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Il Cristianesimo celtico: E le sue sopravvivenze popolari
Il Cristianesimo celtico: E le sue sopravvivenze popolari
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Il Cristianesimo celtico: E le sue sopravvivenze popolari

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Come fu possibile la cristianizzazione dei Celti? Cos'è stato dell'antica religione druidica? Perché l'Irlanda, mai romanizzata, accettò di buon grado la nuova religione? La morte e la resurrezione del Cristo, afferma Jean Markale, non fecero che confermare la ricerca pagana dell'Altro Mondo, e il druidismo accettò quello che a quell'epoca era solo il messaggio evangelico. Grazie a una vera e propria fusione, soprattutto nella Bretagna armoricana, nell'Isola di Bretagna e in Irlanda, scaturì il cristianesimo celtico, con le sue diocesi abbaziali, il suo monachesimo, i suoi santi eroici, il pelagianesimo, i vescovi itineranti, i pellegrinaggi pro amore Dei, l'integrazione delle donne nel culto, il digiuno contro Dio... Oltre a tanti altri elementi, la pratica della confessione e la concezione del Purgatorio provengono dai Celti: nell'Alto Medioevo l'Irlanda non fu forse il fermento spirituale necessario alla nuova cristianizzazione del continente? Ai nostri giorni, nelle campagne, soprattutto nella Bretagna armoricana, Jean Markale ha scoperto le sopravvivenze popolari di questo cristianesimo, sia nel calendario sia nel culto dei santi e nei santuari. Combattuto dalla Chiesa romana per le sue tendenze libertarie, il cristianesimo celtico conoscerà diverse forme di evoluzione che segneranno profondamente il mondo cristiano nel suo complesso.
Uno dei testi di riferimento sul cristianesimo celtico, citato in numerosi studi sull'argomento. Il frutto di un'attenta ricerca sul campo e di un'analisi minuziosa delle fonti storiche e letterarie.
LanguageItaliano
Release dateDec 4, 2014
ISBN9788864830285
Il Cristianesimo celtico: E le sue sopravvivenze popolari
Author

Jean Markale

Jean Markale (1928-2008), al secolo Jean Bertrand, ha pubblicato numerosi libri riguardanti la civiltà celtica, dedicati in particolare al ruolo delle donne nella cultura celtica e alla letteratura arturiana. Nelle sue opere ha affrontato argomenti come i Templari, i Catari, l'enigma di Rennes le Chateau, Atlantide, la civiltà megalitica, il druidismo e la biografia di Santa Colomba. Le Edizioni Mediterranee hanno pubblicato "Il druidismo, religione e divinità dei Celti" e Arkeios Edizioni, "Prodigi e segreti del Medioevo".

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    Il Cristianesimo celtico - Jean Markale

    COPERTINA

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    Il Cristianesimo celtico

    e le sue sopravvivenze popolari

    Jean Markale

    Introduzione di Gianfranco de Turris

    Traduzione di Pasquale Faccia

    COLLANA

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    Copyright

    Titolo originale dell’opera:

    LE CHRISTIANISME CELTIQUE ET SES SURVIVANCES POPULAIRES

    © 1986 Editions Imago, Paris

    Tutti i diritti riservati

    © 2014 by EDIZIONI ARKEIOS Srl

    Via Flaminia, 109 - 00196 ROMA - tel. 063235433 - fax 063236277

    Printed in Italy o CSR - Via di Pietralata, 157 - 00158 Roma

    ISBN 978-88-6483-028-5

    Prima edizione digitale 2014

    © Copyright 2014 by EDIZIONI ARKEIOS Srl

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

    INTRODUZIONE

    Da molti anni ormai la civiltà dei Celti non è più tema per soli specialisti, ma un argomento quasi di attualità, dal momento in cui essa è stata presa come simbolo di indipendenza localistica da parte di movimenti politici, o anche solo d’opinione, in Francia e in Italia. Con ciò facendo un salto nel passato di oltre duemila anni e dimenticando quel che recenti indagini etnografiche e di storia comparata delle religioni hanno acclarato: esiste una stessa origine indoeuropea che accomuna, ad esempio, Celti e Greci su vari piani come hanno dimostrato i documentatissimi studi di Bernard Sergent, allievo di Georges Dumézil, il cui primo è stato tradotto anche in Italia: Celti e greci. Il libro degli eroi (Edizioni Mediterranee, Roma, 2005). In ogni modo, questa situazione ha portato fuori dall’oblio una civiltà degna di enorme attenzione.

