Più nero della notte: Siracusa, 1965. Un'indagine del commissario Portanova
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Alberto Minnella, nato ad Agrigento nel 1985, ha lavorato come cronista per il “Giornale di Sicilia” e il “Corriere di Sicilia”. Ha studiato musica moderna a Parigi all’accademia di batteria Dante Agostini. Ha pubblicato nel 2013 il suo romanzo d’esordio edito da Fratelli Frilli Editori Il gioco delle sette pietre seguito da Una mala jurnata per Portanova e Portanova e il cadavere del prete (Fratelli Frilli Editori). Nel 2019 pubblica L’amore è tutto qui edito da Bertoni Editore.
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Book preview
Più nero della notte - Alberto Minnella
Capitolo I
Giugno 1965
A tirarmi fuori dal torpore era stato il rumore sordo di un portone chiusosi con violenza.
«Ci siamo», pensai.
Lanciai un’occhiata fuori dal bar e vidi l’uomo che stavo aspettando.
Mi alzai dal tavolo e mi nascosi in un angolo che valutai essere cieco, convinto che dalla strada non sarebbe stato facile vedermi.
Quando l’uomo uscì fuori del mio campo, diedi due sorsi ravvicinati alla birra rimasta, afferrai il bastone e lasciai il mondo com’era, pronto a corrergli dietro.
Una volta messo il naso fuori, mi fu chiaro che il pedinamento non sarebbe stato un gioco da ragazzi.
In primis perché tutta Ortigia dormiva e sarebbe stato facile per lui sentire financo i miei pensieri.
E in secundis perché non pedinavo qualcuno da non so quanto tempo. Il bastone, in più, mi rendeva il tutto più faticoso del previsto.
Comunque fosse, non avevo altra scelta che fare attenzione e stargli dietro.
Sopra la mia testa e tutt’intorno, a fare da colonna sonora al pedinamento c’era solo la paranoia di essere scoperto.
Avevo calcolato approssimativamente una distanza di sicurezza, affinché non mi scoprisse. Stava funzionando.
Arrivato davanti al Duomo rallentai per qualche secondo. Poi ripresi il passo.
La muddura, l’umidità assassina, si era alzata e non di poco e questo faceva aumentare l’odore di mare che adesso, imboccando via Delle Carceri Vecchie, era diventato più forte.
Mi fermai ancora una volta e per un attimo preciso. La strada era troppo stretta e aveva la stessa capacità di fare eco come l’Orecchio di Dioniso e il rischio di far risuonare i tacchi delle mie scarpe, rovinando tutto il ben fatto, era cosa certa.
Ne approfittai per accendere mezzo sigaro.
Piano piano sbirciai in direzione del pedinato e lo vidi abbastanza lontano da permettermi di proseguire.
Da largo Duca D’Aosta, all’affaccio sul porto, salii per via Del Collegio, fino a sbucare nuovamente al bar dove mi ero fermato a bere.
Forse aveva capito tutto e stava girando intorno per farmi perdere tempo?
Era probabile, ma ormai la frittata era fatta. Quindi seguitai a stargli dietro.
Tirò dritto per via Consiglio Reginale. Feci lo stesso anch’io. Dopo infilò via Maestranza e subito a destra prese via Laberinto.
Rimasi in attesa.
Una manciata di secondi e ripresi il passo, imboccando la stessa strada.
Ero nel cuore dell’isola, equidistante da dove il Mediterraneo la baciava tutt’intorno, incastrato in una serie di vicoli annodati fra loro, immerso nella penombra che ridisegnava la faccia dei palazzi vecchi.
Ebbi per un momento l’impressione di averlo definitivamente perso, difficile com’era muoversi lì in mezzo senza perdere l’orientamento.
Mi era possibile annusare l’odore di vita delle case al piano terra e la puzza tremenda della povertà che stagnava ovunque, anche lì, in vicolo della Giudecca.
Infine, l’uomo virò a destra fermandosi in un piccolo slargo che prendeva il nome di Ronco Scrofani.
Feci un paio di passi in più, rinunciando all’ausilio del bastone e tesi l’orecchio nella giusta direzione.
Un bisbiglio indecifrabile mi costrinse a guadagnare qualche altro metro, appostarmi nell’angolo e, all’occorrenza, sbirciare.
Il tipo che seguivo stava porgendo un fiammifero acceso a qualcuno che non riuscivo a vedere.
