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Buoni da mangiare
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Buoni da mangiare

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“L’uomo osserva la fila dei lampioni nella notte. Riesce a contarne ventuno prima che un’altra puttana bussi al finestrino dell’auto. È la terza nel giro di cinque minuti, ma questo è il Mirabello, meglio noto come L’Onu del sesso. Per la strada nigeriane, slave, ucraine, polacche, rumene e qualche italiana. Le nazionalità assenti sono vendute in porzioni di carne da piacere riciclabile, cucinate da papponi con un cuore di acciaio e servite in appartamenti fatiscenti con contorno di lenzuola orribili. Si tratta di una falla nella moralità del piano regolatore in cui è possibile fare il giro del mondo in ottanta marchette. Sempre che non si abbia paura di addentrarsi in quel che resta dei palazzoni in pura edilizia popolare anni ’60, quando si seppelliva il condomino nel cemento armato.” Mirabello, una terra di nessuno in cui le anime si consumano troppo in fretta. Davide Spelletti attraversa la notte e la propria vita in cerca di una redenzione.

Mirko Giacchetti, nato nel 1976, lavora a Milano. Attualmente è speaker radiofonico (conduce A tutta pagina e Rock Side: l’altro lato del rock con l’amico e collega Gaetano Monaco), conduttore televisivo (Una poltrona per due: il cinema di genere di ieri, oggi e domani con Roberto Davi), attore (The Wicked Gift, Fino all’Inferno, The Last Heroes, Caleb) e redattore di MilanoNera.
LanguageItaliano
Release dateSep 29, 2021
ISBN9788869435669

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    Buoni da mangiare - Mirko Giacchetti

    Capitolo I

    Scena 1 – I nessuno

    L’uomo osserva la fila dei lampioni nella notte. Riesce a contarne ventuno prima che un’altra puttana bussi al finestrino dell’auto. È la terza nel giro di cinque minuti, ma questo è il Mirabello, meglio noto come L’Onu del sesso.

    Per la strada nigeriane, slave, ucraine, polacche, rumene e qualche italiana. Le nazionalità assenti sono vendute in porzioni di carne da piacere riciclabile, cucinate da papponi con un cuore di acciaio e servite in appartamenti fatiscenti con contorno di lenzuola orribili.

    Si tratta di una falla nella moralità del piano regolatore in cui è possibile fare il giro del mondo in ottanta marchette.

    Sempre che non si abbia paura di addentrarsi in quel che resta dei palazzoni in pura edilizia popolare anni ’60, quando si seppelliva il condomino nel cemento armato.

    Giganti che si sbriciolano sui marciapiedi di viale Benelli e vengono spazzati via dal traffico perpetuo.

    L’anello in pura bigiotteria al dito medio della ragazza facile provoca un rumore di ferro e di falso sul vetro. Il rosso arancio dei capelli è un pasticcio da tinta fai da te. La ricrescita cavalca da almeno quindici giorni sulla testa. La pelle diafana e tesa da squadrarle ogni curva del viso, crepata e consumata, sembra una porcellana degli inizi del ’900. Con il poco di sostanza che le è rimasta appiccicata addosso, è il fantasma di uno scheletro.

    Ci sono troppi gradi sottozero, ogni respiro si trasforma in condensa.

    La giacca non ha un taglio particolare, cade anonima dalle spalle al girovita. Non serve contro il freddo, copre il top di cotone liso di un colore in bilico tra l’arancione e il giallo. L’indumento la soffoca con la stessa insistenza di un sudario, deformandosi in prossimità di ciò che resta del seno. Ha pupille strette, due spilli che pungolano l’anima, frutto di un’accurata dieta a base di ogni additivo chimico disponibile.

    Il carburante per essere ciò che fa.

    – Bello, tu cerca compagnia? – Chiede, lanciando un bacio a nessuno. La voce emerge dal profondo, uscendo raschia la gola.

    Siamo i nessuno – risponde l’uomo, limitandosi a tradurre il testo di The Nobodies di Marilyn Manson, espulsa dagli altoparlanti a bassa fedeltà.

    – Come dice tu bisogno di fare amore?

    Vogliamo essere qualcuno.

    – Faccio tutto io. Culo, bocca, tutto. – È disponibile a qualunque cosa, include il corpo nelle parole. Senza andare troppo per il sottile accetta bisogni, desideri, fantasie, violenza.

    Siamo morti. – Continua a tradurre e diventa triste nel constatare che non si vedono le stelle oltre alle luci artificiali. Fissa la bocca per un paio di secondi. Il rossetto è troppo rosso, tonalità lussuria cupa, steso di fretta. – Vorrei farmelo un giro con te – prosegue – se avessi i soldi. – Scuote la testa, la prostituta rimane immobile. O non sente o fa finta di non sentire. – Vai a farti fottere da qualcun altro – urla per cacciarla, ponendo fine a qualunque tipo di approccio.

