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Le ombre di Genova: Il ritorno del commissario Ferruccio Falsopepe
Le ombre di Genova: Il ritorno del commissario Ferruccio Falsopepe
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Le ombre di Genova: Il ritorno del commissario Ferruccio Falsopepe

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Spiaggia di Boccadasse. Che cosa nasconde un cadavere tra gli scogli? Dietro il microfono di un noto giornalista radiofonico tante vite, tanti segreti e soprattutto le ombre di una città, Genova, affascinante e intrigante. Il commissario Falsopepe, poliziotto e flâneur pugliese della valle dei Trulli, innamorato dei caruggi e del pesto, conduce una nuova indagine, tra grandi famiglie borghesi, grandi affari e, come sempre, una storia inquietante che riemerge dalle cronache del passato a complicare le giornate del poliziotto e dei suoi amici: un libraio fanatico di Maigret, la sua fidanzata-magistrato, un professore di storia e un oste generoso. Camminando tra vicoli, chiese, palazzi e moli, ancora una volta l’investigatore arriverà, con lentezza e curiosità, a una soluzione.

Mario Paternostro, giornalista e scrittore, è stato vicedirettore de “Il Secolo XIX” e direttore di Primocanale. Ha scritto: Troppe buone ragioni e Il sangue delle rondini editi da Il Melangolo, Le povere signore Gallardo e Bésame mucho editi da Mondadori, Il cardinale deve morire e La spia di Cechov editi da Fratelli Frilli Editori. Inoltre: Genovesi, Viaggiatori mangianti e Valigie al dente e, con Claudio G. Fava, Dialoghi sui minimi sistemi editi da De Ferrari. Per Primocanale ha realizzato nel 2019 e 2020 “Terza” e nel 2021 il docufilm Il Racconto di Genova.
LanguageItaliano
Release dateNov 2, 2021
ISBN9788869435706

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    Le ombre di Genova - Mario Paternostro

    CAPITOLO I

    2 marzo 2019

    Quella mattina il dottor Falsopepe salutò il vecchio questore Zanfrondo con cui aveva condiviso liti, reprimende, sgambetti, ma anche smozzicati complimenti. Il questore, finalmente si pensionava, lasciava il palazzo di via Diaz al suo successore, il dottor Zecca fortemente sponsorizzato dal Movimento Giorni Sovrani che governava anche il capoluogo ligure, da quando il sindaco-manager era stato catapultato a Roma.

    "Caro Falsopepe, ora mi lascerà in pace. Ma si metta in pace anche lei. Ha cinquantotto anni e non è più un ragazzino cresciuto con le smanie rivoluzionarie. Il mondo è cambiato, caro dottore, per me e anche per lei. Io sono cresciuto con il ministro Scelba e i celerini, quelli che riportarono l’ordine nelle piazze in tumulto dopo l’attentato a Togliatti: lo sa che nel 1948 ero bambino e abitavo qui a Genova dove mio padre, commissario di pubblica sicurezza, dopo l’attentato al Migliore, è stato preso a ganciate dai vostri camalli in piazza De Ferrari? Tempi cambiati. Al G8 si sono invertiti i ruoli: un gruppo di nostri ha suonato quelli là. Mica bene, schifezze, ma la vita gira dove vuole e noi non ci possiamo fare niente, perché la vita non ci chiede prima il permesso. Neanche a lei. Gira senza di noi la vita. Ora sta girando, a 360 gradi e mi fa girare anche i coglioni. Se ne faccia finalmente una ragione, caro dottore, anche perché a cinquantotto anni bisogna pensare alle promozioni, al futuro in giacca da camera e con tanti nipotini… Lei mi ha strapazzato i coglioni con le sue indagini, con la sua mania di vagare per Genova e non farsi trovare mai quando la cercavo, ma è un grande investigatore, devo ammetterlo. Stracciacazzi, lento, ma segugio acuto. Ce ne fossero… invece siamo circondati da coglioni e basta. Veloci ma coglioni".

    Gli si era avvicinato e lo aveva abbracciato.

