Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

I delitti di Genova: Un'indagine del commissario Nicola Teiro
I delitti di Genova: Un'indagine del commissario Nicola Teiro
I delitti di Genova: Un'indagine del commissario Nicola Teiro
Ebook288 pages3 hours

I delitti di Genova: Un'indagine del commissario Nicola Teiro

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Il commissario di polizia Nicola Teiro abita sulle alture di Genova. Nel cortile di casa un nibbio reale ha posto il suo nido. Tra lui e il rapace nasce un rapporto ‘domestico’ pieno di mistero e continui colpi di scena. Nel frattempo una sanguinosa rapina funesta la città. Il malvivente solitario uccide cinque persone, un fatto anomalo e inspiegabile. L’arresto di un ex terrorista e la presenza di un super testimone non convincono il commissario Teiro e l’ispettore Ester Miniati, mentre il dirigente del Ministero degli Interni Ramini, giunto appositamente da Roma, spinge per una rapida conclusione delle indagini, causa anche le imminenti elezioni politiche nazionali. Teiro e Miniati preferiscono condurre una indagine parallela, cercando di scoprire i segreti che anche le vittime sembrano nascondere. Aiutati da Vaclav, un clochard appena conosciuto e dai misteriosi messaggi che il nibbio continua a trasmettere, i due investigatori sveleranno una verità inaspettata e sorprendente.

Massimo Ansaldo, nato a Varazze (Sv) nel 1959, vive a La Spezia. Esercita la professione di avvocato con studi a Genova e La Spezia. Presidente del Centro Culturale Don Alberto Zanini della Spezia è cofondatore dell’Associazione culturale Chesterton’s cigars and spirits club della Spezia. Membro del Comitato Regionale delle Comunicazioni (Corecom) della Regione Liguria. Ha pubblicato con Leucotea i romanzi Macerie e Il segno del sale. Per Fratelli Frilli Editori ha contribuito alle antologie Tutti i sapori del noir, Tutti i luoghi del noir e Odio e amore in noir con i racconti Il Coltello del cuoco, I cattivi sono buoni e Compito in classe. Sempre con Fratelli Frilli Editori ha pubblicato Qualcosa da tacere.
LanguageItaliano
Release dateFeb 28, 2022
ISBN9788869435966
I delitti di Genova: Un'indagine del commissario Nicola Teiro

Related to I delitti di Genova

Related ebooks

Noir For You

View More

Related articles

Reviews for I delitti di Genova

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    I delitti di Genova - Massimo Ansaldo

    1

    Ero finalmente riuscito a prendere sonno dopo una lunga battaglia contro il mal di testa da grappa, quando si era presentato fendendo il buio con un verso stridulo.

    Abitavo da solo, in campagna, sulle alture di Genova, poca terra e qualche albero.

    Un noce abbracciava la casetta di due piani che avevo ereditato dai miei genitori.

    Il loro era stato un lascito anche culturale e di costume. Mi avevano impresso a fuoco un carattere sarvegu che impediva di abbracciare con entusiasmo genuino tutto ciò che era altro da me. In molti, troppi, se ne accorgevano e fuggivano via, circospetti e dubbiosi.

    Mi apparteneva il tipico atteggiamento dei liguri veraci, soprattutto quelli dell’entroterra, convinti che la loro natura non potrà mai cambiare in meglio, mentre in peggio, probabilmente, sì.

    Uno dei rami del noce sfiorava la finestra della camera da letto, appoggiandosi alla parte superiore del muro. Una passerella naturale per gli animaletti, che ne hanno sempre approfittato per dare un’occhiata all’interno. Persino una volpe, una notte, era venuta a curiosare, affacciandosi con le zampette come fosse stato un gatto che pretendeva le crocchette.

    Il verso stridulo, prolungato, non poteva essere di un uccellino sgraziato. Pareva un ruggito, era potente e autorevole. Doveva appartenere a una creatura capace di imporsi anche con la violenza.

    Ero rimasto immobile nel letto, i sensi allertati. Un’anta della finestra era aperta, e sbatteva leggermente contro l’altra, poi un refolo di vento l’aveva spalancata. Aprii gli occhi e cominciai a distinguere una sagoma. Il cono di luce della luna delineava il classico profilo di un rapace. Becco adunco, testa piccola, corpo elegante e sinuoso.

    Gli occhi, neri come due grani di pepe, mi fissavano.

    Un altro verso stridulo, seguito da un gracchiare prolungato e da un battito d’ali che fece cadere più foglie di un autunno tardivo. L’apertura alare sarà stata di almeno un metro e mezzo.

