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Il Pilastri dell'Anno: Il significato occulto del calendario
Il Pilastri dell'Anno: Il significato occulto del calendario
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Il Pilastri dell'Anno: Il significato occulto del calendario

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È noto che lo scorrere del tempo del calendario ha palesi effetti sulla Natura che progressivamente si trasforma. In che maniera il ritmo circolare del tempo incide sulla manifestazione e sugli stati d’animo dell’uomo? È veramente possibile che il mondo esteriore influisca su quello interiore? E in quale modo l’essere umano si può armonizzare con i respiri del cosmo? Anticamente tutte le date del calendario erano dedicate a un’entità o a un evento celeste, e non c’era differenza tra giorni sacri e profani perché ogni dì aveva una sua sacralità intrinseca. Ma quali sono in realtà i significati originari delle feste? Ed è possibile rileggere il calendario e comprenderne i messaggi animici ancestrali? Qual è, allora, il significato occulto del calendario? Una coinvolgente e suggestiva analisi che non soltanto ripercorre le radici degli eventi più noti e più importanti comparando diverse memorie europee, ma analizza i loro contenuti mitici e simbolici, le leggende a cui sono collegati nonché la “corrispondenza perfetta” tra macrocosmo e microcosmo. Una riflessione su una delle cose che diamo maggiormente per scontate: il tempo.
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2013
ISBN9788864830155
Il Pilastri dell'Anno: Il significato occulto del calendario
Author

Maurizio Ponticello

Giornalista e scrittore, studioso di tradizioni italiche ed europee, è stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de Il Mattino. È autore di diversi libri, tra i quali Napoli, la città velata e I misteri di Piedigrotta (entrambi Controcorrente Edizioni), e il best seller scritto a quattro mani con Agnese Palumbo Misteri, segreti e storie insolite di Napoli (Newton Compton, 2012). Ha avuto vari riconoscimenti tra cui i premi Domenico Rea, Masaniello ed Emily Dickinson. Nel 2013 ha pubblicato il thriller di successo La nona ora (Bietti Edizioni). È vicepresidente dell’associazione Napolinoir.

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    Il Pilastri dell'Anno - Maurizio Ponticello

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    I pilastri dell’anno

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    Il significato occulto del calendario

    Maurizio Ponticello

    COLLANA

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    Copyright

    I pilastri dell’anno - Il significato occulto del calendario

    di Maurizio Ponticello

    ISBN 978-88-6483-015-5

    Prima edizione digitale 2013

    © Copyright 2013 by Edizioni Arkeios

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

    La Terra

    e il Cielo

    sono uno.

    Dedica

    A mia madre, e a tutti coloro

    che sono fuori della cerchia del tempo.

    Ringraziamenti

    Il calendario è un reticolo misterioso, un nugolo sotto forma di almanacco di sovrapposizioni cultuali e storiche con continui slittamenti temporali. Probabilmente, non sarei riuscito a districarlo per raggiungere l’anima occulta originaria della ruota del cosmo senza l’ausilio di alcuni amici che mi hanno dato man forte a soffiare la polvere del tempo. Ringrazio, quindi, Raffaele Ciardulli per l’impegno con cui si è dedicato al confronto sui vari riferimenti del mondo celtico; Gianfranco de Turris, per avermi prestato i suoi occhi scrutatori che guardano oltre; Edwina Gonzalez, appassionata ricercatrice della Carta Celeste; la compianta Domizia Lanzetta, che mi ha sostenuto e aiutato con passione a illuminare alcuni viluppi oscuri; Mario Enzo Migliori, incomparabile studioso del Calendario Romano; l’amico perduto Roberto C. che, per primo, anni addietro, ebbe modo di farmi comprendere che l’intero Sistema poggia su ciò che oggi, asetticamente, chiamiamo calendario. E Anna Petrazzuolo, preziosa editor di questo saggio.

    Il breviario dell’universo

    Una è la stirpe degli uomini,

    una quella degli Dei:

    da una stessa madre abbiamo tratto respiro.

    Ma un diverso potere ci divide

    ché nulla noi siamo e il cielo di bronzo

    dura in eterno dimora incrollabile.

    Pure natura o intelletto

    agli immortali ci eguaglia,

    sebbene ignoriamo la meta

    che al nostro percorso diurno

    e nelle notti prescrisse il destino.

