Lo Zen e l'arte di bere tè
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About this ebook
Ricco di dati storici e filosofici, nonché di ispirati spunti di riflessione, Lo Zen e l'arte di bere tè evoca il particolare piacere di sorseggiare il tè e cattura l'intelletto e la sensibilità. Con il suo stile incantevole questo libro si rivolge agli appassionati del tè e a chiunque sia interessato alla cultura del tè, alla filosofia cinese e allo Zen.
William Scott Wilson
Nato nel 1944, è cresciuto presso Fort Lauderdale, in Florida. E' il principale traduttore in inglese di testi tradizionali giapponesi sulla cultura dei samurai. Ha conseguito due lauree al Dartmouth College e al Monterey Institute of Foreign Studies, e un dottorato di ricerca in letteratura giapponese presso l'Università di Washington. Tra i suoi libri di maggiore successo, pubblicati dalle Edizioni Mediterranee, vi sono La mente senza catene: scritti di un maestro Zen a un maestro di spada, Il samurai solitario: Miyamoto Musashi e le traduzioni di Yojokun. Lezioni di vita di un samurai (Kaibara Ekiken), Il discordo del demone sulle arti marziali e altri racconti (Issai Chozanshi), Lo spirito libero. Riflessioni di un saggio cinese (Hung Ying-ming).
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Lo Zen e l'arte di bere tè - William Scott Wilson
COLLANA DIRETTA DA BRUNO BALLARDINI
William Scott Wilson
LO ZEN E L’ARTE DI BERE TÈ
Traduzione dall’inglese di Milvia Faccia
Nota del Traduttore
I termini e i nomi cinesi in questo libro sono stati traslitterati con il metodo di trascrizione pinyin, il sistema ufficiale in uso nella Repubblica Popolare Cinese. Ho preferito lasciare alcuni termini e nomi nella trascrizione Wade-Giles usata dall’Autore perché sono diventati di uso comune nella lingua italiana. Questi termini e nomi sono: Tao (invece di dao
), Tao Te Ching (invece di Dao De Jing
) e I Ching (invece di Yi Jing
).
ISBN 978-88-272-2671-1
Titolo originale dell’opera: THE ONE TASTE OF TRUTH © Copyright 2012 by William Scott Wilson - Published by arrangement with Shambhala Publications Inc., Boston - Per l’edizione italiana: © Copyright 2015 by Edizioni Mediterranee, via Flaminia 109 - 00196 - Roma - Versione digitale realizzata da Volume Edizioni S.r.l.
A mia moglie, Emily
Vale la pena di impiegare gli anni giovanili e le ore più preziose anche solo per imparare alcune parole di una lingua antica, che s’innalzino sulla volgarità della strada per diventare perpetui mezzi di ispirazione e incitamento. Non invano il contadino ricorda e ripete quelle poche parole di latino che ha udito. A volte gli uomini parlano come se lo studio dei classici fosse destinato a lasciare il posto a studi più moderni e pratici; ma lo studioso intraprendente studierà sempre i classici, in qualunque lingua siano stati scritti e per quanto antichi siano. Cos’altro sono i classici, infatti, se non trascrizioni dei più nobili pensieri dell’uomo?
HENRY DAVID THOREAU
Indice
Prefazione
Introduzione
1. I fondamenti
2. Non-Mente/Non-dualismo
3. Impegnati a fondo e fa’ il tuo lavoro
4. Vivere la vita di tutti i giorni
5. Guarda sotto i tuoi piedi
6. I confronti sono odiosi
7. L’uguale differenza
8. La natura, così com’è
9. La natura parla forte e chiaro
10. Nessuna illusione
11. Vita senza artifici
12. Nessuna ostruzione
13. Vivere pienamente la vita
14. Semplicità
15. La totalità della vita
Note
Bibliografia
Tra gli accessori del tè, nulla è più importante del rotolo. Esso, infatti, permette sia all’ospitante che all’ospite di cogliere la Via della Mente Una e di essere interamente assorbiti nel tè. Il rotolo migliore è quello corredato da una calligrafia realizzata con inchiostro d’India. Si nutre il più profondo rispetto per le parole di queste calligrafie, e si apprezza la virtù essenziale del calligrafo, degli uomini della Via e dei patriarchi buddhisti… Il rotolo migliore è quello in cui le parole del Buddha o dei patriarchi si accordano con l’arte del calligrafo.
