Sopravvivenza
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Sopravvivenza - Natalia Lenzi
MANFILIA
Prologo
Il mio nome è Manfilia e sono morta in un giorno di inizio primavera dell’anno del Signore 1620.
L’ultima immagine del mondo terreno che i miei occhi hanno sfiorato, è stata quella di un cielo chiaro inondato di sole.
Sono una ricoglitrice. Raccolgo i parti delle donne: le loro creature scivolano nelle mie mani forti dai loro grembi dolenti. Lo sono così come lo era mia madre prima di me, mia nonna prima della figlia e sua madre prima di tutte noi.
Siamo una stirpe di donne maledette; non comprese e morte troppo presto.
La Prima
Camilla aveva cinque figli e trentuno inverni alle spalle quando il suo sposo morì; mia nonna era la maggiore della loro progenie, già sopravvissuta a nove stagioni fredde. La morte in veste di febbre la lasciò con il dolore di un cuore spezzato, una stanza a pianterreno di un caseggiato nel fondo di un vicolo e i pochi arnesi del mestiere di scalpellino del marito, i primi ad essere venduti per comprare il pane. Sfamare tante bocche per una vedova era un inferno ma aveva messo al mondo dei figli sani e robusti, aveva imparato come curare con le erbe e le piante e presto cominciò ad assistere le donne al momento del parto. Riuscì così a salvare da morte certa le sue creature e a scacciare la fame dalla misera stanza dove vivevano tutti assieme.
Camilla portava sempre l’unghia del mignolo destro lunga e affilata; con quella lama tagliava il sacco che reggeva il bambino per farlo nascere e recideva il filamento che legava la lingua del neonato al pavimento della bocca per evitare che diventasse muto. Appena nate, premeva alle bambine i capezzoli per farne uscire una goccia di latte e garantire così che sarebbero diventate delle buone nutrici. Andava da chiunque la chiamasse, anche se non aveva niente da offrirle in cambio, e si aggirava per le vie del villaggio bussando sul legno delle porte ed entrando nelle case dove c’erano bambini fasciati che piangevano, giacché le spettava anche di occuparsi di quella prima parte della vita che spesso si spegne nella morte. Capitava che qualche nobile signora la preferisse alle serve e così correva a raccogliere anche i figli nati dal grembo di una madre seduta tra morbidi cuscini; correva però anche tra i campi, dove le donne usano lavorare fino al momento del parto e continuano a farlo anche subito dopo, con il figlio attaccato al seno.
Camilla fu presto sepolta dalla sua stessa sapienza, frutto non certo di studio ma solo di conoscenza del vivere, che mostrava senza timore alcuno. Quando, dopo sei inverni di vedovanza, il nuovo inquisitore s’insediò nel villaggio, con il compito di vigilare sulla purezza della fede delle anime del paese e del suo contado, emanò un editto che spiegava chiaramente quali eresie e quali cattivi costumi dovevano essere subito riportati alle sue scrupolose orecchie, pena la scomunica. La fiducia che la gente del villaggio le aveva sempre concesso, tanto profonda da affidarle la vita dei propri figli, cominciò a trasformarsi lentamente in sospetto, in acredine e poi in accanimento. Se una creatura dalla quale era accorsa stentava a nascere, se veniva al mondo sofferente, se si ammalava troppo in fretta oppure moriva poco dopo aver visto per la prima volta la luce, la colpa le ricadeva addosso come pietra da un monte giacché era la donna che conosceva i misteri della vita dunque anche i segreti della morte e i contadini credevano ancora ai miracoli e ai malefici. I signori credevano invece che una donna sola e indipendente, capace di sopravvivere senza la protezione, il controllo e la guida severa di un uomo, fosse un pericolo; un pessimo esempio per le loro fedeli spose e devote figlie.
Camilla, conoscitrice di misteriosi saperi, capace di donare la vita e dunque la morte, iniziò a vivere sull’orlo di quel baratro che separa il rispetto dalla paura e vi precipitò molto in fretta. Fu accusata di aver procurato malattie, di aver toccato delle creature nate da poco che poi erano morte, di averle liberate dalle fasce solo per causar loro dolore, per farle crescere menomate negli arti. Fu accusata della morte di due infanti che non avevano ancora ricevuto il Battesimo. Fu accusata di aver sfiorato un uomo, con quella sua mano dall’unghia affilata, che era stato colto poi da un malore e da dolori atroci; non era morto ma la sua rabbiosa vendetta le si era scagliata contro, colpevole certa. Il piccolo artigiano la denunciò con il vigore di chi è certo di aver subito un turpe oltraggio all'onore, alla salute e alla borsa delle monete giacché, malato, per molti giorni la sua modesta bottega era rimasta chiusa. L’inquisitore doveva far pesare la sua autorità e la gente doveva difendersi dalle sciagure che non comprendeva e dalla morte, una compagna che sembrava non distogliere mai lo sguardo.