    Il suo comportamento era paragonabile a quello del mio gatto quando vuole ottenere qualcosa, chiedere aiuto.

    Sfilai la coperta, feci un passo a piedi nudi verso il buio. Il rapace non si mosse. Poi riprese a sbattere le ali, con più lena. Decisi che voleva comunicarmi qualcosa e che era mio dovere interpretare che cosa. Un altro passo e appoggiai le mani al bordo della finestra. Fu allora che l’uccello spiccò il volo quanto bastava per spostarsi cento metri più indietro, sull’altro noce cresciuto sul mio campo. Riprese a gracchiare e ora mi sembrava che soffrisse.

    Scesi le scale, aprii la porta e uscii in veranda. Indossai le scarpe da lavoro. L’uccello si era appollaiato sul ramo più basso e guardava verso il terreno. Un comportamento inusuale, pensai. Con un certo timore mi avvicinai, la luna continuava a fare il suo lavoro senza indulgere in sdolcinatezze fuori luogo.

    Guardai tra due rovi di more e mi parve di vedere un cesto, molto piccolo. Era un nido. Doveva essere caduto dal noce. Il grido del rapace raggiunse il massimo del volume, assomigliava all’ululato di un lupo ferito. Poco distante c’era un unico uovo, spaccato e privo della vita che poco tempo prima aveva conservato. Su una pietra liscia ai piedi dell’albero c’erano tracce di una poltiglia sanguinolenta.

    2

    Il cellulare squillò con il riff di My my, hey hey di Neil Young, versione Out of the Blue. Ho sempre pensato che svegliarsi con le note del vecchio fosse uno dei motivi per cui valesse la pena alzarsi alla mattina.

    Faccio un mestiere in cui se accade qualcosa di nuovo ti chiamano per un omicidio, una rapina, un rapimento o il sequestro di un carico di droga, oppure per andare a testimoniare in processi che non finiranno mai. Per un commissario di Polizia il sole è sempre color del tramonto, mai giallo e splendente al centro del cielo.

    A qualcuno piace così. A me non frega niente di nessuno, da tempo vivo un’esistenza meno interessante della zanzara che ho appena schiacciato. Almeno lei ha smesso di volare, mentre io continuo a sfangare una vita ormai senza senso.

    Quel giorno, però, sentivo che il riff poteva darmi una scossa nuova. Lasciai che il falsetto attaccasse la prima strofa e poi risposi. Era la voce di una persona preoccupata.

    – Nicola?

    – Sì, Ester. Chi vuoi che sia, non hai sbagliato numero...

    Trattare male chi mostra troppo interesse è una delle tecniche di chi vuole farsi del male e cerca nuove strade per peggiorare la situazione. Io volevo vedere fino a che punto gli altri potessero sopportarmi. Come Ester: trent’anni, ispettore, bella e sola. Una mora, i cui capelli corvini incastonavano occhi scurissimi, come i riflessi di un’ossidiana. Mi guardava troppo spesso durante le riunioni, le pause, in mensa e persino quando andavo in bagno. Più che guardarmi, sembrava volermi imprigionare dentro il battito delle sue lunghe ciglia. Era arrivata dalla Calabria qualche anno prima, portandosi dietro tutto l’armamentario classico di una ragazza educata secondo i canoni tipici della tradizione. Modi riservati, al limite dello scontroso, soprattutto nei rapporti con l’altro sesso. Ne era uscito fuori un prototipo seducente di donna tradizionalista, ma incuriosita dalle sirene di una modernità per lei difficile da accettare tout court. Era spassosa quando la notavo fissare le minigonne ascellari delle ragazze con un misto di stupore e commiserazione, oppure per la ritrosia con la quale rifiutava inviti ad aperitivi o cene che per lei si spingevano troppo al di là delle buone maniere da tenere con una signorina. Neppure il corso per i dirigenti della Polizia era riuscito a sradicare una mentalità, di cui, in fondo, andava fiera. Anche a me andava bene avere una partner professionale fatta così. Poche parole, capirsi con uno sguardo e finito il lavoro ognuno per sé e nessuno per tutti.

    – Una strage... una cosa inconcepibile. Mai visti tanti morti, cinque... – Lei era in preda all’affanno che le bloccava il respiro, mentre io avevo assunto una calma piatta, come se non avessi sentito. Mi ero coricato vestito, come facevo spesso nelle giornate in cui non ero di turno. Sentivo l’umido del sudore che agiva da mastice tra la pelle, il tessuto della maglietta e quello dei jeans. Le Converse ai piedi, slacciate. Ero tornato a casa verso le 18:00, ora la sveglia segnava le 19:00.