    Venga a trovarmi al mio paese, vicino a Benevento. Si ricordi il nome: Solopaca. Facile no?. Certo che lo ricordava il commissario: sfiorava Solopaca nei viaggi di andata e ritorno dalla Puglia e quando leggeva l’indicazione stradale calcolava che mancavano poco più di tre ore alla meta. I trulli di famiglia nel tratturo Vacche Sparse, le orecchiette con le cime di rape, il purè di fave e cicoria, il Susumaniello anche un po’ fresco.

    Zanfrondo lo aveva presentato al nuovo questore, il Zecca, che di nome faceva Manrico, sessant’anni di Arona. Uomo lacustre, viscido come una carpa o un pesce persico, mica sodo come li purpi che Falsopepe e i suoi amici pescavano alla Forcatella. Il Manrico di lago pronunciò la frase di rito quando strinse la mano al commissario: Mi hanno parlato molto di lei…. Falsopepe rifletté che il questore-carpa aveva detto Mi hanno parlato molto di lei…. Ma non aveva aggiunto come solitamente si fa: "Mi hanno parlato molto bene di lei…. No. Manrico Zecca aveva detto solo: Mi hanno parlato molto di lei". Il bene se lo era dimenticato. E poi, parlato chi?

    E aveva aggiunto: "Aria nuova, caro commissario, aria nuova! Gli omicidi non li commette più nessuno. Meno omicidi, più violenze in strada, qui nel vostro centro storico. Cose antiquate, i delitti. Agata Cristo, i dieci piccoli indigeni, l’assassino in famiglia. Macché. Genova è in mano alle bande di immigrati e la Valpolcevera è dominio degli equadoregni. Nigeriani e equadoregni uguale feccia. Droga e troie. Troie e droga. E c’è pure il Campasso proprietà di equadoregni e calabresi. Feccia. Macché omicidi alla Magré… Neri dappertutto, pieni di problemi, di rabbia contro di noi. Ma che cazzo ci ho fatto io a ’sti negri! Gente pronta a spaccare la testa di un poveraccio a bottigliate. Mica lord Bruggel !".

    La cultura letteraria di Zecca manifestava qualche lacuna che Falsopepe, per generosità, in quell’occasione ignorò riservandosi, semmai, di riprendere l’argomento con il nuovo questore in tempi più favorevoli.

    Dal gruppo di ospiti al brindisi era spuntato anche l’assessore comunale Luiso Spella, detto Repulisti da quando aveva organizzato commando di volontari insieme ai vigili urbani in pensione e richiamati in servizio, a caccia di ubriachi e spacciatori nei vicoli, possibilmente con la pelle marroncina. L’iniziativa che era finita su tutti i giornali aveva anche un nome istituzionale: Cugini di San Giorgio, che, povero santo, si dava da fare a infilzare un drago, ma mai avrebbe immaginato che il suo Vexilum, che i comandanti della flotta genovese portavano nelle grandi operazioni marittime di conquista, sarebbe finito per caruggi, tra localini etnici a alto tasso alcolico, chupitos, spritz e apericene. E neri (negher negher!) come sghignazzava il neoquestore Zecca ormai fuori controllo dopo cinque gotti di Coronata, che come scarafaggi colpivano l’inerte popolazione di Erasmus ubriachi per fuggire e disperdersi nel buio della Maddalena, la meraviglia della città vecchia. Bronx! sibilava Repulisti non sapendo che il Bronx era diventato una delle zone più chic di New York. Ma vabbè, ridacchiava Falsopepe. Maddalena uguale Bronx. Feccia feccia e feccia. Troie e droghe, droghe e troie.

    Fora di bal! gridò ridacchiando il neoquestore e lo Spella lo abbracciò, come se fosse un caro collega ritrovato dopo anni. Con lei, signor questore, cambierà la musica anche se da qualche mese ci stiamo dando un gran daffare.