Camilla fu allontanata dai cinque figli, arrestata, imprigionata, interrogata, torturata. Nei suoi confronti non avevano valore le leggi comuni giacché era accusata di un crimine speciale; non era una ladra, un’assassina, neppure la complice di un bandito brutale e violento, ella poteva essere una strega. Le torture che la violarono erano in grado di donare il verbo ad un muto, così confessò. Confessò qualunque orrore. Confessò tra le lacrime, in principio urlando, borbottando, gesticolando poi lentamente ogni parola divenne sempre più amara, indifferente, rassegnata. Confessò ognuna delle accuse che le erano state mosse ad orecchie voraci di colpe. Confessò di aver stretto un patto maligno e di aver ottenuto in quel modo il potere di morte che aveva usato molte, molte, volte. Confessò di essersi data ad un uomo sconosciuto abbigliato di lunghe vesti nere e di averlo fatto per la miseria, per la carestia, per la disperazione nella quale era caduta dopo la morte del legittimo compagno, per sfamare i figli ancora piccoli. Di tutto quello che narrò, il giudice e l’inquisitore ascoltarono davvero soltanto ciò che riguardava la magia di cui si professava dunque capace. All’inquisitore non parve però tutta la verità, così decise che la prigione era il posto che più meritava, il luogo migliore per meditare su quanto ancora doveva confessare, e lì, in solitudine, in silenzio, morì. Non aveva altre invenzioni da ammettere, non aveva nomi di altre streghe da esibire, non aveva più parole da proferire. Si spense di morte naturale, di inedia, di paura, con la pena nel cuore di aver lasciato i figli da soli, una stagione dopo la sua incarcerazione.
Camilla era una donna alta, robusta, dalla pelle chiara, con un lungo naso affilato e grandi occhi verdi. Mia madre mi raccontò che alla sua morte si dichiarò ufficialmente terminata la causa. Giustizia era stata fatta. Camilla si lasciò alle spalle trentasette inverni e cinque orfani.
Mia nonna
Mia nonna, poco più di quindici inverni, era l’unica che poteva provvedere ai suoi fratelli e giacché era in età da marito si sposò. Non era stato facile trovare un uomo disposto a dimenticare che era la figlia di una strega morta in prigione, ma contro di lei mai nessuno aveva speso cattive parole; era giovane, sana, di costituzione robusta e di fianchi larghi, promessa affidabile di fertilità, e aveva già dimostrato, con il peso di aver aiutato a crescere quattro bambini più piccoli sulle spalle, di essere ben capace di badare a dei figli.
Gioma, questo era il suo nome, aveva appena smesso di piangere la madre quando trovò un contadino disposto ad accollarsi lei e i suoi fratelli, tutti maschi e già abbastanza grandi da poter lavorare nei campi, nemmeno la fatica di aspettare che crescessero, e così lasciò la stanza che l’aveva vista nascere e crescere per una casa fuori le mura.
Il destino di una donna maritata è quello di popolare il mondo con quanti più figli è in grado di offrire al suo sposo ed egli, Marco di Giovanni di Mariano, aveva in progetto una famiglia numerosa: aveva deciso di combattere le carestie a forza di braccia. Gioma riuscì però a dargli soltanto due creature a distanza di tre inverni, la prima delle quali femmina; mia madre. Mise al mondo i propri figli da sola, seduta su uno sgabello a forma di ferro di cavallo, nella misera stanza dove la brace nel focolare ardeva di giorno e di notte.
Il sapere della madre scorreva anche nelle sue vene; conosceva la medicina delle erbe e sapeva preparare decotti e infusi, sapeva frenare le contrazioni di un parto precoce e sapeva come massaggiare, tastare, incoraggiare una donna durante il travaglio, sapeva come indurla a camminare durante i tormenti del ventre e come colpirle la schiena per staccare il feto quando tardava ad uscire, così come si scuote l’albero per far cadere un frutto.