    – Ci sei? Probabilmente è stata una rapina... la gioielleria di via Scurreria, di fronte alla Cattedrale di San Lorenzo. Il titolare dice che era uno solo, ha sparato all’impazzata durante la fuga. Ha lasciato cinque morti...

    Anche a me sembrava incredibile. Assomigliava alla registrazione di uno scherzo, ma riprodurre la voce di Ester sarebbe stato impossibile per chiunque. Era lei, non c’erano dubbi e conoscendola non avrebbe mai violato le più elementari regole deontologiche tra colleghi con battute del cazzo.

    – Okay, arrivo. Dammi dieci minuti. Al caffè non rinuncio comunque...

    Mentre giravo la chiavetta dello scooter lanciai un’occhiata al noce. Sul ramo non c’era nessun animale, ma al centro, nascosti tra densi cespi di foglie, due occhietti affilati seguivano i miei movimenti.

    Salutai il nibbio con un cenno del capo. Lui fece tremare la splendida coda forcuta e accennò a un saltello con gli artigli.

    A presto, amico mio. Ci assomigliamo più di quanto la natura volesse... noi due... ci assomigliamo parecchio, più di quanto non appaia.

    Trattenni in gola parole e magone.

    3

    Fuori dal vialetto d’ingresso avevo un altro appuntamento, un altro saluto da onorare.

    Il mio amico Vaclav era in attesa, fissava il cancello come se il momento dell’apertura fosse l’inizio vero della sua giornata.

    Slovacco e clochard, avrei giurato che avesse la mia età, non fosse altro perché un po’ mi assomigliava, nei lineamenti e nella postura, leggermente ingobbita.

    Da tempo aveva messo le tende in prossimità della fermata dell’autobus. La notte usava il gabbiotto come dormitorio e, considerato che la linea, in quella zona, non era molto frequentata, anche i controllori chiudevano un occhio e gli consentivano di usarlo.

    Era dotato di tutto l’armamentario classico dei senza tetto. Il carrello del supermercato era pieno zeppo di ogni tipo di cianfrusaglia, l’abbigliamento a strati che indossava lo gonfiava all’inverosimile, facendolo assomigliare all’omino della Michelin.

    L’avevo conosciuto per caso, quando, una sera, mi ero preoccupato notando un corpo immobile, seduto alla fermata, che non dava segni di vita, mentre invece dormiva come un sasso. Il mio interessamento per la sua condizione fece scattare in lui una sorta di glorificazione della mia persona. Non sapeva ancora che l’aveva preso a cuore uno che del suo cuore inquieto credeva di poterne fare a meno.

    Da quel giorno, ho fatto sempre una sosta, anche solo per un minuto, per scambiare qualche parola con Vaclav.

    – Buongiorno Nicola…

    – Ciao Vac…

    Mi fissava sempre quando parlava, come se volesse tirarmi fuori l’inverosimile. E questa sera gli avrei dato volentieri ragione, qualcosa di inaudito era appena accaduto.

    – Mi sembri turbato… e poi… sei appena arrivato e scappi di già?

    – Lo sai che il mio lavoro non è routine…

    – Lo so eccome… non dimenticarti che cosa facevo in Slovacchia prima che…

    Vaclav non aveva sempre vissuto come un mendicante. Fino a qualche anno prima aveva un lavoro e una famiglia, una casa, amici e un futuro che lo aspettava a braccia aperte. Poi quelle braccia si erano chiuse drammaticamente, come può accadere ad un poliziotto che uccide un manifestante durante una marcia della pace, sparando ad altezza d’uomo. Quando mi aveva raccontato la sua vicenda non volevo credere alle sue parole e solo dopo una ricerca sul Internet ho verificato che stava dicendo la verità. Era accaduto che alcuni infiltrati violenti avevano cominciato ad attaccare le forze di polizia e Vac aveva scambiato il manico di un piccolo ombrello puntato contro di lui, con la canna di una pistola che stava per sparare. Condannato per omicidio preterintenzionale, espulso dalle forze dell’ordine, divorziato, finito nella schiavitù dell’alcol. Aveva cominciato a girare l’Europa, forse in cerca di qualcosa e di qualcuno o forse per fuggire ai fantasmi che lo inseguivano ovunque.

    – Una rapina… ci sono dei morti…

    Mi ero limitato all’essenziale, avevo fretta.

    Quando lo guardavo temevo di scorgere la mia immagine riflessa come in uno specchio.

    E se in realtà fossimo la stessa persona che abita in due corpi diversi? Qual è la differenza tra noi? Lui ha ucciso una persona e allora? Lui è un clochard e allora?

    Mi aveva risposto come gli gradiva fare, cercando di andare al cuore della questione.