    Il gran daffare era, per esempio, evocare in ogni occasione i presunti fasti della Repubblica di Genova e traslocare al centro di piazza Corvetto, proprio sotto la pancia del mega cavallo che reggeva i sabaudi glutei di Vittorio Emanuele II, una lapide contro il generale La Marmora (che stava prima un po’ nascosta vicino a una gelateria dietro a un lentisco) reo di aver compiuto con il suo esercito il tremendo Sacco di Genova.

    Falsopepe cercò tra i colleghi qualche sguardo di inquietudine, una parvenza di solidarietà democratica, di vecchio stampo sbirresco, ma onesto. Non ne trovò uno. Tutti sembravano già convinti e conquistati da Zecca e dal suo nordismo. Che poi, pensandoci bene, non aveva detto tutte cose campate per aria, povero Manrico. A Genova l’ultimo omicidio come si deve risaliva a due anni prima. Il sangue scorreva eccome, ma era sangue di importazione, risse a coltellate fra bande di nigeriani che avevano deciso di allargarsi anche nelle piazzette della movida, tra bistrò e negozietti in agonia. A spartirsi lo spaccio e a sfruttare le loro povere donnone. Droga e troie appunto.

    Falsopepe cercò sguardi perplessi, ma non ne trovò. Tutti sembravano avere riacquistato le antiche certezze. Beati loro, pensò.

    Davanti a un tramezzino al gorgonzola solo il suo vice, il dottor Acquafresca a labbra strette, aveva sibilato, ritrovando il suo bel dialetto lombardo: Ma va’ a dà via i ciapp pirla tè e i to negher del cas.

    ***

    Bellechasse raccontò al collega l’incontro di Valencia.

    "Se si muove Rafael Mesco è un traslocò pesante, mi spiegano quelli della narcotici, e da qualche mese si mormora dell’arrivo nel Mediterraneo di un quantitativo molto abbondante di coca. A tu compris? Una tonnellata, almeno oltre duecento millions de euros, mon ami!".

    Chi era il pugliese che stava con Mesco?

    Le voglie di infilare grosse partite di droga nel Mediterraneo da smistare in tutta Europa erano parecchie, dal foggiano al tarantino. Senza contare i siciliani, i calabresi e i soliti napoletani.

    "C’était certainement un pugliese come te. Je suis sure!" Bellechasse non aveva dubbi. Gli passò il telefonino con la foto fatta ai tre da dietro il prosciutto valenciano. C’erano Mesco, a fianco il pugliese e il terzo era di spalle. A Falsopepe bastò vedere la faccia inconfondibile del conterraneo per sobbalzare.

    "Cazzo, ma questo è U’ Caure, Leone Lanzese. Nel giro è soprannominato il Granchio. Capo incontrastato della più sanguinaria e potente organizzazione criminale tarantina. Peggio dei foggiani oramai. Fa affari in tutto il mondo, discariche, supermercati, alberghi, edilizia. Tutto perfettamente ripulito in lavatrice e ha parecchie lavatrici a disposizione, in diverse città europee non solo italiane. Ricicla con abilità i soldi del traffico di droga. Gli diamo la caccia in tanti a questo Lanzese, ma è uccel di bosco. Dunque se ne stava a Valencia U’ Caure… Questa è la sua prima fotografia da almeno cinque anni. "

    Da quando proprio a Taranto e proprio Falsopepe, aveva collaborato a spappolare la sua famiglia, i potentissimi Lanzese, clan e banda. Presi tutti o quasi. Non Leone, il nuovo boss, volatilizzato.

    Eravamo sicuri che fosse nascosto nel tarantino, protetto da anonime cascine e masserie affondate negli uliveti secolari, o addirittura, in qualche rifugio ipogeo… Sull’ipogeo l’amico Bellechasse fece una smorfia. Falsopepe lo aiutò. "Nella zona di Massafra, dove vi abbiamo portato a vedere le chiese ipogee, sous terre, sotto terra. Santa Maria della Scala, sforzati Étienne! Qualcuno dell’Antimafia abituato ai nascondigli sotterranei dei boss mafiosi aveva ipotizzato per il Granchio una soluzione abitativa del genere: in cule a terra! Invece guardalo qui, un po’ invecchiato, con una bella barbetta fresca di lama, elegante, a prendersi l’aperitivo a Valencia con il collega Mesco e sicuramente altri compari sparsi davanti al locale pronti a tirar fuori le armi per proteggerlo. Il Granchio, ’sto brutto figlio di puttana… Due mesi fa ne ha fatti fuori sei di rivali, tutti stesi sul Ponte girevole, alle 04:00 a raffiche di mitra, sfalciate da quattro auto che carambolavano, due che andavano verso il centro storico e altre due verso il quartiere umbertino. Sei cadaveri in fila per tre".