Nanporoku, Libro 1:19
Prefazione
Era verso la fine di agosto e il caldo estivo indugiava nel sudovest del Giappone. Tuttavia erano cominciate ad apparire alcune delle graminacee d’autunno, e i fiori di questa stagione stavano sbocciando nella loro pienezza. Hosokawa Tadaoki, all’epoca ottantenne, osservava il cielo sopra Kumamoto, trovandovi indizi di un imminente clima più fresco; era un generale stimato, in possesso di un acuto senso politico, e famoso per la sua bravura come artista della lacca e praticante di chanoyu. Quella mattina aveva invitato per il tè due ospiti, un giovane monaco Zen e un famoso guerriero, che era anche artista e scultore, nella sua piccola capanna per il tè dal tetto di paglia che sorgeva nell’area del castello. La sera prima Tadaoki aveva personalmente spazzato il vialetto lastricato del giardino, e ora notava che alcune foglie e aghi di pino erano caduti nottetempo, contribuendo al fascino di un’atmosfera piacevole e naturale.
I due ospiti arrivarono insieme ed entrarono passando per la bassa porta della capanna, con maggiore difficoltà da parte del guerriero, che era più alto della media dei giapponesi e che, pur essendo cinquantenne e cagionevole di salute, aveva un fisico muscoloso e spalle larghe. L’interno della capanna era quasi spoglio. Sul focolare vi era un bollitore in ghisa, alcuni accessori per il tè, una tazza e, nella nicchia, un vaso non smaltato colmo di lavanda e rose selvatiche, e un rotolo appeso.
Tadaoki, o Sansai, com’era ormai chiamato, servì il tè denso e amaro nella tazza smaltata di nero. L’etichetta della chanoyu fu poco seguita, ma la conversazione fu leggera e talora spiritosa. Il guerriero, che aveva trascorso gran parte della sua vita viaggiando in tutto il paese, notò che non si era ancora udito il canto del matsumushi, un rumoroso grillo di tarda estate. Dopo qualche esortazione, egli cantò una poesia di un’antica antologia, sullo smarrirsi nei campi di autunno e sul rifugiarsi là dove cantava il matsumushi¹. Il monaco Zen, dal canto suo, li divertì con un aneddoto: lui e il guerriero avevano meditato su un grande masso appena fuori dalla città, quando un serpente aveva attraversato, strisciando, il grembo del monaco, e poi, dopo qualche esitazione, era passato attorno al compagno. Malgrado la distanza sociale tra l’ospitante e i suoi ospiti, nell’atmosfera della capanna del tè le distinzioni sembravano scomparire.
Di tanto in tanto lo sguardo dei presenti cadeva sulla nicchia, e in particolare sul rotolo appeso. In esso era montata una calligrafia dell’eccentrico monaco Zen Ikkyu, trasmessa da centocinquant’anni fino a Tadaoki. I caratteri cinesi dicevano: Non fare nulla di male, fai tutto ciò che è bene
, una citazione abbreviata dei Versi dei Precetti dei Sette Buddha, attribuiti ad Ananda, un discepolo del Buddha. Il resto della massima recitava: Purifica i tuoi pensieri; questo è l’insegnamento di tutti i Buddha
. Queste parole illuminarono le loro idee e la conversazione, e fu come se questa compagnia straordinaria bevesse il tè con i patriarchi, con Ananda e con Ikkyu².
* * *
L’arte cerimoniale di bere il tè e il Buddhismo Zen sono stati in stretta relazione in Cina fin dalla dinastia T’ang (618-907), e in Giappone a partire dal primo periodo Kamakura (1185-1249). Si può affermare che il vero e proprio Ch’an (Zen) cinese sia iniziato con il Sesto Patriarca, Hui-neng (638-713), subito prima della pubblicazione del Canone del tè (Ch’a Ching, ) a opera del letterato e uomo di stato Lu Yu. Bere il tè divenne ben presto una diffusa attività tra i monaci Zen, in parte per le proprietà stimolanti della bevanda, e in parte per la semplicità, il raccoglimento e la bellezza estetica degli incontri cerimoniali che si svilupparono intorno a esso. In Cina il tè fu introdotto prima della dinastia T’ang, e, secondo la tradizione Zen, vi fu portato dall’India a opera del Primo Patriarca Zen, Bodhidharma (470-543), oppure crebbe dalle sue palpebre che lui stesso si era tagliato e che aveva gettato a terra dopo essersi addormentato durante la meditazione. Risalendo ancor più indietro nel tempo, al quinto secolo a.C., secondo la tradizione taoista Kuan Yin, guardiano del Passo di Han, offrì a Lao Tzu una tazza di tè prima di chiedergli di scrivere il Tao Te Ching.