    Pindaro

    ¹

    A prima vista sembrerebbe una lunga lista di numeri da sfogliare inventariati in appena dodici pagine. Una rubrica che, invece di essere alfabetica, cataloga date in fila o in colonna. C’è chi lo considera un’agenda murale sulla quale appuntare incombenze e programmare riunioni, rammentare compleanni e sottolineare la ricorrenza di altre circostanze, e chi lo vorrebbe uno scadenzario civile oppure, meglio ancora, sociale. Eppure, malgrado l’evidente utilizzo comune, il calendario, dietro il suo aspetto formale e burocratico, sembra camuffare qualcosa di più impalpabile di un album di giorni, settimane e mesi: è, difatti, un breviario dell’universo.

    In quelle caselle che incorniciano cifre disciplinate, solitamente vergate in nero e talora in rosso, si celano le tappe della nostra esistenza quotidiana, di quella assegnata al domani e al dopodomani, al mese prossimo e pure agli anni venturi. E, perché no, nel loro scrigno è possibile rintracciare la cronologia del passato, perfino il più lontano del quale non abbiamo memoria se non attraverso le pagine impolverate di libri di storia. Ma l’annuario è e rappresenta anche molto altro in quanto, prima di essere il risultato di una convenzione con il fine di segmentare il tempo, renderlo uguale per tutti e snocciolarlo come un rosario o un juzu buddhista, è lo specchio dei ritmi cosmici tradotti in accadimenti intimi quanto planetari, dalla maggior parte dei quali – avendone smarrito traccia e consapevolezza – siamo scollegati.

    Il calendario è una proiezione sul futuro, sembra che trotti sempre avanti e che sia in fuga – proprio alla maniera che intese sant’Agostino facendo smuovere, circa mille anni dopo, il paradosso della freccia statica di Zenone di Elea con una pulsione costantemente lineare e crescente – e irraggiungibile, come la tartaruga inseguita da Achille piè veloce. Le sequenze progressive che vi sono riportate da uno a trentuno – con esclusione di qualche variante – sono uguali e senza fine, si ha la netta sensazione che si ripetano in eterno e nondimeno che siano sostanzialmente diverse. È un’ovvietà, ma è bene ricordarlo: ogni giorno è differente da quello che lo precede e da quello che lo segue, non diversamente dalle stagioni che scorrono o dal fiume in cui ci s’immerge, il quale non potrà mai essere uguale a se stesso, sebbene sia composto pur sempre di acqua. Non si può far risalire l’acqua che passò, né richiamare l’ora che è trascorsa², scriveva Ovidio parafrasando in versi Eraclito: è su questo intrigante benché infido e liquido terreno che fin da ere lontane si scontrano le varie teorie e ideologie sull’interpretazione del tempo.

    Tenendo fuori le ipotesi con le quali si giura che il tempo non esiste in quanto una illusione ostinatamente persistente, per dirla alla Einstein, nel maldestro tentativo di ricomporre in tronconi tali variegate dottrine, possiamo ricondurle a due capostipiti: la maxicategoria lineare e quella circolare. Non è cosa da poco poiché, per farla breve, da questo paio di ceppi si sono ramificate vere e proprie visioni del mondo che riferiscono di varie filosofie della storia e concezioni ontologiche e, oltre a ciò, evidenziano il disorientamento incapacitante nel comprendere se ci si trovi nel presente, nel futuro o nell’istante appena precedente il quale, nel momento in cui se ne prende cognizione, è già passato. Poi, a cascata: un turbine di pensieri e riflessioni sul divenire, sull’essere, sulla caducità, sulla morte e sull’eternità. In genere, però, dal XVIII secolo a seguire, le considerazioni pronunciano in modi diversi più un concetto quantitativo che qualitativo: quasi la totalità dei ragionamenti su questo argomento è di genere speculativo e filosofico e riflette un disagio nel tentativo di intendere l’essenza del tempo e trovare una formula per gestirlo. Spesso si contorcono in spiegazioni labirintiche dalle quali lo stesso pensatore, intrappolato dalle proprie parole, non riesce a venire fuori. Dalle affermazioni perentorie – sintomo di presunzione o consapevolezza? – dei primi secoli della storia convalidata (per esempio, Parmenide: L’essere è l’È; oppure: L’essere non era né sarà, giacché esso è ora, tutto insieme, uno e continuo³), si è passati a dubbi che oggi definiremmo amletici, logoranti e paralizzanti sulla propria esistenza e sull’immortalità, per i quali è sembrato che l’unico sbocco plausibile fosse l’accettazione del dogma e la fede. Per quanto sia molto più antico – risale al IV secolo – ecco un passo che esprime esattamente quel che stiamo asserendo: E ti confesso Signore che ancora non lo so cosa sia il tempo, e ancora ti confesso, Signore, che so di fare questo discorso nel tempo e che da molto ormai sto parlando del tempo e che questo molto non è molto se non perché dura nel tempo. E come lo so allora, se non so che cos’è il tempo?⁴.