    Uno degli autori contemporanei di questo revival celtico è stato, come è noto, Jean Markale (pseudonimo di Jean Bertrand, 1928-2008) che, con la sua sterminata produzione, si presenta, pur con alcuni limiti metodologici e ideologici, quale principale divulgatore e difensore dei Celti e del celtismo soprattutto nei confronti di Roma e della romanità, giungendo spesso a livelli d’invettiva e faziosità, ritenendo gli aspetti peculiari della mentalità, religione, stile di vita e di governo dei Celti intrinsecamente superiori a quelli dei loro conquistatori. Ovviamente un’opinione, anche se fortemente sostenuta, che là dove non esagera ha prodotto libri di grande interesse nella sua sterminata produzione in cui esprime una cultura enciclopedica.

    Il limite di Markale è stato quello di aver dimenticato non solo le origini comuni dei popoli europei evidenziate da Sergent, ma anche che se l’Europa ha una sua cultura unificante questa è dovuta, appunto, all’opera di Roma e se i popoli romanizzati, a cominciare proprio dai Celti, poterono sostenere l’urto delle invasioni barbariche provenienti dall’Est a partire dal quarto secolo, non facendosi del tutto travolgere e assorbire, ciò è merito di Roma, come dimostra, fra l’altro, l’epopea simil-leggendaria di Artù (cioè, delle popolazioni celtiche romanizzate della Britannia insulare), di cui peraltro lo stesso Markale si è ampiamente occupato pur se con interpretazioni molto sui generis. Principale merito di Markale è stato quello di salvare una memoria che correva il rischio di essere dimenticata soprattutto attraverso le sue molte antologie di leggende, favole, storie tradizionali e miti celtici.

    Tra le sue innumerevoli opere – che spaziano dalla storia al folklore, dalla narrativa all’etnologia, dalla storia delle religioni alla sociologia culturale – questa è dedicata agli aspetti veramente particolari che il Cristianesimo assunse nel variegato mondo celtico (Irlanda, isole britanniche, Gallia), a come avvenne e perché la conversione dei Celti, che forme assunse, quale il suo retaggio sino ai nostri giorni. Il risultato è un’opera al contempo di storia, di storia delle religioni, di antropologia, di folklore, come sempre ben scritta e molto documentata.

    Ecco in sintesi, con le parole di Markale, le caratteristiche uniche del Cristianesimo come si è sviluppato nei Paesi celtici dove è stato una cosa diversa, anche se non propriamente eretica, rispetto al Cristianesimo di altri popoli europei convertiti alla nuova religione:

    La fede in Dio passa attraverso la fede nell’uomo: il pelagianesimo ne è un’emozionante testimonianza, anche se non è stato sempre compreso, anche se è stato combattuto. La salvezza in Cristo passa attraverso la salvezza individuale, e questa salvezza individuale non può essere realizzata che grazie alla potenza della volontà umana: da qui l’eroismo dei santi celti che non fa che prolungare l’eroismo dei personaggi della mitologia pagana [...]. Allora, fu eretico il Cristianesimo celtico? Se bisogna dar credito agli storici certamente no. Ma se si prende il pelagianesimo come punto di riferimento il problema è tutt’altro che risolto [...]. Non vi fu mai una dottrina celtica in seno alla Chiesa dei Paesi celtici. Non c’è mai stata affatto una dottrina. Di conseguenza non si può parlare di eresia. Ma vi sono delle tendenze. Il pelagianesimo ne evidenzia una, e di spessore, quella del libero arbitrio assoluto. L’eroismo dei santi ne rivela un’altra, altrettanto importante: non si può raggiungere la salvezza che attraverso un’ascesi eroica. Il culto dei santi ne propone una terza: bisogna basarsi su esempi umani per raggiungere il divino. E se Gesù è resuscitato, assicurando il trionfo dell’umano sulle potenze delle tenebre, è possibile a ogni essere umano fare lo stesso.

    Per raggiungere queste conclusioni l’autore esamina la questione sotto i vari punti di vista sopra elencati, spiegando cosa c’era di simile tra celtismo e Cristianesimo (le uniche due sette che resistettero a Roma e non furono del tutto assimilate) e che permise una abbastanza rapida conversione dei Celti anche in Irlanda, isola che non fu mai sotto il dominio di Roma, e cosa invece li divideva.

    Markale, come si è intuito dalle sue stesse parole, si sofferma soprattutto su Pelagio che nel quinto secolo diffuse, prima assolto e poi condannato, la sua particolare visione del Cristianesimo, tanto che il pelagianesimo venne considerato la religione della Bretagna: Pelagio riteneva il peccato originale colpa del solo Adamo e non trasmissibile agli altri uomini, poiché gli uomini sono liberi di scegliere e la responsabilità è individuale; per il battesimo quindi si deve attendere l’età adulta; non si accetta la Grazia; Dio è Bene e Male contemporaneamente (i Celti non sono dualisti); Dio è in sostanza indifferente alla sorte degli uomini. Insomma, Pelagio tentò una vera fusione tra celtismo e Cristianesimo.