    Falsopepe aveva insistito perché il collega passasse la notte in casa loro e non riprendesse subito il volo per il Charles De Gaulle. Il poliziotto parigino aveva accettato l’offerta.

    La casa dei Falsopepe in una piazza con vista sul torrente Bisagno, quello che quando piove troppo salta fuori dal suo letto per uccidere chi incontra per strada, aveva spazio in abbondanza. Prima i ragazzi dormivano in una unica camera, ormai da qualche anno, più o meno dai tempi del liceo, ognuno aveva la sua: Salvatore vicino alla laurea in Ingegneria, ottimo calciatore, occupava la stanza che dava su piazza Giusti: Michela, secondo anno di Economia, ottima schermidora, quella vicino ai genitori, con la finestra sul torrente e qualche randagia famiglia di cinghiali in libera uscita. Per Michela era una vista romantica e aveva ragione: il torrente ogni tanto acquoso, gli alberi, i palazzi dal sapore parigino lungo la riva, la vecchia centrale elettrica dismessa, e subito al di là del fiume, la montagna che saliva verso piazza Manin.

    Non ci furono problemi perché Michela si fece ospitare da un’amica. E Anna, finita la correzione dei temi dei suoi studenti, si dedicò a preparare una superba torta Pasqualina di carciofi, perfetta ricetta della Cuciniera Genovese come le aveva insegnato la vedova Bonello vicina di casa con vasti interessi in ogni campo della curiosità. Ficcanaso, insomma.

    I due poliziotti chiacchierarono per almeno due ore prima di cena seduti su una panchina vicina al cantiere di ricostruzione del ponte Morandi, il mega viadotto autostradale che era crollato un anno prima, uccidendo quarantatré poveretti e devastando la città e i quartieri della Valpolcevera. Il ponte rinasceva a tempo di record, stava per essere inaugurato, e ora le ruspe cercavano disperatamente di ridare un’anima al quartiere sradicato dal tremendo collasso. Erano fuggiti anche i migranti e lo Spella sosteneva che fosse merito dei suoi miliziani.

    Qui sotto c’è abbastanza rumore perché se ci vogliono intercettare non sentano niente spiegò Falsopepe. Da qualche tempo il commissario sospettava che qualcuno lo tenesse sotto tiro.

    Così sappiamo che una grossa partita di droga arriva a bordo di una nave nel Mediterraneo il 19 maggio e farà rotta sul porto di Genova. Ma non sappiamo il nome della nave.

    Proprio così confermò il francese, accendendosi una Gauloises.

    Gli uffici del traffico portuale sapranno bene quali navi arriveranno il 19 maggio. Bisogna vedere se scaricherà il malloppo in porto o al largo, magari vicino alle coste tunisine o in acque internazionali.

    Già replicò il francese. E aggiunse. "Sei il terzo che sa di questa operazione dopo il capo del Quai des Orfévres e moi. Mi ha autorizzato lui stesso a informarti in anticipo e confidentiellement. Conosci la situazione almeno dieci giorni prima dei tuoi capocchià… si dice così?, ridacchiò Bellechasse che, conoscendo il carattere spigoloso dell’amico, sapeva anche quali erano i suoi rapporti con i vertici della Questura. Ma non sapeva ancora dell’arrivo del questore lombardo, il daviailcu brut negher".

    "Bon, cher Ferrucciò, vedi tu que fare di meglio e si tu ha besoin, tu m’appellera, n’est ce pas?".