    Questa nota elucubrazione di sant’Agostino si avvita su se stessa senza trovare via d’uscita se non nel modo che abbiamo detto (ovvero nella fede irrazionale, fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono⁵), e con ciò non intendiamo sostenere che non sia profonda, ma semplicemente constatare che è posta su un sentiero minato per il quale preferiamo non addentrarci. Pertanto, non staremo qui a sondare quali siano stati i passaggi epocali di sofisticate riflessioni che hanno condotto l’umanità ad affidarsi alle conoscenze di un augure o allo stigma di uno gnomone, alla diligenza di una meridiana o alla sabbia di una clessidra e infine alla esattezza assoluta di un orologio ad atomi freddi. Piuttosto indugeremo su quella che è la natura qualitativa e simbolica dell’almanacco e del tempo cosmico. Il calendario ha già un quadrante di per sé perfetto cui fare riferimento: la carta celeste. È lì, difatti, nell’immensa calotta stellata e nell’analogia evidente con lo spirito umano, che pensiamo di scorgere alcune risposte; così hanno fatto le culture arcaiche prendendola a modello per determinare – e mai fissare – in modo consequenziale la corsa del tempo e le azioni che riguardano gli individui, la memoria di ciò che è trascorso e di ciò che ha da venire, per contemperare, insomma, le varie necessità pubbliche e private e, fondamentalmente, per trovare una concordanza tra le primarie esigenze di culto e quelle della politica. È soltanto con l’applicazione del Metodo tradizionale e con questo tipo di analisi effettuata per categorie mitiche, storiche e simboliche che, per esempio, è possibile rintracciare il senso stesso delle feste, di gran lunga più di oggi tappe capitali del calendario antico, quasi che addirittura l’annuario sia stato effettivamente concepito per tratteggiare i loro contorni accerchiandole con altre date meno eloquenti.

    Dopo una prima sezione d’impostazione e interpretazione generale, analizzeremo alcuni tra gli eventi più rilevanti dell’anno rinvenendo esplicative tracce antiche finanche nelle ricette dei pasticcini e in più complesse tradizioni culinarie, in proverbi e modi di dire, in espressioni che riferiscono di un ritorno, di una dipartita o di miti e culti ai quali sono inevitabilmente collegati. A parte Solstizi ed Equinozi, tra le altre ricorrenze soffermeremo la nostra attenzione su Halloween/Samhain; sulle commemorazioni dei defunti e di san Martino; su santa Lucia, sulle feste della luce e dell’Avvento; sul Natale solare, sulla magia delle 12 notti e del Capodanno; sui fuochi di Sant’Antonio, su quelli di Imbolc e Candelora; su Carnevale; sulla resurrezione di Attis e su Pasqua; su Beltaine, Valpurga, Calendimaggio e la tradizione dell’albero fiorito; sulla testa rotolante di san Giovanni, sulla festa di Lugh e sul raccolto nei campi. In ciascuno di questi avvenimenti cercheremo d’identificare il lato più nascosto che unisce l’anima umana al divenire e alla sostanziale immutabilità acronica della ruota del cosmo.