Si ritiene che il tè sia stato portato in Giappone intorno all’anno 814 da Kukai, di ritorno dalla Cina, ove si era dedicato allo studio del Buddhismo Shingon. Il tè cerimoniale propriamente detto ebbe inizio con Eisai (1141-1215), che tornò dalla Cina riportando i precetti del Buddhismo Zen, dei semi di tè e forse alcune piante, nonché gli usi e costumi del tè che aveva appreso nei templi Zen cinesi. Eisei incoraggiò entusiasticamente l’uso del tè e scrisse un breve trattato, Bere il tè e preservare la salute (Kissa yojoki, ), che rese il tè ancor più popolare. La Via del Tè (Sado, ) fu ulteriormente sviluppata all’inizio del quindicesimo secolo da un seguace dello Zen, Murata Juko, come un’attività per aristocratici e guerrieri, ma anche per la gente comune. A Juko è attribuita la paternità della frase Lo Zen e il tè hanno il medesimo sapore
( ).
Se il tè è utilizzato per tenere lontana la sonnolenza nel corso della meditazione Zen, la chanoyu ( ), o Cerimonia del Tè, incorpora il raccoglimento, il silenzio e la semplicità richiesti per lo studio e la meditazione Zen. Forse l’aspetto più importante per entrambi è la consapevolezza del fatto che ogni singolo momento è unico, e dev’essere apprezzato e assaporato. Pertanto, i seguaci dello Zen e i seguaci del tè percorrevano Vie analoghe, che spesso s’incrociavano. È importante rilevare che entrambe le discipline furono praticate non solo dai loro specialisti, ma anche da membri della classe guerriera, da aristocratici, abitanti delle città e agricoltori. Nei secoli in cui lo Zen e l’arte di bere formalmente il tè si svilupparono sia in Cina che in Giappone, prese corpo un canone di letteratura comprendente poesie, massime, frammenti di storie Zen, o semplicemente caratteri cinesi che indicavano concetti, stati della mente o principi filosoficoreligiosi. Disposti sui rotoli appesi nelle nicchie dei templi Zen o delle sale da tè, questi testi, che potevano includere un singolo carattere o intere poesie di cinquanta caratteri, fornivano temi di contemplazione e contribuivano così all’atmosfera appropriata per bere il tè o per meditare in silenzio. Le frasi chiave di queste fonti sono incardinate sulle culture della Cina, della Corea e del Giappone, allo stesso modo della versione King James della Bibbia per le culture occidentali. Con esse si va al cuore della vita asiatica, e si incontrano nei dojo di arti marziali, nei ristoranti giapponesi tradizionali, nelle nicchie dei soggiorni e altrove.
Qui sono state riunite e tradotte oltre cento di queste frasi – in giapponese chiamate ichigyomono ( ) – tra le più comunemente utilizzate del migliaio o più tuttora in uso. Molti di questi ichigyomono sono frammenti di testi più lunghi, ma il giapponese colto li leggerà e vi riconoscerà i riferimenti, così come un occidentale, leggendo le parole Il Signore è il mio pastore
, sarebbe in grado di completarle con ciò che segue. La natura ellittica di questi frammenti è essenziale alla natura dello Zen e di gran parte della cultura orientale. In effetti si tratta
di ciò che talora lo Zen chiama suonare il liuto privo di corde
. Il segreto sta nel sapere come equilibrare la forma con la vacuità e, soprattutto, nel sapere quando si è detto
abbastanza³. L’idea non è quella di sommergere il lettore di ichigyomono con spiegazioni e analisi, ma di consentire alla mente di avere uno spazio per girovagare liberamente e spontaneamente
tra le idee e le emozioni suggerite dalle parole dei rotoli. Pur tuttavia, poiché gran parte di noi in Occidente non ha alcuna familiarità con i testi e/o i concetti da cui ebbero origine queste frasi, ho cercato di fornire nella misura del possibile fonti o contestualizzazioni. In tal modo spero di aver fornito un breve compendio di ciò che Sen no Rikyu considerava l’accessorio più significativo del tè, il rotolo.