    Falsopepe doveva informare il nuovo questore o sarebbe stato meglio tacere e aspettare che il nuovo questore fosse informato dai capi dell’Interpol, o dai dirigenti dell’Antidroga parigina? E la dottoressa Conti, da due mesi responsabile della Direzione distrettuale antimafia presso la Procura? La bella Silvia, era dura e pura e soprattutto l’eterna fidanzata dell’amico libraio Alberto Serravalle, ormai a pochi mesi dal matrimonio.

    Era proceduralmente obbligato a fare tutto questo, ma la soffiata avrebbe scatenato immediatamente l’attività della magistrata quando ancora si conosceva pochissimo dell’ipotetica operazione del cartello e della ’ndrangheta tarantina. Certo, la fotografia del Granchio valeva cinque anni di indagini e rivelava una sorpresa: che Lanzese non stava fermo, ma girava chissà dove e come in Europa. Indisturbato, a fare affari grossi e a prepararne altri. Per esempio lo sbarco di droga a Genova invece che a Gioia Tauro o addirittura a nord da Rotterdam.

    Soprassedette.

    Avrebbe cercato i nomi di tutte le navi in arrivo il 19 maggio. L’operazione sarebbe finita negli uffici della Narcotici a meno che non ci fossero arrivati prima gli uomini del colonnello Mastica, quelli della Guardia di Finanza che sulle operazioni anti droga aveva collezionato, da quando era arrivato l’ambizioso ufficiale romano, una lunga ghirlanda di successi.

    "Se si muove Mesco è roba di prima classe e se si incontra con il Granchio è qualche cosa che va oltre il normale… Non può essere solo coca". La mattina dopo Étienne Bellechasse salì sul volo per Parigi e Falsopepe tornando dall’aeroporto si fermò negli uffici movimento del porto di Genova.

    Il 19 maggio erano previsti gli arrivi di cinque navi da crociera, e una decina di mercantili e petroliere. Scartate le petroliere Falsopepe si concentrò sull’"Enfer battente bandiera cipriota e sulla nave frigorifera Estrella Cometa" battente bandiera argentina.

    L’"Enfer proveniva da Cardiff. Mentre l’Estrella Cometa da Dakar. Il porto di provenienza convinse Falsopepe che l’Estrella Cometa" poteva essere la nave da tenere sotto controllo. Arrivato a questa semplice deduzione decise che non si sarebbe più occupato della faccenda droga fino alla vigilia del 19 maggio. Invece il fato o la Sfiga con la S maiuscola, come lui la chiamava, decisero che accadesse qualcosa per costringerlo a riaprire la storia del super carico di coca prima delle sue previsioni.

    Quando con la sua auto lasciò la Sopraelevata e il mare era ormai alle sue spalle si ricordò che Leone Lanzese con lui aveva un conto aperto. Che al processo alla cosca alcuni imputati tutti famigli di Leone chiusi nelle gabbie gli avevano promesso generosi proiettili e altre esplosive delicatezze. E ripensò alle raccomandazioni di Sante, che gli nuotava addosso nel mare della Forcatella prima della scorpacciata di ricci.

    Primo maggio

    Se ti fossi trovato oggi al Gran Caffè Roma avresti osservato due tavoli.

    Attorno a quello vicino alla vetrata sulla via più elegante di Genova sedevano la chirurga estetica Olga Sermon, nubile e affermata, specialista in tiraggi alla genovese, cioè fatti al massimo risparmio possibile. Soluzione che comportava spesso alcune approssimazioni cutanee e, a due anni dal trattamento, evidenti cedimenti muscolari tra guance e collo.

    Tilde Busso De Magistri, nubile anch’essa, critica teatrale della radio privata più ascoltata in città, dal nome emblematico Radiostracci, l’avvocatessa Renza Filigrani maritata Pernicione, matrimonialista. Tre inesauribili fonti di informazioni di quelle che dovrebbero restare riservate: rifacimenti di colli e glutei s’ intrecciavano a grane giudiziarie per finire nelle tradizionali corna all’insaputa fintanto che. Bene. Tra la Sermon e la Busso De Magistri sedeva Carmen Zecca, procace consorte del nuovo questore che in quell’occasione debuttava nel vivace circolo muliebre. La suddetta si distingueva per l’abbigliamento, lombardo-veneto, generoso nell’uso dei colori sgargianti e per il trucco che si omologava alle tinte forti degli abiti. Le genovesi brillavano per la neutralità cromatica: grigi e blu, più grigi che blu. Più grigi e basta.