    A chiunque voglia studiarlo, inizialmente il calendario moderno si presenta come una scatola-contenitore del tempo addomesticato. E, anche se il tempo non è per niente ammaestrabile, va preso atto che è proprio questo il modo più diffuso di rappresentarlo, dato che si tenta sempre d’infilargli una museruola e racchiuderlo in un’etichetta che gli sta assai stretta o, viceversa, si raffigura l’uomo intrappolato tra le inflessibili sbarre del divenire. Non spetta a noi dire se tutto ciò sia riconducibile a una fobia del confronto con l’eterno, a uno sforzo teso a disinnescare quel che sfugge a ogni controllo, o se invece derivi da una specie di titanismo, ma di sicuro l’onnivora mentalità moderna cerca di divorare sia spazio che tempo e di ricondurre il tutto a un principio più confortevole di utilitarismo economico. La deminutio operata dalle leggi dell’economia è una sorta di virus dilagante che tocca ogni aspetto dell’esistenza. Per esempio, il fatto di voler far risalire a tutti i costi calendario a un termine latino utilizzato per identificare il registro con il quale si censivano gli interessi debitori maturati al primo del mese, dovrebbe dirla lunga sul concetto quantitativo di cui riferiamo secondo l’assunto che il tempo è – in entrata o in uscita – moneta. A partire dalla stessa origine del calendario, d’altronde, è possibile evincere un aspetto per nulla monetizzato in quanto è palesemente cultuale poiché associa il ritmo degli uomini a quello cosmico. Già il termine tempo – dal greco tèmnô – suggerisce indizi per la strada da percorrere: significa l’atto con cui qualcosa è diviso secondo ordine e misura. Non si può dimenticare, però, che la parola tempio, oltre che l’assonanza fonetica in comune con tempo, ha la medesima origine con la quale etimologicamente s’intende luogo o recinto (sezione) sacro. Entrambi i vocaboli hanno il suffisso theòs – Dio – che lega l’uno all’altro. In quest’ottica, sembra ancora più interessante indagare direttamente il sostantivo calendario: proviene dal latino kalare che vuol dire chiamare a raccolta o annunziare, però dal greco kalàô deriva il senso di aprire e, in questo caso, significa trasferire ciò che è sul piano astrale su quello terrestre. Fin dall’epoca romana arcaica, le kalendae – sconosciute ai Greci, da cui il detto alle calende greche con l’ironico senso di mai – sacre a Giunone e a Giano⁶, costituivano il primo giorno di novilunio con il quale aveva inizio il mese: dopo aver celebrato un rito con il Rex Sacrorum, il Pontefice Minore dal Campidoglio annunciava quanti giorni mancavano al primo quarto di Luna (none), data dalla quale venivano comunicate tutte le festività da osservare durante il periodo in corso. Successivamente, la parola diede il nome a un almanacco che riportava le notizie astronomiche e quelle agrarie, le feste da celebrare, la lunghezza diurna e notturna dei giorni, l’alba e il tramonto del Sole e della Luna e principalmente le divinità ricorrenti da celebrare a protezione dei singoli spazi di tempo. Soltanto molto dopo divenne sinonimo del registro delle scadenze che i debitori chiamarono tristes kalendae.

    Prima di elaborare sistemi coercitivi per imprigionarle in codici, in tutti gli evi antichi che la storia conosce l’uomo ha cercato di conformarsi alle leggi del cielo, da sempre un enigma per sovrani e religiosi ancor prima che per matematici e astronomi⁷ i quali sono stati fin dal principio al loro fianco nel suggestivo compito dell’interpretazione dei segni stellari proiettati sul suolo del mondo. La cultura megalitica ne è un esempio lampante. I circoli di menhir disseminati dal Nord più estremo delle isole Shetland al Baltico, dalla penisola iberica alla maggior parte delle coste atlantiche e finanche nel meridione italiano, confermano che ben oltre cinque millenni or sono esistevano comunità essenzialmente agricole in possesso di una conoscenza matematica particolarmente avanzata che lascia perplessi i modernisti a oltranza. Quelle enormi pietre allineate o in cerchi aurei e misteriosamente autoreggenti, sono sia osservatori astronomici che luoghi di culto, santuari open space, centri di potere spirituale e/o camere sepolcrali nelle quali, in determinati periodi dell’anno, con precisione millimetrica i raggi solari tuttora vi entrano dentro illuminando interamente la lunga linea dei corridoi fino a rischiarare a giorno la tomba centrale. La cosiddetta geometria megalitica – triangoli di ogni tipo, rettangoli, poliedri e figure ad arco – è alla base dell’articolata ingegneria astronomica che associa pure le implicazioni dei differenti corsi del Sole e della Luna e la mappa stellare. La complessità dei siti di Carnac e Stonehenge, per dire soltanto i più famosi, ha sorpreso gli stessi archeologi i quali in un primo momento li hanno definiti laboratori sperimentali di osservazione del movimento celeste. Poi, le figure incise sulle pietre e ulteriori rinvenimenti hanno fatto intuire come si trattasse anche di altro: non soltanto quei giganti di pietra sono stati trascinati per tortuosi e faticosi tragitti non si sa bene in che modo; non soltanto sono stati elevati – e nemmeno in questo caso si conoscono esattamente le modalità – nei punti esatti ove dovevano essere sistemati (anche qualche centinaio di metri di differenza avrebbe significato rendere nulle le molteplici esplorazioni possibili), ma si è addivenuti a risultati ancora più incredibili e inconcepibili per l’attuale forma mentis di valutare rozzo l’uomo primitivo. Infatti, quando alcuni ricercatori hanno tracciato delle linee (leys) su una mappa topografica militare in scala 1:50.000, sono emersi vari e perfetti triangoli equilateri dai quali, prolungando ancora le direttive, si collegano i vari centri megalitici conosciuti tanto da far saltar fuori addirittura intricate ragnatele al cui interno ogni filamento porta razionalmente ad altro e ogni filo conduce irrazionalmente a una particolare forma di magnetismo. Ancora nel XII secolo, cantando di Stonehenge, in una ballata un cronista anonimo ne rammentava le capacità taumaturgiche:

    Le pietre sono grandi

    e han magico potere.