    Sopravvissuta a tutto, specie ai rifiuti sgarbati, è arrivata per miracolo ai venti anni. Mostra il dito medio e naviga verso nuove opportunità di racimolare qualche euro. Sistema la minigonna fuxia tirandola verso l’alto. Le balla sui fianchi e non nasconde il livido viola intenso all’interno della coscia destra. Il resto delle gambe naufraga dentro agli stivali marroni. Quando ricomincia a passeggiare, il rumore dei tacchi sull’asfalto è il battito del metronomo che spacca il tempo tra un cliente e l’altro.

    E pensare che il Mirabello era un posto quasi rispettabile pensa, riprendendo la conta dei lampioni. Lo sa per certo, è nato in quel groviglio di strade dove la metropoli declina nel nulla dei campi.

    Il passato non muore mai. È una spina sotto la pelle del presente.

    L’uomo è tornato dove tutto è iniziato per scrivere la parola fine.

    Scena 2 – Nel nome del padre e della madre

    Quarantuno anni prima

    – Patrizio.

    – Matilde.

    Una presentazione a entusiasmo zero, condita con una stretta di mano molle e confezionata al Dancing Il Master nella seconda metà dei ’70. Lei è impegnata a non sprecare una goccia della sua cedrata Tassoni, non ha intenzione di spendere altri soldi per una consumazione. Poi le serve perché, tenendo il bicchiere all’altezza della guancia, è convinta di riuscire ad assomigliare a Mina, così come la si vede nel Carosello. Poco importa che sia biondastra perché, con una tuta di velluto blu scuro e l’espressione da diva sfoggiata vicino al palco, crede di riuscire a proiettare l’illusione di essere una cantante.

    Lui ha il colletto della camicia aperto su una catenina e crocifisso d’oro, riccioli castani a non finire, una Marlboro accesa e una Peroni da sbarco. È in modalità caccia grossa, ma si annoia perché non sembrano esserci prede interessanti.

    E quella che si atteggia a Mina è una distrazione.

    – Posso? – Chiede, quando ormai è già seduto e ha conquistato metà del tavolino con la bottiglia. – Sei di queste parti? – Inventa la seconda domanda per cercare di avviare uno straccio di conversazione. Intanto tiene sotto controllo sulla pista da ballo, la prateria per individuare un bocconcino più gustoso.

    – Sì. – I monosillabi fanno parte della comunicazione di Matilde. Indecisa se inventarsi o meno una scusa per avviare una missione di salvataggio per Monica, l’amica impegnata a infilare mezzo metro di lingua in bocca a qualcuno.

    Patrizio è distratto, guarda attorno cercando qualcosa di meglio. Non si applica nel condurre il terzo grado ed esaurisce le solite domande. Matilde non è curiosa e permette alla tappezzeria alle spalle del conquistatore di passare in primo piano.

    Il locale è un ex fabbricone studiato e costruito per lavorare. Il luogo pretende che si produca, non che ci si rilassi. Per invertire la tendenza, i proprietari hanno addobbato le pareti tali e quali al Pipper anche se con meno gusto e almeno dieci anni di ritardo. Inutile organizzare concerti e servire il divertimento alla portata di tutti. Il risultato è un banco di fumo in agguato sulle teste dei presenti. Oltre al profumo secco degli strumenti sfruttati durante la musica dal vivo c’è un retrogusto chimico di fragranza al tessuto bagnato fradicio, in arrivo dalla tintoria oltre il campo.

    – Sei di queste parti?

    – Sì, me lo hai già chiesto.

    Patrizio controlla l’ora, vede che manca poco alla chiusura e capisce che non potrà avere di meglio. Inoltre, lo spirito del lavoro gli è entrato nel cervello e lo richiama al dovere, giusto per produrre e non sprecare la serata. – Se ti do fastidio, me ne vado. – La butta sull’addio per capire se c’è da battere un chiodo o raccogliere un due di picche.

    Matilde non risponde al volo. Appoggia la bibita sul tavolino, fa la radiografia ai divanetti, vede che Monica è sparita. Perché si diverte solo lei, posso farlo anch’io pensa e sorride, poi: – Non mi dai fastidio è che sono del Mirabello, non mi piacciono quelli che vengono da fuori.

    – Ma come da fuori, abito vicino alla chiesa di San Sebastiano, più Mirabello di così.

    Non è neppure brutto, meglio non buttare via la serata, continua a pensare inebriata dall’esalazione della santa produzione. – Dove lavori?