    La differenza di fondo fra Cristianesimo romano e Cristianesimo celtico sta per Markale in un aspetto singolare. Il primo è sottomesso alla Grazia di Dio; nel secondo l’essere umano è libero dal giogo di Dio grazie alla propria volontà e poiché l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio può lottare vittoriosamente contro di lui. Esempio tipico è il famoso san Patrizio, che convertì gli Irlandesi (tra parentesi, Markale non sapeva che una simile tesi è esposta da Evola nella sua interpretazione dell’alchimia ne La Tradizione ermetica!).

    L’opera esamina dunque com’è proceduta la cristianizzazione dei vari Paesi celtici; quali le divergenze fondamentali e quali le componenti celtiche di questi convertiti; quali le originalità (sopra accennate) di questo particolare Cristianesimo. Infine, attraverso una lunga serie di storie tradizionali, leggende, vicende di monasteri e santuari, tradizioni narrative come il famoso Viaggio di san Brandano e così via, certi aspetti lontani millecinquecento anni sono sopravvissuti sin ai nostri giorni in Irlanda, Inghilterra, Bretagna.

    Il testo è ricchissimo d’informazioni altrove non rintracciabili, e anche se il punto di vista è filo-celta non ci sono esagerazioni estremiste, a parte la questione del Sole-femminile e Luna-maschile secondo Celti, Germani ed Ebrei che secondo Markale è la visione giusta del problema; e la polemica contro Mircea Eliade il quale ha sostenuto che il culto dei santi è diverso dal culto degli eroi, mentre fra i Celti i santi sono eroi. Ma ovviamente il livello fra i due è tale da fare la differenza.

    Gianfranco de Turris

    CAPITOLO 1 - La cristianizzazione dei Celti

    Prima di un qualsiasi studio in profondità del Cristianesimo così come fu vissuto dai popoli celtici, e delle notevoli peculiarità che esso presenta presso tali popoli, è importante sapere con esattezza come siano stati cristianizzati i Celti, e da chi. A dire il vero, il Cristianesimo, soprattutto nei primi secoli della nostra era, è unicamente un messaggio, e non costituisce ancora una Chiesa universale dotata di una dottrina vincolante. Questo messaggio è stato vissuto in molti modi diversi secondo le differenti motivazioni e convinzioni; è stato però anche tramandato, e resta da accertare in quali condizioni ciò sia avvenuto.

    Occorre subito rimuovere un’ipoteca che grava su qualsiasi tentativo d’interpretazione del Cristianesimo celtico: quella dell’origine greca, così spesso affermata, e che ha il merito di spiegare alcune somiglianze tra il Cristianesimo celtico e quello orientale. È vero, le somiglianze sono reali, ma riguardano elementi del tutto secondari, come il ciclo pasquale, la famosa tonsura dei monaci e una certa forma di eremitismo. Del resto vedremo come l’eremitismo celtico sia di natura diversa rispetto a quello orientale, anche se Orientali e Celti furono i primi a praticarlo, assai prima dei cristiani cosiddetti romani. È comunque essenziale sgomberare il campo da certe illusioni.

    Di fatto, con il pretesto dell’esistenza in Asia Minore di un regno dei Galati, si è giunti a ipotizzare una sorta di ponte tra i Galati dell’Asia Minore e i Galli d’Occidente. I Galati sono certamente Celti. Sono discendenti di quei Galli che nel secondo secolo prima della nostra era, sotto la guida del misterioso Brenno, cercarono d’impadronirsi di Delfi¹, per poi disperdersi in varie direzioni, Asia compresa. I Galati, il cui nome è assolutamente identico a quello dei Galli², costituirono un’entità politica e militare al servizio dei re di Macedonia, e sulla base di numerose testimonianze – tra cui quella di san Girolamo – sappiamo che essi conservarono l’uso di un idioma celtico, paragonabile a quello dei dintorni di Treviri (nel territorio dei Trevires, popolo gallico ben conosciuto durante la Guerra Gallica, sulla riva sinistra del Reno). Come è attestato dalle lettere di san Paolo i Galli furono rapidamente cristianizzati, ma nulla autorizza a pensare che esistessero dei rapporti privilegiati con i loro antichi compatrioti rimasti in Gallia. Infine, occorre respingere senza alcuna ombra di dubbio la tesi inaudita secondo la quale Gesù (un biondo dagli occhi azzurri) non sarebbe stato ebreo ma galileo, ovvero gallo. La Kabbala fonetica esiste, ma obbedisce a regole rigorose, la più importante delle quali è il rispetto delle forme onomastiche antiche. E questa tesi, che risente di un antisemitismo degno di disprezzo, è insostenibile nel quadro specifico in cui si manifesta il personaggio del Cristo, figlio di Davide, erede, tra l’altro, di un lungo lignaggio biblico.