    Gli uomini ammalati

    a quella pietra vanno;

    e bagnan quella pietra

    e lavano il loro male⁸.

    Tralasciando ogni altra osservazione sui fenomeni correlati testimoniati fin dall’antichità – ma che alla maggior parte può sembrare per lo meno discutibile – ci piace ricordare che ha suscitato grande meraviglia intravedere e poi scoprire che tra i boschi, le colline, la brughiera e i campi a Sud di Glastonbury è inequivocabilmente tracciato lo zodiaco, minuziosamente riprodotto e in scala su quello celeste. E forse ancor di più che queste leys a un certo punto precipitano assieme alle scogliere e s’inabissano, attraversano lo stretto della Manica da St. Michael’s Mount in Cornovaglia e riaffiorano a Mont Saint-Michel in bassa Normandia arrivando in continente, dove continuano a disegnare misteriosi schemi.

    Il calendario, nato come vademecum per identificare i tempi sacri dell’universo, quindi, soltanto in seguito divenne un almanacco di appunti e consultazioni: all’origine non rappresentava il tentativo di dare risposte adeguate alla necessità di stabilire i giorni di semina e di raccolto – in quanto il mondo contadino ha nel proprio DNA tale conoscenza – o una formula concepita per stabilire quali fossero i termini di retribuzione per il lavoro effettuato, oppure quelli entro i quali si dovevano pagare le tasse, quanto piuttosto la percezione della relazione con la divinità di turno che rispecchiava una sensibilità interiore secondo la concezione che la Terra e il Cielo sono uno: macro e microcosmo sono legati fra loro tramite un unico filo d’oro. Tra le varie sintesi di questo modo di sentire, espresso già distintamente dalla concezione arcaica e dalla Tavola Smaragdina, nel bel mentre l’Europa si arroventava a causa dei roghi contro gli eretici e le streghe, c’è quella di un eccentrico e a suo modo geniale personaggio, Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelso dagli amici e Lutherus medicorum dai nemici, che riprendeva⁹ idee assai più antiche e le rilanciava scrivendo, appunto, che il mondo è il macrocosmo e l’uomo il microcosmo, e gli elementi di tutto ciò che esiste nel primo esistono nel secondo. Tutte le influenze che derivano dal Sole, dai pianeti e dalle stelle, agiscono dunque invisibilmente sull’uomo. Questa analogia tra l’universo macroantropico e l’uomo microcosmico, lo vedremo, ricorre in tutte le fasi dell’anno.

    Il calendario moderno è costituito fondamentalmente da quattro elementi: i dodici mesi divisi in quattro stagioni; le date che scandiscono il ritmo quotidiano; le feste, suggerite o comandate; i nomi, i quali appartengono tutti a santi. Per quanto sia una materia che scotta a vista, sulla quale quasi mai nessuno – se non con lo scopo di una laude – vi ha scritto, nella nostra trattazione dovremo per forza parlare anche di questi ultimi. Il culto dei venerabili, intrinsecamente collegato a quello dei morti e a quello delle reliquie, non soltanto ha fondato l’ossatura stessa della Chiesa, ma ha dettato le leggi dell’onomastica e della toponomastica. Con piglio e determinazione, le pratiche della venerazione e dell’imposizione del nome hanno tratto le loro regole ferree direttamente dai martirologi e quindi dal calendario, che a essi si è ispirato. Le azioni liturgiche ecclesiastiche hanno lo scopo di santificare lo scorrere del tempo, di batterlo con il rintocco di una campana che convoca i fedeli alla comunione con Dio. L’intero annuario cattolico è un osanna. Non era da meno in epoche antecedenti, seppure con principi e motivazioni alquanto dissimili. Se è vero che il Cristianesimo pone i mattoni per edificare il tempo universale, il cattolicesimo aumenta la puntata e scommette inseguendo l’attuazione dell’universalizzazione del tempo.