    Intorno al tavolo vicino, ma a ridosso della parete rigorosamente beige (Un colore che non si vede squittivano le consocie) avevano preso posto Alda Marginello moglie dell’avvocato Cesare, legale di molte società nei pasticci con qualche rischio di bancarotta fraudolenta, Lia Maglina compagna del direttore di Radiostracci e Annafranca Tacchi, gallerista.

    La cara Carmen da oggi farà parte del nostro gruppetto esordì la Sermon, fiduciosa che prima o poi avrebbe messo mani e laser sulle ganasce polpose della dama lombarda. Assensi e consensi e qualche inutile domanda. Tipo Hai figli?, Preferisci il mare o la montagna? Abitate in centro (il centro andava da Portello a Corvetto con qualche consentita emigrazione a Castelletto, Carignano e Albaro, ma solo fino a piazza Leonardo perché poi ogni fatto diventava fuori Genova).

    La Zecca rispondeva con altrettanti inutili particolari sui figli, maschio e femmina, descritti come molto belli e dotati di intelligenze che, certamente, sarebbero state acquisite da prestigiose università europee e americane. Lamentava un appartamento piccolo, provvisorio, assicurando le presenti che presto il marito avrebbe acquistato qualche cosa di più grande e soprattutto davanti al mare, perché lei senza il mare non poteva vivere perché da bambina andava con i genitori a Loano.

    Ma il mare a Genova fa schifo puntualizzava la giornalista senza rendersi conto della gaffe, peraltro voluta.

    Appena siamo a posto si difendeva la Zecca verrete a casa nostra per un thé, ignorando che le signore genovesi non amano i thé, smentendo la falsa fama di Genova città più inglese d’Italia. Adoro questa città tentava di blandire le astanti madame Carmen.

    L’adoro questa città, frase che si proponeva inesorabilmente sulla bocca delle migranti in arrivo al seguito dei mariti (poche, pochissime, solo consorti facenti parte della macchina dello Stato, quindi Questura, carabinieri, guardia di finanza, qualche rara banca, funzionariato pubblico), accendeva l’incontrollabile desiderio di fargliela conoscere alla Zecca questa cazzo di città. Fino nei suoi più reconditi anfratti urbani e mentali. E si metteva in moto l’esegesi più ovvia della Superba, sintetizzata in alcune banalità consolidate: riservata. Ma dove? Città pettegolissima e loro ne davano un fulgido esempio. Regno della famiglia perbene. Ma che diavolo? Le liti all’interno delle famiglie con radici nel Medioevo avevano determinato crolli finanziari e atroci delitti. Macché avara. Parsimoniosa. Nessuna spiegava alla debuttante che senza un tornaconto in questa città nessuno combinava qualcosa. C’era un tornaconto anche nelle elemosine durante la messa. Un accordo con Dio o la Madonna come controparti.

    A un tratto la Maglina, informata dal compagno direttore della radio, esordì con un fatidico Avete sentito che….

    CAPITOLO II

    Genova in quei giorni era la solita perché non ci sono giorni che non sia la solita. Che, altrimenti, i genovesi se ne andrebbero via. Uguale a se stessa nei secoli. Il mare, la città, la collina che per i genovesi è una montagna. E i torrenti emersi e sommersi dal cemento che per i genovesi sono i fiumi. A maggio comincia a essere un po’ africana e un po’ termale. Umida e appiccicaticcia. Dove l’odore di rinfrescume dell’acqua si mescola con il primo profumo dei pitosfori di corso Italia.