    Per contro, ciò che non viene mai detto è che nei primi tempi la diffusione del messaggio cristico fuori dalla Palestina si compì per il tramite della lingua greca. E ciò non ha nulla di sorprendente, giacché la lingua greca aveva un ruolo ufficiale nell’ambito dell’Impero romano, costituendo la lingua di tutti i domini orientali. Ciò viene dimenticato, così come ci si dimentica che i testi cristiani più antichi sono in versione greca. La Vulgata, che invece è il testo di riferimento della Chiesa romana ufficiale, è in realtà una traduzione difettosa effettuata in latino da un originale greco, a sua volta tradotto molto spesso dall’aramaico³. È dunque una cultura greca, o almeno ellenistica che s’infiltrava insieme al Cristianesimo. Ed è in lingua greca che nella stessa Roma i primi cristiani hanno comunicato quel messaggio⁴.

    È normale, quindi, considerare la cristianizzazione della Gallia operata da missionari di cultura o di lingua greca, senza per questo vedervi il segno di una specificità orientale. Secondo Cesare, i Galli, che rifiutavano la scrittura, utilizzavano i caratteri greci quando erano costretti a ricorrere a essa nelle loro relazioni commerciali o politiche con altri popoli. Ma ciò accadeva ai tempi dell’indipendenza. Da allora la lingua latina aveva fatto progressi in Gallia, soprattutto nelle città, ma è evidente che se consideriamo il ruolo delle scuole romane, come quella di Autun, i centri di cultura di quelle città erano greco-romani: il greco dovette essere parlato in concorrenza con il latino dall’élite intellettuale delle città romanizzate. Del resto, il nome del primo vescovo gallo, quello di Lione, Ireneo, è rivelatore. Di fatto è un nome greco che significa vittoria (propriamente pace, N.d.T.). E com’è noto, Lione, capitale dei Galli, centro politico e religioso a partire da Augusto, fu il nodo tanto della romanizzazione della Gallia celtica quanto della lenta cristianizzazione operata dall’inizio del secondo secolo della nostra era in poi.

    Occorrerebbe anche sapere su quale strato socio-religioso si sia sviluppato il fermento cristiano. Non dimentichiamoci che in origine il Cristianesimo fu solo una setta tra le molte di origine orientale che lo Stato romano ammise senz’altro nel nome del pluralismo, a condizione che ciò non nuocesse al culto patriottico, vale a dire al culto di Roma e dell’imperatore. A essere precisi le cose andranno male per due di queste sette: il druidismo, poiché la sua filosofia libertaria e refrattaria all’idea di Stato era in contraddizione con l’ordine romano, e il Cristianesimo in quanto i suoi seguaci si rifiutarono di sacrificare agli dei dell’Impero, manifestando in tal modo la loro separazione dalla comunità. Ai druidi venne proibito l’insegnamento, e furono quindi condannati al silenzio. I cristiani furono mandati alle belve dell’arena per insubordinazione. In definitiva, gli uni e gli altri furono perseguitati. E si sono parimenti ritrovati nella clandestinità, il che non è privo d’importanza per capire la formazione dei tratti peculiari del Cristianesimo celtico.

    Ai suoi esordi, tuttavia, è difficile credere che, almeno per quanto riguarda la Gallia, il Cristianesimo si sia innestato sul druidismo, operando con esso una sorta di fusione. Il Cristianesimo riguardò unicamente le città, e quindi una popolazione deceltizzata, presso la quale il druidismo non era altro che un ricordo del passato. E vedremo come la situazione sarà del tutto diversa in Gran Bretagna e in Irlanda, innanzitutto perché non vi erano città, e poi in quanto le popolazioni di quelle terre avevano conservato la loro identità celtica. In Gallia solo nelle campagne si parlava ancora la lingua gallica e si era in grado di comprendere le parole degli ultimi druidi rifugiatisi nelle foreste o sui monti; non è un caso se gli abitanti di quelle campagne, di quei paesi, i pagani, siano stati ben presto considerati dei pagani nell’attuale accezione del termine. I pagani, in effetti, cominciarono a essere pagani nei confronti della religione romana prima di esserlo nei confronti del Cristianesimo. È quindi essenziale capire che il Cristianesimo si diffuse in Gallia a partire dalle città e secondo un processo gerarchizzato di natura centrifuga. La conseguenza viene da sé: il Cristianesimo rimpiazzò gradualmente la religione romana ufficiale (in verità, più un culto politico che una religione), le diverse sette di origine orientale, i culti misterici – che avevano preparato il terreno ponendo il problema dell’immortalità dell’anima – e soprattutto il mitraismo che aveva letteralmente invaso l’Impero e che in alcuni momenti si rivelerà un temibile rivale del messaggio cristico.