    Non c’è storia più complessa e affascinante di quella del calendario. È più avvincente e ricca di qualsiasi romanzo. Innanzitutto rappresenta il massimo sforzo per il peggiore risultato. Il tempo non ha bisogno di chi lo domini¹⁰, avrebbero sentenziato i Latini: da un certo momento in poi, però, tutti i popoli hanno misurato la propria ragione e le proprie arti di scienza sfidando i cieli nel tentativo d’imbrigliare le stagioni e incasellarle in un manuale adatto a ogni esigenza. Ma il risultato è disastroso, il tempo liquido sfugge dalle mani e da ogni tentativo d’ingabbiamento, per cui l’esito è stato sempre un clamoroso fallimento. L’incostanza dei cicli astronomici, la variabilità e lo slittamento irregolare della precessione equinoziale non cedono alla cella stretta e irreggimentata che si vorrebbe. C’è sempre una scivolata, una mutazione o qualcos’altro che non è stato ben computato. Anche oggi, nel secondo decennio del XXI secolo della nuova era, siamo in grado di lanciare navicelle sul pianeta Giove e di compiere altre meraviglie conquistate con la tecnica, ma siamo inetti a formulare calcoli tali per risolvere questo enigma che ci insegue da sempre, o quasi: il calendario perfetto non esiste. Il tempo astronomico non coincide mai al cento per cento con quello civile e, malgrado i sofisticatissimi mezzi meccanici per l’elaborazione dati e l’intelligenza artificiale a disposizione, l’errore è alle porte e, quantunque minimo, più in là si dovrà provvedere a qualche altro accorgimento. Questo spiega le varie manovre correttive, le virate a babordo, i ritocchi, le riforme ecc. A molti sembrerà una bestemmia, ma gli unici calendari rispondenti al vero di lassù erano proprio quelli arcaici e proprio per il motivo che si adeguavano al tempo invece di affannarsi nello sforzo di imbavagliarlo (si pensi a quello romano arcaico, e a quello Veda della tradizione indiana). Le ore quantitativamente uguali di sessanta minuti, per dirne una, non erano conosciute poiché il giorno dal nascere al calare del Sole era diviso in dodici frazioni e la notte in quattro vigiliae, tutte di durata variabile secondo il periodo stagionale. Al tempo mobile corrispondeva una sua regolazione altrettanto mobile.

    A proposito di ore, ogni qual volta si è cercato di cambiare l’approccio alla regolamentazione del tempo o di trasformarne le coordinate, ci sono state sempre ricadute o scompensi tradotti via via nella cancellazione radicale di date, proteste, rivolte o sovrapposizioni di costumi: anziché abbandonarle, gli uomini si sono portati dietro alcune usanze precedenti. Una eco la ritroviamo nel modo di dire pervenuto fino a noi, e per taluni ormai incomprensibile, il cappello sulle ventitré. La testimonianza la rintracciamo ancora sui vecchi campanili dove di frequente sono raffigurate due meridiane affiancate, una a 12 e l’altra a 24 ore. Nonostante il passaggio obbligato alle ore italiane, per lungo tempo si continuò a far partire il giorno dal tramonto precedente o dalla mezz’ora successiva al crepuscolo che coincideva con il richiamo della campana all’Avemaria serale. La ventitreesima ora corrisponde a quella appena prima del vespro, quando i raggi quasi paralleli del Sole abbagliano ed era necessario coprirsi gli occhi con la tesa del cappello.

    Ci fu un’epoca in cui tutto era consapevolmente correlato in una sorta, come direbbero oggi i fisici quantistici, di entanglement. Anche i mestieri riprodussero le cosmogonie – per accedervi era necessario essere iniziati ai loro segreti (la tessitura, per esempio, la fusione dei metalli, l’arte muratoria) – e i giochi non furono da meno, sia quelli pubblici che quelli privati (dadi, scacchi, aliossi, domino) con i quali la vita e la vittoria erano contese su tavole che simulano l’universo. Le fondazioni delle città furono determinate da ispirazioni divine e dalla geometria sacra perché fossero funzionali ai fini contemplativi, cultuali e stellari. L’Augure romano, impugnato il lituo – la verga sacerdotale con il manico ricurvo a spirale dalla quale ha tratto ispirazione il pastorale dei vescovi – ripartiva la Terra e il Cielo in regioni, osservava i segni, li interpretava riconoscendone le qualità e quella fetta di microcosmo diventava un tempio o un centro abitato, ovvero la rappresentazione della mappa celeste sulla superficie terrestre. I Romani e i Greci, quando passeggiavano per le strade urbane, sapevano che incamminandosi per il cardo stavano percorrendo l’asse solare e che, mentre procedevano invece per il decumano, seguivano il corso dell’astro luminoso che aveva tracciato la via. Oggi non sappiamo mai dove siamo, ci confondiamo talvolta tra immensi palazzi cresciuti alla rinfusa e facciamo affidamento a navigatori satellitari per orientarci in quanto, oltre a tutto il resto, abbiamo perduto pure la bussola. Ancora in alcuni centri storici di quelle che furono polis pitagoriche si possono riconoscere gli impianti cultuali sui quali si sono innalzati templi e successivamente disegnate strade, edificati terme e mercati fino alla costituzione della città come la conosciamo. Una volta erano città/zodiaco, città viventi, città oroscopo, centimetro per centimetro città sacre unite da una corda spirituale che collegava il centro del mondo terreno all’universo, il microcosmo al macrocosmo. In epoca contemporanea, troppo spesso – se non altro da questo punto di vista – sono città morte.