    – Sono brutti i morti… ancora più brutti i vivi che non vogliono farsi una ragione dei morti…

    Vac era un tipo profondo, parlava lentamente, assomigliava ad un professore ispirato, forse ad un prete, però per niente noioso e ripetitivo. Ogni parola era pesante, almeno lui sperava fosse così.

    – E che ragione dovrebbero farsi i vivi?

    La mia voce tremava, pensavo al nibbio e al suo pulcino. Non ero ancora pronto per rivelare a Vac il mio incontro con il rapace.

    – L’unica speranza è che ci sia una ragione da condividere con i morti. I due mondi non possono rimanere separati per molto. Ci sarà un tempo in cui si ricongiungeranno… buon lavoro Nicola. Quando torni mi troverai qui… come sempre.

    Mentre mi allontanavo ho guardato nello specchietto retrovisore, non mi aveva lasciato un attimo, era agganciato al mio scooter con lo sguardo di uno che aveva molte domande rimaste senza risposte.

    4

    Era una giornata in cui Genova splendeva come una signora avvenente che inebria i sensi con ritrosie seducenti, lasciandoti incerto su chi sia veramente e che cosa ti abbia intimamente riservato. Un dilemma, come l’orrore che mi stava aspettando e che faceva scattare il mio personale pilota automatico. Non era solo abitudine, le movenze su una scena del crimine sembravano teleguidate, un atteggiamento dettato dalla rassegnazione di fronte ad una violenza ormai priva di una apparente e coerente ragionevolezza.

    Faceva parte dei tic del mestiere.

    Ogni volta che arrivavo sul luogo era come impegnarsi nel ripasso delle dispense di primo intervento della Scuola Superiore di Polizia. Tutti i principali protocolli di messa in sicurezza erano stati violati da curiosi, auto di curiosi, ambulanze inutili e reporter. Il nastro giallo che avrebbe dovuto delimitare la zona era diventato nero come la fuliggine, schiacciato dall’indiscriminato viavai di tacchi e copertoni.

    – Un disastro investigativo... – mi lasciai scappare cupo.

    Ero arrivato vicino all’ingresso della gioielleria. Due spalle imponenti si erano girate verso di me reggendo una testa piccola e calva, al centro della quale spiccavano due occhietti vispi e penetranti ma anche rossi e lacrimosi, con la tensione che pompava sangue nelle vene dei bulbi.

    Domenico Grosso, il questore di Genova, era sotto stress.

    – Brutto affare, cosa mai vista...

    Parlò con un filo di voce e mi guardò come fossi la sua ancora di salvezza. Apprezzava non solo la mia professionalità. Mi aveva soprannominato il mago, lo stupiva la mia capacità di rovesciare la torta, perché è dalla base non bruciata che capisci se è buona. Non so se la frase era mia, ma appena la usavo la mia considerazione tra i colleghi saliva di qualche tacca.

    – Coraggio, cerchiamo di capirci qualcosa... ironizzai.

    Si era avvicinata anche Ester. Rimaneva sempre mezzo passo indietro, pudore e timidezza non riusciva proprio a staccarseli di dosso. In queste circostanze l’avrei preferita più sfacciata e coraggiosa, anche perché, quando interveniva, lo faceva con osservazioni degne di lasciare tutti a bocca aperta.

    – Il titolare della gioielleria dice che il soggetto non è riuscito a rubare nulla. Disturbato dall’arrivo delle nostre auto, è fuggito subito. Solo che appena fuori si è messo a sparare a casaccio. Ha ucciso cinque persone, capisci? Cinque!

    – Quindi saremmo stati noi a disturbarlo e a provocare la strage? Vuoi dire questo... – disse Grosso mentre stava per saltarmi in braccio come un neonato in cerca di certezze. Non era professionale ripiegare sulle responsabilità delle forze dell’ordine.

    – Chi ci ha avvertito? Che cosa ha detto? Chi ha dato l’ordine di intervenire?

    – Calma... – bloccai l’improvviso ardore di Ester – prima dimmi delle ricerche, il soggetto è pericoloso...

    – Sì, ed è sparito – sospirò Domenico, asciugandosi la fronte con un fazzoletto già bagnato – abbiamo bloccato tre quartieri e impegnato duecento uomini, speriamo non sia l’ago nel pagliaio...

    – Già, ma chi cercano? – intervenne Ester. A volte l’ingenuità senza malizia di una domanda può essere interpretata come una solenne presa in giro. Infatti. Grosso rischiava di esplodere. Cominciò a sbracciarsi, furente.