«La cosa è grave», sentii dire a uno dei due.
«Sh! Zitto! ’U picciriddu dormi.»
Mi sporsi un altro po’. Adesso era tutto più chiaro, le parole erano diventate distinguibili.
«Se le cose si accavallano siamo nella merda», bisbigliò uno.
«Vedrai che non succederà. E poi, ti ricordo che noi con l’altro non c’entriamo niente.»
«Ti dico che la cosa è grave.»
«Shh! Vedi che…», disse l’altro e s’interruppe di colpo con mia grande sorpresa.
Il tipo girò lo sguardo nella mia direzione.
Indietreggiai nascondendomi.
Fui tentato di farmi il segno della croce, ma immediatamente mi ricordai di essere ateo.
Mi accorsi che di fronte a me, sul muro, c’era stampata la mia ombra.
«Cazzo», borbottai.
Il gioco era finito?
Tentai invano di tornare indietro; qualcuno con una forza bestiale mi salì addosso, facendomi perdere l’equilibrio.
Farfugliai qualcosa, mentre un’orchestra stonata di parole senza senso stava facendo un concerto nella mia testa.
Poi mi finirono con una botta in testa.
La musica era finita.
E addio Portanova, pensai.
Capitolo II
Dieci giorni prima…
«Posso fumare?»
«No.»
Ero lì da cinque minuti e preso com’ero dalla novità feci un rapido giro d’occhi, mettendo a fuoco la libreria e parte dello studio dove mi trovavo.
«Si sdrai», mi disse il dottor Pulvirenti indicandomi la chaise longue.
Poggiai il bastone accanto allo schienale della sedia e mi stesi.
Guardai dritto di fronte a me, fissando la tenda che si frapponeva fra i miei piedi e il mondo fuori.
Pulvirenti, adesso, l’avevo alle spalle e sentire la sua sola voce, senza le coordinate del suo volto, mi destabilizzò.
Incalzò dicendomi che c’era una sola condizione a cui la cura mi avrebbe impegnato e cioè dovevo dirgli tutto ciò che mi passava per la mente per sgradevole che fosse, per non pertinente o assurdo
mi sembrasse.
Facile, pensai. Meraviglioso, stupendo! Poter dire tutto quello che avrei voluto. Certo, facile, meraviglioso… Eppure esitai. Un secondo dopo, l’idea di raccontare gli affaracci miei a uno sconosciuto occhialuto non mi sembrò poi una cosa così geniale né tanto meno facile e meravigliosa. Anzi, credetti di essere un sospettato all’inizio di un interrogatorio. Un lento e asfissiante interrogatorio.
L’idea di andare lì da lui non fu mia: a consigliarmelo era stato il dottor Rapisarda, illuminatissimo primario del reparto di chirurgia dell’Umberto I di Siracusa, che in quella maledetta notte di dicembre mi operò alla gamba lasciandomi zoppo per sempre. «Vada, commissario – mi disse Rapisarda, dopo avermi categoricamente vietato di fumare per il resto della mia vita – Vada. Vedrà che le farà bene». Gli risposi che non ne avevo alcun bisogno e non avrei di certo subito un interrogatorio da uno tizio qualunque. Ma la curiosità aveva superato la mia testardaggine. Così andai a Catania e in quello studio.
Decisi, infine, di aprire bocca e di mettere a frutto il costo della seduta.
«Da quasi un anno a questa parte non faccio che inciampare in continui incubi», gli dissi fissando dapprima nervoso le mie mani. Solo dopo provai a dar seguito a quello che mi aveva raccomandato pochi minuti prima: rilassarmi, guardare avanti e lasciarmi andare. Vomitare tutto, insomma, senza curarmi della sua presenza. Così tornai subito a fissare il vuoto davanti a me.
«Effettivamente non so se li definirei proprio tutti degli incubi – continuai a dire – ma di certo ce ne sono alcuni terribili. Altri un po’ meno, però la sensazione al mio risveglio è sempre la stessa: angoscia tremenda.»
E subito dopo averglielo detto m’irrigidii come un corpo in rigor mortis. Era fastidioso dover trovarmelo alle spalle, senza sapere cosa stesse facendo né poter tentare di leggergli negli occhi cosa stesse pensando di me. Realizzai che sì, fu una minchiata colossale autoconvincermi a prendere un treno alle cinque del mattino e calpestare le strade di Catania fino allo studio di Pulvirenti. Pessima, pessima idea.
