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Asinara: Il rumore del silenzio
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Asinara: Il rumore del silenzio

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About this ebook

Tre voci narranti, quella di un detenuto politico, di un agente di polizia penitenziaria e di un educatore, s’intrecciano e si fondono dentro un’isola che si materializza nei loro sguardi e nei loro pensieri. Il romanzo Asinara. Il rumore del silenzio è la storia di tre destini apparentemente distanti e diversi che s’incontrano e si scontrano in una realtà ostile in cui regna sovrano un solo rumore forte, risoluto e quasi assordante: il silenzio.
Il libro è la storia di tre uomini che vivono un’esperienza unica ed irripetibile; la storia di un viaggio che riunisce i protagonisti nella realtà dell’Asinara, carcere duro sino agli inizi degli anni ’90, denominata “l’isola del diavolo” e la “Cajenna italiana”, raccordo naturale per detenuti e criminalità organizzata. L’Asinara diviene l’unica protagonista di un quadro corale costituito da colori, odori e piccole storie intrecciate che hanno trovato la loro ragion d’essere nell’isola stessa. Permane attraverso tutto il racconto il rumore di un silenzio senza limiti, che diventa voce e si materializza in un viaggio che sembra senza fine. Il silenzio che accompagna i tre protagonisti all’interno di una terra d’incontaminata e selvaggia bellezza, diventerà il prolungamento di una memoria comune. Un rumore inconfondibile che solo quest’isola-carcere è riuscita a creare.
LanguageItaliano
Release dateJan 9, 2014
ISBN9788875639556
Asinara: Il rumore del silenzio

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    Book preview

    Asinara - Giampaolo Cassitta

    Prefazione

    Il libro è un racconto corale a tre voci. I protagonisti sono un educatore, un detenuto politico e un agente di polizia penitenziaria. Le loro vite sono inestricabilmente connesse da percorsi che si intrecciano all’interno dell’isola dell’Asinara.

    Il racconto si apre con l’arrivo dei tre protagonisti, ciascuno dei quali rievoca la sua esperienza nell’ottica sua particolare. Ma sin dalle prime battute si comprende che la protagonista principale – e comune – sarà l’isola: con i suoi colori, con i suoi odori e soprattutto con il suo silenzio. Un silenzio che sembra incontenibile. Che diventa un non-rumore. Che impregnerà di sé la lettura. Sino alla fine.

    Gli incontri dei tre protagonisti con gli altri uomini (detenuti ed agenti) che vivono sull’isola sono appena dipinti: quasi a non voler rubare la scena a quella che è – appunto – la protagonista principale: l’isola-carcere, con il suo silenzio e le sue lentezze.

    L’educatore incrocia e racconta detenuti della più diversa umanità: ovviamente il detenuto politico, col quale è anche scontro; il camorrista che uccideva per pochi soldi e ora si ritrova un cumulo di ergastoli sulle spalle, tanto che il suo unico problema – ormai – sembra essere quello di procurarsi delle ciliegie; fino al detenuto che vive da sempre con l’asinello Bobò, e quando riceve la grazia quasi non la vuole, sia perché lo preoccupa quel che potrebbe capitare al suo animale abbandonato, sia perché il mondo esterno (soldi, telefono, televisione, aereo...) è per lui un altro mondo: sconosciuto e perciò temuto, come ostile ed insidioso.

    Il detenuto politico, in quanto tale, non può non essere – o non atteggiarsi a – duro. Brigatista dell’ultima generazione, sa di aver perso la sua battaglia politica. L’orgoglio lo porta però a chiudersi nella sua storia personale e a cercar di riprodurre i suoi vecchi stereotipi di antagonismo anche nel carcere, facendo del maresciallo uno che ha sempre la verità in tasca e dell’educatore un giovane fascista vestito da compagno. Di alcuni suoi compagni di detenzione riuscirà – col tempo – a raccogliere e farci conoscere la storia: quella di Rossano, un rapinatore che non rientrerà dal permesso; e quella di Eugenio, uno spilungone che rievoca ossessivamente (pour cause...) la sua esperienza dentro un manicomio giudiziario. E quando lui, il detenuto politico otterrà un permesso per andare a trovare il padre in pericolo di vita (quel padre che aveva abbracciato il fucile per una causa giusta, mentre lui aveva abbracciato fucili sbagliati e momenti inutili) ecco che il troppo mare, ecco che le avverse condizioni atmosferiche impediscono di lasciare l’isola. Che riesce così ad essere più cattiva, arrivando a negare la libertà anche contro gli ordini di un giudice.