    – Vuoi sottolineare che non sappiamo che faccia abbia, neppure se è uomo o donna, caucasico, africano, orientale? Hai ragione, non lo sappiamo. E ora che lo sai? Ti senti a posto?

    – Calma, volevamo solo sapere se era a volto coperto... intervenni io. Il plurale che avevo usato tranquillizzò Ester, che si sentì salvata dal principe azzurro.

    – Tuta nera, passamontagna nero. Fuggito a piedi, verso il viottolo a lato della cattedrale. Sparito. Ha avuto tre minuti per: uscire, sparare e fuggire. Prima che arrivassero le pattuglie.

    – Quindi ha lasciato la gioielleria appena ha sentito le sirene... riprese Ester.

    – Presumo di sì... – azzardai.

    Lo scambio di battute tra me e la collega pose fine al colloquio. Grosso, accortosi della presenza del capo della Procura, scappò via. Trovò soltanto il tempo di puntare il dito verso il gioielliere che friggeva sulla porta. Voleva che raccogliessimo la sua deposizione.

    Passammo davanti alle sagome di gesso che segnavano il punto in cui erano stati trovati i corpi. Ester capì che avevo bisogno di qualche minuto. Dedicarmi al mio rito consueto, officiato molte volte, sperando sempre che potesse essere l’ultimo.

    Accadeva tutte le volte che mi imbattevo in cadaveri di morte violenta. Sentivo il bisogno di avvicinarmi, sollevare il telo e fissare l’ultimo residuo di sguardo impresso sul loro volto e pregare, semplicemente pregare.

    5

    Il gioielliere era un ometto basso e in sovrappeso. Montava occhialini rotondi senza stecche, che rimanevano miracolosamente in bilico sul grosso naso. L’abito, taglio anni Settanta, avrei giurato odorasse di naftalina. Quell’uomo sembrava aver fatto un viaggio nel tempo, trovandosi in un futuro abitato da violenza inaudita e fuori dalla sua comprensione.

    – L’ambulanza voleva portarmi al pronto soccorso, ma io ho rifiutato... – disse singhiozzando.

    – Sicuro di aver fatto bene? – chiesi con il mio consueto tatto. Ester mi incenerì: le testimonianze sono più attendibili se il soggetto viene messo a proprio agio, ma io non stavo per nulla aiutando.

    – Vedo che si sta riprendendo, però... – cercai di recuperare.

    Ester intervenne per evitare di bruciare all’inizio dell’indagine una deposizione che si supponeva fondamentale.

    – Signor Vitoli, Bruno Vitoli, sono l’ispettore Miniati e lui è il mio superiore il commissario Teiro. Dobbiamo farle solo poche domande, ma le sue risposte possono essere fondamentali per le prime fasi dell’indagine. La situazione è estremamente pericolosa, dato che il soggetto è ancora in libertà. Crediamo che lei possa aiutarci, è l’unica persona che ha avuto la possibilità di osservare il rapinatore...

    – Lo ha fatto? – mi intromisi, con calma però.

    Il sorriso di Ester voleva dire che avevo superato l’esame.

    Vitoli cercò la sedia che era dietro il bancone, la portò al centro della stanza e si sedette abbandonandosi con tutto il peso, gambe larghe e braccia a penzoloni. Gli occhiali rimasero al loro posto.

    – Dove si trovava al momento dell’ingresso del soggetto?

    Ester era bravissima a sintetizzare e cogliere anche il minimo particolare.

    – Dietro il bancone, seduto su questa sedia...

    – C’è un sistema di sicurezza alla porta? Deve attivarlo per far entrare un cliente?

    – Sì, il pulsante è lì... – indicò un punto sotto il bancone.

    – Quindi... sente suonare e decide di aprire?

    – Sì...

    Vitoli rispose con un filo di voce.

    – Non ha riscontrato nulla di sospetto immagino... intervenni.

    – Questo vuol dire che lo ha visto in faccia, quando è entrato... – continuò Ester.

    Lo fissammo entrambi. Vitoli non rispondeva, guardava le pareti, ruotava la testa, si vedeva che l’imbarazzo lo bloccava. Infatti accennò al timore di non poter ottenere alcun risarcimento assicurativo.

    – Assicurazione? Ma se non le hanno rubato nulla! Non mi faccia incazzare! Che cosa non ci vuole dire?

    – Signor Vitoli, si rende conto di quanto è grave la situazione?

    Ester si avvicinò e lo blandì con un mix esplosivo di sorriso comprensivo, contatto fisico e quella vicinanza sufficiente a far cogliere un profumo delicato.

    – Ho premuto il pulsante senza guardare, ero alle prese con un orologio, un automatismo... se lo si

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1