    La saggezza antica amava ripetere che il tempo è nel mezzo dei quattro punti cardinali, oppure – questo lo dicevano gli Egizi – corrisponde alla distanza tra la semina e il raccolto. Oltre a esserne il metronomo, comunque la si voglia mettere, il calendario è una trasposizione del tempo, con due gnomoni e due mediani – quelli che indichiamo come i pilastri dell’anno – segna i limiti di un percorso autoconclusivo e autogenerante. L’almanacco s’inoltra nei mesi freddi, si apre un varco nel tepore della Primavera, tocca il solleone che poi inizia ad affievolirsi fino a tornare sempre a un punto tra morte e rinascita, e ciò al di là delle varie teorie fra ciclico e lineare che con i millenni si sono mescolate generando babele e incoerenze perfino sulle linee di principio. Uno sfasamento di ordine ideologico, al limite dell’incongruenza, lo si può identificare nel ritmo liturgico del calendario cristiano che è basato sull’idea del continuo fluire da un inizio a una fine: commemora alcune tappe consecutive e progressive che pretende storicizzate e che vanno da una nascita a una morte; successivamente ricorda una resurrezione divina – che non riguarda tuttavia gli uomini – mentre il ciclo, con una nuova nascita, inizia a ripetersi molti mesi dopo – senza però che vi sia una nuova morte – a Natale.

    Il tempo muore e poi nasce, si riproduce dalle sue stesse ceneri. Così è per l’uomo sincronico che interagisce conformemente a ciò che gli è intorno, l’organismo vivente che gli orfici chiamavano il corpo di Zeus. La rigenerazione del corso del tempo può avvenire unicamente se c’è reale – intima – corrispondenza e collaborazione fra l’ordine cosmico e, sub specie interioritatis, l’ordine umano, cioè un euritmico allineamento dinamico tra simil nature. Il calendario, infatti, non vi è dubbio che al principio fosse un codice rituale in quanto prima di ogni altra congettura rappresentava il tentativo degli uomini di individuare i punti di collegamento tra i fenomeni celesti e la loro risonanza nell’esperienza animica. Le tappe cosmiche coincidono analogicamente con quelle interiori, la misura dell’uni-verso in eterno e ciclico movimento è la medesima di quella spirituale. Purché lo si avverta, cioè a patto che gli eventi astronomici e il loro significato simbolico – più che la loro fissazione scientifica, che è sempre variabile – non restino confinati in un altro mondo bensì vengano calati nella realtà quotidiana con tutta la sacralità che li contraddistingue.

    Com-prendere le radici del calendario equivale a inoltrarsi in un labirinto cosmico e analogico e scorgere, forse, un bandolo della matassa. La qual cosa vorrebbe anche dire recuperare un equilibrio e una armonia, ritrovarsi in sincronia con il mutamento del tempo e intra-prendere un excursus nei misteri non sempre così insondabili dell’anima.

    Buon viaggio.

    Nel dì del Solstizio d’Inverno

    Ai viaggiatori dell’anima

    che cercano le radici

    con gli occhi puntati nel Sole.

    Capitolo 1 - Il calendario, i santi, la festa, il segno di ourobòros  e l’eterno ritorno

    Tutti gli altri esseri viventi,

    e perfino la materia inanimata,

    si orientano in base all’orologio cosmico.

    Non dobbiamo però dimenticare che esso indica il tempo

    in virtù della rotazione del quadrante.

    La terra trasforma in misura del tempo ciò che,

    se noi ce ne staccassimo, altro

    non sarebbe che spazio e rifrazione inalterabile,

    luce mortale.