Dal canto suo, Pulvirenti faceva di tutto per non dirmi niente, limitandosi ad ascoltare. Peccato per lui che non avessi altro da dirgli. Scartabellai rapidamente i pensieri che mi passavano per la testa. Poi niente.
Stare fermo non mi faceva sentire per niente a mio agio e la cosa stava diventando insopportabile. Il dottore incalzò con un paio di domande, fino a quando non finii per parlargli di come fossi diventato sbirro e del perché non fossi ancora riuscito a trovare un lavoro meno rischioso e meglio pagato.
Restai zitto per qualche minuto, infine, mentre lo immaginavo fissarsi sui miei capelli e sulla calvizie incipiente, esclamai: «Credo non ci sia nient’altro, dottore», cercando di mettere fine alla seduta.
Gli sentii prendere un lungo respiro. Poi il cigolio della sua poltrona. Si era spostato? Mi stava guardando? Non saperlo mi inquietava.
Comunque, la cosa non era finita lì. E subito incalzò, dicendomi: «Mi parli di questi sogni.»
«Ho sognato di essere un cadavere. O meglio, di essere uno dei cadaveri su cui ho indagato. Per la precisione quello di un prete. L’abbiamo trovato nudo e con le ossa rotte. Si era gettato dalla finestra dell’appartamento di un delinquente con cui aveva un conto in sospeso. Un conto salato e che secondo il prete andava pagato attraverso la sua morte. Ero io, dicevo, il cadavere. Ma avevo una visione di me stesso da fuori, da esterno. Vedevo tutta la scena perfettamente. I ruoli non si erano invertiti solo per me. A essere vivo e a darmi la benedizione era il prete stesso. Padre Mariano, che però aveva una lunga barba bianca. Mi benediva e pregava per me. Poi, all’orecchio ho sentito Diliberto, il mio vice, sussurrarmi qualcosa. Però non ricordo niente o forse non capivo cosa mi stesse dicendo nemmeno in sogno. La cosa che mi ha stordito e angosciato al mio risveglio, però, è stato il vedermi al funerale. Lì, in mezzo alla navata, il mio feretro.»
«Quando dice però aveva una lunga barba bianca
, cosa intende dire?»
«Padre Mariano non aveva nessuna barba. Lunga, corta, nera o bianca. Ma l’ho sognato con la barba. Cose che capitano nei sogni, ovvio», dissi, lasciando intendere che era normale che nei sogni succedessero cose irreali.
Insistette su quel punto, sulla barba di padre Mariano, continuando a domandarmi, sempre con tono pacato e posato, che valore avesse per me quella pennellata insensata fatta in sogno.
Le lancette andavano avanti e il tempo appresso a loro.
Poi Pulvirenti mi chiese: «Mi ha detto che non è riuscito a capire cosa il suo vice le avesse sussurrato…»
«Sì – dissi – nulla che riesco a ricordare. Sicuramente, visto il sogno, nulla di cattivo. Deve essermi rimasto impresso in mente solo il peggio di quello che ho sognato.»
«Cosa intende per nulla di cattivo
?»
«Niente che possa avermi ferito. Una cosa brutta, insomma. Altrimenti lo ricorderei. Diliberto era una persona senza particolari eccessi. Si figuri che dopo il suo trasferimento, dopo un alterco, mi ha mandato la sua colpa per lettera. Mi scusi, che dico... La sua risposta per lettera. Non colpa – conclusi – Risposta. Una risposta nella quale diceva che era stata Siracusa a soffocarlo e che io celavo dietro la mia corazza un uomo e un amico migliore di quanto non mostrassi. Mi scrisse che avrei capito… Poi non ricordo cos’altro. Comunque, tirava per le lunghe una cosa che avrei voluto accadesse faccia a faccia. Forse ricordo male anche questo, perché quando la lessi mi spararono alla gamba – gli dissi, mentre sfioravo il punto in cui era entrato il proiettile – Dopo, in ospedale mi sembrò tutto un incubo. Anche lo sparo. Anche la gamba. Ma il sogno di me cadavere era già iniziato tempo prima. Mi dispiace non avere preso appunti di tutto mentre dormivo – affermai, con la sensazione che stavo sbrodolando troppo con le parole. Chiusi la cosa poi, dicendogli – Quando uno si sveglia non ricorda