* * *
Desidero ringraziare il mio precedente editore, Barry Lancet, per le sue indicazioni e la sua pazienza, e per aver condiviso il suo gusto estetico per ciò che riguarda il tè; i miei editori di Shambhala Publications, Beth Frankl e John Golebiewski, per l’impegno e la pazienza; Masako Kubota della Florida International University, Veljko Dujin del Morikami Museum e il mio amico Ichikawa Takashi, per i loro consigli professionali e per i materiali forniti; i miei amici Tom Levidiotis, Kate Barnes, Jim Brems, Gary Haskins, Jack Whisler, John Siscoe, Justin Newman e Daniel Medvedov per il costante incoraggiamento e per l’aiuto; mia moglie Emily per i suoi preziosissimi suggerimenti concernenti il manoscritto; e i miei professori Richard N. McKinnon e Hiraga Noburu, della cui gentilezza la mia tazza è traboccata più spesso di quanto io non avessi compreso.
Ogni eventuale errore è solo mio.
WILLIAM SCOTT WILSON
Introduzione
Il Vimalakirti-nirdesa Sutra è uno dei più famosi sutra del Buddhismo Mahayana, ed è tenuto in particolare considerazione dalla scuola Zen. In questo sutra il protagonista, un ricco laico di nome Vimalakirti, è malato, e riposa in una piccola stanza in cui è presente solo uno stretto lettino. Nel corso del racconto ottomila bodhisattva, cinquecento sravaka, Indra, Brahma e centinaia di migliaia di Esseri celesti decidono di recarsi da Vimalakirti per informarsi della sua salute. Miracolosamente ciascuno di loro è in grado di accomodarsi nella stanzetta e di udire le parole illuminate che vengono pronunziate.
L’edificio tradizionale per il servizio della chanoyu, ovvero della Cerimonia del Tè, è stato spesso paragonato alla piccola stanza di Vimalakirti. Con una superficie che spesso non supera i tre metri quadrati, può assumere la forma di una stanza speciale in una casa o un ristorante, o di una capanna appartata e situata in un giardino che include un gruppo di alberi, un vialetto irregolarmente lastricato ed eventualmente una lanterna di granito coperta di muschio. Il vialetto stesso – e, per estensione, l’intero giardino – è chiamato roji ( ), o sentiero rugiadoso
, ma una lettura alternativa del primo carattere, rugiada
, è manifestare
, poiché su questo sentiero si dovrebbe esibire la semplicità e la povertà di spirito necessarie per entrare nell’autentica natura del luogo.
Dopo essere entrati per una porta bassa, la cosa forse più notevole della sala da tè stessa è che all’interno non c’è quasi nulla. Vi sono naturalmente un focolare a carbone inserito nel pavimento di tatami, un bollitore in ghisa contenente acqua sul focolare, una tazza di terracotta per il tè e pochi altri utensili – un piccolo recipiente contenente il tè, un sottile frullino di bambù, un mestolo per versare l’acqua bollente nella tazza e un vaso di terracotta contenente l’acqua per lavare la tazza. Materiali derivati dagli elementi – acqua, fuoco, terra e legno – per la pratica elementare del bere il tè. In questo locale altrimenti spoglio, tuttavia, c’è un luogo che cattura la nostra attenzione. È il tokonoma, una nicchia costituita da una moderata rientranza della parete, che è rite-nuta lo sviluppo di un’analoga struttura per gli altari, i dipinti religiosi o le disposizioni floreali dei templi buddhisti del tredicesimo e del quattordicesimo secolo. È nel tokonoma della sala da tè, con la sua luce tenue e indiretta, che si mostrano i rotoli calligrafici contenenti le parole dei patriarchi, suggerendo la disposizione d’animo per la nostra visita.