La stessa gente che aveva contribuito a far condannare sua madre, presto cominciò a cercarla. Una strega, rea confessa, era morta, ma i bambini dovevano continuare a nascere e i medici accorrevano soltanto davanti alle complicazioni, spesso accusando chi era presente prima del loro arrivo d’averle provocate con l'ignoranza e l'incuria.
Gioma aveva imparato la lezione della madre e sapeva che l’emarginazione, la reclusione e poi la tortura procedevano in una sola direzione dalla quale era impossibile tornare indietro. Mia nonna non portava l’unghia del dito mignolo affilata, non proferiva parole mentre curava, non medicava con orazioni proibite e non chiudeva tutte le finestre della stanza del parto per non far entrare gli spiriti maligni. Mia nonna fasciava i neonati per evitar loro le gambe storte, ma senza stringere troppo, e li appendeva davanti al camino per farli star caldi, badando però che fossero ben saldi. Gioma chinava la testa dinanzi ai medici e cercava d’essere come loro desideravano: energica, prudente, silenziosa, con una naturale disposizione a quel mestiere, non avida di denaro, capace di tener sollevato l’animo di una giovane al primo parto, rapida nell’agire e pronta ad affrontare qualunque difficoltà. L’ultima di tali doti era particolarmente apprezzata, giacché senza difficoltà alcuna, non esisteva nemmeno bisogno del medico. Era necessario poi che fosse molto religiosa poiché la donna che partoriva era considerata impura e il neonato, fino al Battesimo, era macchiato dal peccato originale.
Gioma badava di frequentare la chiesa con regolarità e non parlava mai della madre, che in cuor suo sapeva colpevole soltanto di aver cercato con ogni mezzo di salvare i propri figli ma innocente di ogni stregoneria. Mia nonna restava in disparte, in silenzio, non toccava mai i bambini degli altri contadini, non varcava mai le mura del paese senza un valido motivo, non si aggirava mai per le strade del villaggio senza una meta precisa; correva solo quando veniva chiamata e cercava di vivere più come moglie che come ricoglitrice. Sapeva che alcune donne spesso non più fertili, vecchie, vedove o soltanto povere cercavano di vivere di espedienti e di frequente si offrivano come esperte dei segreti della natura ma un padre deluso, un litigio con un vicino, una parola proferita a bassa voce, l'invidia, la paura, spesso le conduceva sull’orlo di quello stesso precipizio che aveva inghiottito sua madre. La miseria, la povertà, la fame e la fatica nei campi uccidevano molti bambini ed era più facile cercare qualcuno da incolpare che scoprire la causa di una malattia o di una morte improvvisa; al reo si addossa una colpa, è la risposta concreta ad una domanda penosa, una disgrazia incomprensibile è capace invece di lasciare soltanto un pericoloso vuoto incolmabile.
Gioma, che non era vecchia e nemmeno vedova, fu accusata di aver guastato il figlio di un mercante; forse per la prima volta nella sua vita, alzò quella testa che teneva sempre volta a terra e protestò che, quell'infante, non lo aveva mai toccato. Il mercante, eloquente ed avvezzo a vender coperte di lana d’estate, ribatté che seppur non lo avesse mai sfiorato, lo aveva guardato più volte e i malefici, era cosa nota, si trasmettevano tanto con il tocco che con lo sguardo. Non era forse figlia di una strega? Se era stata capace di guastarlo, poteva anche aggiustarlo. Gioma doveva guarire un figlio nato menomato durante un parto al quale aveva tardato ad arrivare e soltanto giacché, tra le braccia della serva che lo aveva raccolto dal ventre della madre, lo aveva guardato a lungo con pietà. Non poteva guarirlo, nessuno poteva, e non lo guarì. D'un tratto in molti si ricordarono della strega che l'aveva messa al mondo e in molti testimoniarono di malattie improvvise, morti frettolose, sguardi malefici. Qualcuno ricordò di essere stato male dopo averla incontrata al mercato, di aver vomitato dopo averle rivolto parola, di averla vista circondata da un nugolo di gatti neri, di averla scoperta a trafficare in un orto con erbe sconosciute.