    Il profilo dell’agente di polizia penitenziaria è forse il più bello. Cresciuto nell’entroterra sardo, non ama (almeno all’inizio) il mare, ma ha un contatto forte con la natura che lo distingue dagli altri protagonisti principali del libro. Non ha potuto studiare. Ha scelto il suo mestiere come in stato di necessità. Sa e sperimenta che si tratta di un mestiere tra i più duri e difficili. Che spesso sembra ridursi a contare detenuti senza contare niente. Sa di appartenere ad un corpo valoroso eppure troppe volte ignorato o dimenticato. Avverte di essere uno dei tanti piccoli eroi del quotidiano cui non possono intitolarsi né piazze né strade perché il servizio che essi rendono nell’interesse pubblico sembra di ordinaria amministrazione, anche quando straordinarie (per croniche carenze di uomini, di mezzi e di adeguata organizzazione) sono le difficoltà che ogni giorno vanno affrontate e superate. La sua è la vicenda più solitaria e più dolce. Legata alla memoria di personaggi fortemente segnati dall’isola: un collega che si suicida e un caro amico che morirà stroncato da un male fulmineo.

    Quello che colpisce – leggendo questo libro – è la delicatezza con cui l’autore riesce a trattare un argomento spinoso e cupo come il carcere: luogo di segregazione e di emarginazione; di solitudine e tristezza; a volte anche di violenza. Qui invece affiorano spesso note poetiche che portano i personaggi a muoversi quasi in punta di piedi nell’isola-carcere.

    Non è mai facile parlare di carcere e soprattutto è sempre difficile costruirci racconti che non siano scontati. Questo racconto a tre voci riesce bene nell’impresa. E alla fine il silenzio e la lentezza dell’Asinara mimetizzano un poco il dolore quotidiano che si vive dentro gli istituti di pena. Senza però dimenticarlo.

    Giancarlo Caselli

    A mio padre,

    dipinto con molto amore dentro questo libro

    Parte Prima

    Arrivi

    1.

    Il sole ritagliava gli spazi dentro un mare d’un colore incostante: un azzurro inconsueto, contrastato da un celeste cristallo e acqua incolore, mischiata a quei raggi che si accovacciavano lentamente sul mare e lo rendevano più forte, più solido a volte, mentre la pilotina, unica nota grigia dentro questa esplosione di colori, tagliava in maniera quasi violenta l’acqua.

    Non sapevo che quella prima volta l’avrei vissuta migliaia di volte e non sapevo, non immaginavo, allora, che quest’ac­qua potesse muoversi anche in maniera violenta: non credevo poi di poterla cavalcare, di poterla, in qualche maniera, dominare. Quello che non sapevo, però, è che quest’acqua, queste onde e quest’isola, sarebbero diventate, giorno dopo giorno, una parte di me stesso e non avrei mai immaginato che quest’isola (oggi la mia isola) mi avrebbe regalato tanto.

    L’ormeggio della pilotina in un porto piuttosto piccolo e frammentario, dove si arriva soltanto di prua e velocemente si riparte, era piuttosto agevole. L’operazione tra il lanciare le cime e avvicinare la barca al molo durava in tutto qualche minuto; poi si scendeva e si entrava, finalmente, dentro quest’isola.

    Gli occhi, i miei confusi occhi, scrutavano ogni centimetro e, dopo essersi discostati da quel mare troppo azzurro, volteggiavano verso le prime case, tutte rigorosamente bianche.