    – All’Officina Meletti, quella grossa, siamo in più di trecento.

    – Allora conosci Giacomo?

    – Tallera, come no?

    – Io lavoro alla tessitura Giorelli.

    – La conosco.

    Hanno rotto il ghiaccio con un argomento in comune.

    La sera è in discesa.

    Una discesa molto ripida. Cinque minuti prima di smontare dalla Cinquecento di Patrizio, Matilde era già incinta.

    Senza saperlo.

    Quattro mesi dopo avrebbe celebrato un matrimonio al volo. Dopo altri cinque avrebbe iniziato a cullare Davide, suo figlio.

    Scena 3 – Bisogna credere

    Davide interrompe la conta dei lampioni. Numerare le lampadine non porta alla pentola d’oro, non è un arcobaleno, quei pallidi led non sono nemmeno parenti dei colori. Libera lo sguardo, sino a schiantarsi su tre spacciatori. Il movimento triangolare dalle panchine, alla droga e alle auto in sosta ha un effetto rilassante.

    Dispensano paradisi artificiali in cambio di una stretta di mano farcita di soldi.

    Criminali mediorientali sino nelle ossa. Quello che tutto vede e tutto dispensa ha la barba bianca che gli copre metà del volto, un reticolo di rughe offusca tutto il resto e gli occhi marrone profondo aggrediscono chiunque tenti di fissarli.

    Per saperne l’età, si dovrebbe spezzare una delle sue parole e contare quanti cerchi contiene.

    Non tratta con i clienti. Il rapporto con i consumatori tocca a un essere gracile. Indossa degli abiti stretti, al punto che il costato balla un tango con la fame. È della stessa risma degli altri, ma non lo si capisce dall’aspetto sbiadito, qualcosa nella trasmissione del Dna è andato perduto. Non si spiegano le iridi azzurre e i capelli castani però si sente che appartiene alla stessa tribù. Con i tossici tratta da pari, è sulla stessa barca, non ci vuole del fiuto da segugio per capire che trasuda amore. L’ultimo è indefinito, sfuggente, corre da un socio all’altro con moto perpetuo. Suda e ha l’aspetto di un estraneo che si scambia sempre per un conoscente, una persona anonima simile a tutte le altre.

    Il piccolo corriere si avvicina e fa un cenno con il mento. Non è a punta, non ha la fossetta, non è tondo, non c’è un filo di barba. Non si riesce a dire cos’è, perché sfugge a ogni catalogazione.

    – Scusa. – Attende una reazione dall’automobilista. Il finestrino si abbassa.

    – Hai bisogno di qualcosa? – Lo spacciatore è gentile, tutto sommato.

    – No, sono qui che – Davide si guarda attorno, poi racconta la verità: – devo aspettare.

    – Chi?

    – Un’amica. – È la bugia adatta alle circostanze che gli viene in mente seguendo i movimenti della finta rossiccia mentre sale su una macchina.

    – Un’amica, ma ti sei innamorato di una puttana?

    Non sapendo cos’altro aggiungere, si limita ad annuire.

    – Ascolta, te la cavi meglio se metti incinta una vergine. – Si avvicina al finestrino, ammicca e prosegue: – dammi dei problemi e ti passo con questa. – Sbuca una lama, un brutto serramanico. – Hai capito?

    Davide si isola tirando su il vetro. La smette di guardare i tre e si concentra su ciò che rimane di un muro. Un bestione massiccio e lineare aggredito dall’erosione. Ai bei tempi separava un alveare di nove piani ripieno di operai, ora è una trincea tatuata da un milione di scritte contro ogni tipo di legalità.

    Non inizia subito a leggere, vaga con la mente e inciampa nell’idea di dare un nome alla prostituta.

    – Tanja. – La battezza, si inventa un’identità per possederla e sentirsi al sicuro dall’ignoto che rappresenta.

    Soddisfatto, si dedica alle grammatiche stentate che dichiarano amori eterni già scaduti e correzioni che dalla purezza conducono al muori troia. Altre prendono a sassate il sistema, alcune sono più incomprensibili di un geroglifico disegnato da un dottore. Ci sono dei nomi senza una vita, un volto e date insignificanti per eventi inutili. Contro i politici c’è spalmato un intero vocabolario di insulti o devozione per epoche grondanti di sangue, miseria e morte. Sul tazebao c’è chi l’immigrato lo vuole vivo e ospitato e chi morto e seppellito nel ventre delle onde. Solo le sciocchezze e la musica non ne escono con tutte le ossa rotte.

    Un’incisione urbana richiama davvero l’attenzione: Dio è in coma etilico.

    L’altissimo non è morto, pare manchi poco alla dipartita. Bere aiuta a dimenticare, c’è

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