Dopo la laurea è entrato in una grande società di credito, poi è passato a una finanziaria. Con il crollo dei mercati la famiglia Maccaferri è entrata in crisi. Celeste pensa alle labbra e alle tette di sua madre, diecimila euro di silicone e botulino in un momento nel quale sembrava una spesa risibile. Celeste sorride nella guazza serale, si asciuga di nuovo il viso bagnato con la mano. Nei momenti più cupi ha cercato di parlare con la sorella, Angelica, la dark della famiglia, una specie di incrocio fra una emo e una punk anni ottanta, con un’apprezzabile collezione di streghette con tanto di scopa appese nella sua camera, ma Angelica vive in un mondo suo, indifferente ai crolli dei mercati e alle crisi familiari. Lei non ha, del resto, grosse esigenze economiche, i soldi per le sigarette, per il suo discutibile abbigliamento composto soprattutto da indumenti neri e per le serate bolognesi trascorse in luoghi oscuri e maleodoranti, chiassosi e misteriosi.

    Celeste vuole bene alla sorella più piccola di un anno, la ricorda nel periodo dell’infanzia, quando mano nella mano seguivano la mamma presso il chiosco dei gelati nel villaggio, sempre insieme, fino all’inizio delle scuole superiori.

    Poi qualcosa si è interrotto, Angelica ha scoperto il branco, nuovi amici del liceo artistico bolognese, ha cominciato a rifiutare la famiglia, quindi anche lei.

    Celeste scuote piano la testa, congiunge le labbra, stringe i piccoli pugni, anche per te Angelica, angelo mio riesce a pensare, rammentando le conversazioni sussurrate fra suo padre e sua madre.

    «Così non si può andare avanti, lo capisci, te lo ficchi in testa, o tutto diventa più complicato», la voce di suo padre roca di sigarette, tesa e nervosa anche nel sussurro.

    «Devi spiegarlo tu a Celeste e Angelica che questo inverno non potranno andare a sciare, perché io non ce la faccio» la voce lamentosa e acuta di sua madre usciva da quelle labbra che Celeste non riesce a guardare, a immaginare, a collocare, tanto artificiose da sembrare di gomma. Le stesse labbra sfioravano le sue quando la sera le dava l’ultimo bacio, in un’epoca nella quale non avrebbe avuto nessun senso ricorrere ai trucchi di un maledetto chirurgo plastico.

    «Celeste non è stupida, ha già capito che ci sono dei problemi, lei guarda la televisione, sa che esiste una crisi dei mercati, sa che io lavoro proprio in quella fogna lì, lei lo sa... tu l’hai capito?».

    «E Angelica?».

    «Angelica non capisce un cazzo, ha carbone al posto del cervello, non credo che quest’anno abbia intenzione di seguirti sulle piste di Sestola».

    «E gli amici, a loro cosa raccontiamo?».

    Pier scoppiò in una piccola risata roca, cattiva «ecco, ora sei sincera, è questa la tua preoccupazione, le tue amiche di burraco, le vostre riunioni del giovedì sera. Non me ne frega un cazzo delle tue amiche, qui sta per saltare tutto, l’hai capito o no?».

    Celeste immagina sua madre sul divano, le gambe lunghe accavallate, suo padre in piedi appoggiato al camino spento intento a bere un superalcolico con occhi arrossati dopo una giornata fra prestiti fatti a disperati e la borsa che non ne vuole sapere di stabilizzarsi.

    Celeste è cresciuta nella fallace convinzione di una sicurezza economica, nella placida consapevolezza di vivere in un luogo dimenticato dalla sfortuna, ma il suo borgo artificiale oggi sembra esplodere nelle sue stesse contraddizioni. Adesso è pronta, adesso è consapevole.

    Una lacrima scende sulle gote gelide, scalda un millimetro di pelle bianchissima, si confonde subito con la pioggerella fredda della sera. Due fari la illuminano partendo dai jeans stretti, salendo impietosi a inquadrarla nel buio, come un’attrice che compare sfumata a inaugurare la scena.

    Uno sportello si apre, subito si richiude. L’auto si allontana, prima lentamente poi veloce lungo la pianura. Rimane un coniglio spelacchiato rinchiuso in una sacchetto di plastica trasparente, uno di quelli usati per gli alimenti, appoggiato sopra un basso muro di cinta bianco.

    Sembra intento a scrutare la pianura, come per salutare una vecchia amica.

    1 Danilo Masotti, Umarells, 2007, Edizioni Pendragon.

    Due

    1.

    Trebbi parcheggia il maggiolone decappottabile nero davanti al centro sportivo dell’Arcoveggio. Solitamente cerca di non metterlo troppo in vista. Invecchiando sta sviluppando fissazioni nuove e poco originali. Teme che qualcuno possa divertirsi a tagliargli con un cutter il tettuccio bianco.

    Quando ha deciso di comprare il maggiolone ha seguito la pancia più

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