    L’Asinara non ha mezzi termini né può avere tinte pastello, è tutto molto forte: anche il bianco delle case e il rosso dei tetti è troppo bianco e troppo rosso.

    Eccomi dentro un inferno. Così mi era stato dipinto. Così avevo letto. Così avevo immaginato. L’Asinara era La Cayenna, il carcere duro, quello dei brigatisti, dei camorristi, dei mafiosi: era, insomma, il meglio sulla piazza in fatto di criminalità e io, a ventisei anni, mi trovavo dentro questa nuova e oscillante realtà, figlia di un’opportuna distribuzione multicolore, legata ad un silenzio uniforme.

    La salita che fiancheggiava il piccolo porto pullulava di agenti che, distrattamente, la cavalcavano. Tutti ingoiati dalle loro divise, tutti assorti dentro un rito per loro ormai quotidiano; tutti con un solo colore: il grigio della mimetica. Solo io e pochi altri restavamo a colorare quel piccolo universo grigio dentro case incredibilmente bianche.

    Tutti si dirigevano dentro il bar, nascosto tra piccoli ed avvizziti oleandri che stavano lì a scrutare, anch’essi distrattamente, un paesaggio terribilmente silenzioso, apparentemente amorfo e quasi irreale. Nessuno chiacchierava e il silenzio aveva assunto un atteggiamento centrale, inconfondibile, pesante: il silenzio, su quest’isola era il Silenzio.

    Opprimente, afoso, lento, fitto, pregnante.

    Il non rumore.

    L’assenza di perturbazioni sonore.

    Solo il sordo frastuono dei passi che leggermente oscillavano verso il bar. Il cicalio dei pensieri che ruminava dentro quei passi. La solitudine quasi maniacale della totale assenza di macchine, semafori, bambini.

    Ecco, era un atroce silenzio senza bambini che stentava a sciogliersi: un silenzio che scandagliava gli attimi e riproduceva sottili fruscii di non rumore.

    I bambini.

    Quelli con i colori forti, dai sorrisi incerti e dalle grossolane parole, crogiuoli di chiacchiericci melliflui che si propagavano fino a divenire urla, quelle urla che solo i bambini riescono a produrre: tutto questo non c’era, non si ritrovava dentro questi ritagli di cose e di gente.

    Silenzio.

    Il rumore lo si riconquistava nel bar. Un vecchio edificio con un bancone dal colore incerto, finto legno ricoperto da una violenta formica di un improbabile rosso dentro uno spazio tetro, grigio, quasi a ricopiare le divise degli agenti che adesso, lentamente producevano rumore. Insieme alle tazzine dei primi caffè e dei primi cappuccini, si sentiva un sottile brusio, seppure dipanato, che regolava il silenzio assunto dall’isola. Un silenzio che non avevo mai trovato in nessun carcere. Un colorato e stanco silenzio.

    Dietro il bar, quasi nascosto da una orrenda macchina da caffè dai colori confusi e annerita dagli anni – che solo in quei locali sporchi e tetri di piccoli paesi ancora si ritrovava – un ragazzo dai riccioli forti, che modulava il respiro e vomitava tazzine sul tavolo con una velocità da vero professionista, pareva insomma un bellissimo attore dentro una scenografia sbagliata. Non parlava, ascoltava in silenzio le comande degli agenti che, tra la colazione piuttosto frettolosa, trovavano il tempo per ridurre il silenzio ad un puzzle disunito, fatto di sport, di Juventus e di Milan, di turni da ricoprire, di turni da maledire, di menù della mensa, di donne incomprensibili, di pensieri che non si concludevano, di parole che non si pronunciavano, di piccole cose per lo più inutili e inutilizzabili. Riu­scivano, insomma, a pasticciare il silenzio.

    Il giovane dai riccioli forti, barista per forza e, probabilmente, per necessità, unico detenuto dentro un contesto che non era il suo, riuscì a chiedermi cosa volessi. Velocemente. Quasi uno sconquasso in quella strana e stanca calma. Fui il solo a dover rispondere, unico a regalare parole al ragazzo, davanti a tutti

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