    Come un grande mulino cosmico

    essa macina per noi la ricchezza dell’universo.

    Ernst Jünger

    ¹¹

    Siamo tutti figli di un Martirologio?

    Ha importanza che un anno sia diviso in 365 giorni, i dodici mesi in 52 settimane e le settimane in sette parti uguali? E che le ore che compongono un’intera giornata siano 23, i minuti 56 e i secondi esattamente 4,1?

    Ne avrebbe, certamente, se parlassimo di astronomia, delle scienze che osservano i ritmi circadiani della nostra vita e del calendario dal punto di vista della matematica o dell’astrofisica. A questo punto, però, dovremmo chiarire – tra le oscillazioni dell’asse di rotazione e il lento moto di precessione – che cosa sia un anno tropico¹² e per quale motivo risulti più lungo di 5 ore e 41 minuti di quello che conosciamo; ma anche aggiungere che, effettivamente, la durata astronomica di un anno è stata calcolata in 365,24220 giorni, con uno scarto rispetto a quello civile considerato irrisorio in tempi brevi, ma che non lo è affatto a lunga gittata; oppure precisare che solo per convenzione – con un supplemento di tre minuti e 55,9 secondi – un giorno è ordinato in 24 ore, e nondimeno risulteremmo lacunosi e in difetto giacché in alcuni paesi s’intende farlo iniziare al tramonto e in altri un attimo dopo la mezzanotte e, per di più, in certe zone del mondo si utilizza il sistema a 24 e in altre a 12 ore. Infine, dovremmo inoltrarci in una complessa discussione sulla concezione solare, lunare e lunisolare del computo del tempo rischiando di perderci in un labirinto di spiegazioni in costante movimento (parlando di tempo, non poteva essere che così: tempus fugit¹³), controverse e spesso incomprensibili per chi è al di fuori delle cerchie elitarie degli addetti ai lavori. Quindi, fin dal principio vale la pena rammentare e dare per assunto che, dopo una serie di riforme ed esperienze con altri metodi di calcolo, in Occidente si è adottato il calendario gregoriano. Per radicarci su un piano reale ed essere sulla stessa lunghezza d’onda di chi ci legge, faremo riferimento per l’appunto a questo.

    "Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostrorum praeceptorum... A nessuno sia lecito trasgredire questa pagina contenente i nostri precetti, comandi, ordini, volontà, approvazione, proibizione, esortazione e richieste, né osi opporvisi. E se qualcuno presumesse di provarci, sappia che incorrerà nell’ira dell’Onnipotente e dei santi apostoli Pietro e Paolo"¹⁴: minacciando tuoni, saette e la vendetta divina, a perpetua memoria e con queste testuali parole, il 24 febbraio 1582 il pontefice Gregorio XIII promulgò mediante affissione alle porte della basilica di San Pietro e a Campo de’ Fiori – proprio ove appena pochi anni più tardi sarebbe stato messo al rogo Giordano Bruno – la bolla papale Inter gravissimas con la quale veniva modificato il calendario giuliano in vigore fino a quel momento. Con il nuovo computo si cercò d’inseguire i giorni perduti e di riparare a tutti i difetti del calendario che possono essere corretti con un rapporto costante valido per tutti i secoli in modo che non sia soggetto a nessun altro cambiamento nel futuro¹⁵, come si legge nello stesso decreto.

    Sette anni prima, il complesso studio era stato affidato direttamente dal pontefice a una commissione di esperti composta da nove membri¹⁶, tre dei quali erano astronomi di fama. Il collegio copriva tutte le discipline ritenute indispensabili per portare a termine il delicato compito di mettere le mani sul tempo degli uomini e su quello di Dio: la sapienza degli astri e la matematica, la liturgia, la storia umana e quella ecclesiastica, la materia giuridica (per gli aspetti legali e le ricadute sul piano civile) e addirittura la dottrina arabica perché confrontasse la conoscenza islamica della volta celeste che avrebbe potuto apportare contributi interessanti e fors’anche risolutivi agli intricati dilemmi del riassetto dell’anno. I consulenti erano tutti espressione vaticana meno uno, e fu proprio quest’ultimo, un laico, a trovare il cosiddetto numero d’oro e a risolvere la questione sulla quale molti altri scienziati avevano girato invano per secoli. Ci aveva già lavorato autonomamente per un lungo periodo ma, morendo anzitempo nel 1576 per una malattia al pancreas, fu il fratello Antonio a sostituirlo e a

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