Gioma conosceva fin troppo bene la sorte che la attendeva e mio nonno, il suo sposo, che da lei aveva preteso soltanto braccia non pagate per i campi, la abbandonò al suo destino. Sputò per terra e la maledì per aver infangato il suo nome: chi avrebbe più comprato i frutti dei suoi campi, zolle toccate dalle mani di un’arpia?
Era il secondo processo di stregoneria di quell’anno e non erano ancora state emanate nuove disposizioni precise sul rigoroso esame, quello che avrebbe stabilito se mia nonna fosse una strega, quello durante il quale si ricorreva spesso all’uso della tortura, così Gioma fu costretta a sostenere il dolore degli strappi di corda e dei morsi di ferro per schiacciarle caviglie e piedi come era accaduto a molte altre prima di lei. Mia nonna continuava a dichiararsi innocente, continuava a protestare contro l’ignoranza della medicina e degli uomini, continuava ad incolpare le guerre, le carestie, le epidemie, continuava ad alzare quella voce che mai prima di allora aveva tanto usato. Morì prima ancora di sapere quale condanna avrebbe dovuto patire.
Gioma, robusta, alta, con i fianchi larghi, gli stessi occhi verdi e lo stesso naso ricurvo di sua madre, aveva ventotto inverni quando lasciò nelle strade quattro fratelli e nei campi due figli, la più grande dei quali con solo dodici inverni di vita.
Mia madre
Mia madre imparò presto a riconoscere negli sguardi della gente compassione e timore e, altrettanto in fretta, comprese che per lei e il fratello non c’era futuro in quella terra ormai contagiata dalla paura. Ignorati dal padre, emarginati dalla gente, lasciavano i campi soltanto nel giorno di mercato, quando potevano confondersi tra la calca di gambe e braccia che affollavano le stradine tra i banchi dei venditori.
Sudici e vestiti di stracci, una serva ebbe pietà di loro. Sfiorò con una carezza la guancia sporca di mio zio e poi fissò a lungo mia madre negli occhi, valutando che tipo di donna sarebbe diventata. Brigida non esitò a mentire e le disse che erano due bambini soli al mondo, la serva non esitò a fingere di credere a quelle parole. La sua padrona si era sposata da poco tempo con un ricco signore e l’aiuto di due orfani affamati, che nessuno avrebbe mai reclamato, nella grande casa di città dove erano andati ad abitare poteva essere utile. La serva avrebbe guadagnato due sguatteri e i bambini un tetto sulla testa e un pagliericcio sul pavimento della cucina. Il vecchio a cassetta sul barroccio, quando li vide salire, scrollò la testa coperta di radi capelli candidi e borbottò qualcosa tra i pochi denti che ancora aveva in bocca ma la serva non se ne curò, beveva troppo vino scadente per essere ascoltato con considerazione da qualcuno. Avara di parole, gli concesse soltanto qualche frase per spiegare che erano i figli di una lontana cugina, figli che i cattivi raccolti non avrebbero potuto sfamare; il vecchio si strinse nelle spalle e spronò le bestie.
Mia madre, senza alcuna indecisione, abbandonò il villaggio stringendo per la mano il fratello di tre inverni più piccolo seduta sul piano di carico di un carro insieme a due botti di vino, tre sacchi di granaglie, una cassa di stoviglie e panni di lana a buon prezzo. Il padre non li cercò e non li pianse, era troppo occupato a lagnarsi per la sciagurata scelta che aveva fatto con quella moglie strega; con la prossima avrebbe dovuto riflettere più a lungo. I fratelli di mia nonna lo avevano già lasciato molto tempo addietro, non appena ognuno di loro aveva avuto l’occasione per farlo; non aveva pianto nemmeno loro, li aveva solo maledetti per avergli tolto le braccia di cui tanto aveva bisogno. Mentre si lasciavano alle spalle la vecchia cinta di mura del villaggio, sobbalzando ad ogni buca di quella strada malmessa, mia madre, in silenzio, non distolse per un solo attimo gli occhi da quelli del fratello e non lo lasciò mai guardarsi indietro.
Nella grande casa di pietra dove la serva li portò a vivere, Brigida imparò che le stagioni della vita di una donna, di fronte alla legge e alla famiglia, erano scandite dalla sua fertilità; doveva essere una vergine sotto il tetto del padre, una moglie nel letto dello sposo, una madre se sopravviveva al parto e una vedova se sopravviveva al marito. Mentre ordinava le stanze della casa, spazzava i pavimenti, riassettava i letti, rammendava gli abiti, fedele