    Il commissario Falsopepe in questo bagno turco urbano ci era finito dentro fino al collo. Da subito. Da quando a Genova ci aveva messo piede nelle giornatacce del G8, dei no global in versione famiglia, in corteo con i bambini e dei black bloc che avevano fatto in questo bagno turco la loro prova di guerriglia. E di una parte dei colleghi del commissario che sulle teste dei manifestanti ci aveva giocato alla guerra.

    Ma Genova era riuscita e penetrare nei pori del commissario pugliese. Buona o cattiva che fosse. Umida o fredda. Con i colori scolorati e il mugugno costante della gente. Gli piaceva raccontarla agli amici. Come se fosse un genovese e non un terrone. Un gabibbo, come si dice qui.

    Raccontava che Nietzsche scriveva all’amico Peter Gast che Genova era un sud che aveva perso i colori. Bella immagine, un tantino struggente. Ma Genova di colori ne ha sempre avuti pochi e quei pochi sono tutti pastellati e in particolare verniciano le case dei pescatori. Nei borghi di pesca che sono all’interno della città i colori ci sono. Nel centro i colori sono stati usati in abbondanza per dipingere le facciate dei palazzi antichi o in qualche allegra piazzetta. Così per ricambiare queste sensazioni il dottor Falsopepe si era messo a fare il flâneur. Perditempo. Lo rimproverava così il burbero, vecchio, questore Zanfrondo. La flânerie è un’arte, una filosofia della vita. La flânerie per Falsopepe era diventata anche un metodo di indagine.

    Si era abituato anche alla macaja una situazione più mentale che meteorologica, che porta vapor acqueo e rende Genova una medievale orzata, una nevicata che biancheggia le colline fin quasi ai casoni dei nuovi quartieri, costruiti con l’idea di realizzare case economiche. Tragicamente, anche quando l’acqua uccide e il Bisagno invade le strade sottomesse, impaludandole.

    Aveva inalato anche la legge filosofica del maniman, intraducibile parola, un po’ araba e molto genovese che, come per magia, blocca, paralizza, gela, iberna affari, progetti, idee, novità, cambiamenti. Si potrebbe fare questo? Sì ma, maniman… oppure Lascia perdere che, maniman. Così il maniman era stato il Grande Freno della città, il sigillo della conservazione. Si divertiva, il commissario, e il maniman lo lasciava alle sue ricerche storiche. Non alle sue indagini. Le indagini andavano fatte a trivella.

    Finalmente l’indagine arrivò. Ma come succede sovente i guai non arrivano mai da soli. E le indagini, il più delle volte, sono dei guai.

    L’urlo partì da un tavolo della veranda che stava a picco sugli scogli del borgo marinaro di Boccadasse. Un urlo impossibile da replicare: di ghiaccio, poi tremante, patetico, poi sopraffatto da un pianto a dirotto, mentre tutti gli avventori del ristorante cercavano con gli sguardi persi nella notte da dove provenisse quel verso, se da un uomo o da una donna o da un animale ferito.

    Il cameriere raggiunse il tavolo. Si avvicinò anche il titolare del ristorante e insieme a lui anche i clienti. C’era chi indicava qualche cosa che stava sotto, al di là delle finestre della veranda. Sotto, dove il mare di maggio cominciava a trasformarsi in mare estivo, più schiumoso di notte per fare vedere le trine bianche del suo nuovo vestito.

    L’urlo era di una ragazza molto giovane e graziosa, ora accasciata sulla poltroncina e sorretta da un presunto fidanzato, quel che stava al tavolo con lei e che sicuramente le avrebbe offerto la cena.

    Dopo alcuni minuti di confusione e l’inutile tentativo del titolare di fare riprendere il servizio come se nulla fosse accaduto, alcuni raggiunsero gli scogli, mentre tutto il borgo scivolava verso la scogliera dove un corpo di uomo nudo e bluastro, con molti segni di tagli e spaccature, di lacerazioni disgustose sulla testa, tra i capelli folti e fradici, sbatteva, provocando un rumore di morte ripetuta a ogni sbattimento.

    Andava e veniva il cadavere, tra mare e terra, acqua e pietra, sbatteva la faccia ormai maciullata, si rilacerava ogni volta in qualche parte ancora intatta della

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