    In tali condizioni, sarebbe ben strano non rilevare influenze elleniche nella religione cristiana dei primi secoli. La Chiesa di Pietro, quella di Roma, non era ancora la maestra di tutte le comunità cristiane, e lei stessa subiva tali influenze. E se più tardi un dogma avrà la sua nascita a Roma, e insieme a esso un’autorità centralista, ulteriormente rafforzata dalla scomparsa politica dell’Impero e del sostegno delle sue strutture amministrative, quel dogma e quell’autorità saranno apprezzati e vissuti in modo diverso secondo le regioni. In ogni caso, quella che si chiamerà Chiesa celtica, a essere precisi unicamente insulare (Gran Bretagna e Irlanda), sfuggirà per diversi secoli alla normalizzazione intrapresa da Roma. Ciò spiega perché alcune caratteristiche di origine greca vi siano rimaste attive mentre erano scomparse dalla Chiesa romana ufficiale.

    Ciò detto, la fede cristiana sommerse lentamente l’antico dominio dei Galli, divenuti cittadini romani, a partire da Lione, tessendo intorno a questa metropoli una vera e propria rete gerarchizzata nella quale città come Sens, Bourges e Tours assunsero una posizione preponderante, operando la fusione del loro ruolo amministrativo con quello religioso. Avendo tessuto intorno a loro una nuova rete, queste metropoli inglobarono altre città, di minore importanza: da questo processo derivano le diocesi che sono rimaste tali fino alla Rivoluzione, e che sono tuttora riconoscibili sulla cartina della Francia nonostante i raggruppamenti del Concordato del 1802.

    Non bisogna tuttavia ignorare che il cammino della fede cristiana fu molto lento, e che dipese prevalentemente dallo zelo dei suoi propagatori. Dall’inizio fino alla presa di Roma da parte di Alarico nel 410, sembra che i cristiani siano stati reclutati presso gli intellettuali e tra le classi medie. Forse per motivi politici o patriottici, l’aristocrazia imperiale era rimasta ferocemente fedele agli ancestrali culti romani. Quanto al popolo, vale a dire le classi povere, i liberti non integrati e gli schiavi, è quasi sicuro che praticassero una forma sincretistica di religione che mutuava elementi tanto dai culti orientali quanto dal druidismo e dalla tradizione romana. L’arrivo di coloro che furono chiamati Barbari (nel senso stretto di stranieri rispetto al mondo greco-romano) causò un certo cambiamento della situazione. Costoro, di fatto, erano vergini, nel senso che sfuggivano al sacrosanto obbligo di sacrificare al culto di Roma e dell’imperatore. La loro mentalità barbara, inoltre, si trovava a suo agio più nella fede cristiana che nello spirito romano, troppo razionalista e storicista. La prova consiste nel fatto che molti Goti si convertirono all’arianesimo che, pur essendo un’eresia riprovata ufficialmente dai vescovi ortodossi, non era per questo meno appartenente al Cristianesimo. In ogni caso, nel 476, anno della deposizione di Romolo Augusto, considerato come la fine ufficiale dell’Impero romano, i cristiani erano ancora ben lontani dal sommergere l’Europa occidentale.

    D’altronde, dovremmo interrogarci sulla profondità delle conversioni, come pure sul valore che questi cristiani assegnavano alla loro fede. Si è sempre troppo influenzati dal martellamento pubblicitario operato dalla Chiesa nei secoli seguenti, che ha esaltato il valore di questo Cristianesimo primitivo nonché il coraggio e l’abnegazione dei poveri martiri. Diciamo subito che, come per il numero delle vittime dell’Inquisizione medievale, il numero dei martiri condannati alle bestie o al gladio dei legionari è stato fortemente esagerato dagli incensatori patentati dei santi dei primi tempi. Tutto ciò fa parte della legenda aurea destinata a entusiasmare le folle in un momento in cui i fedeli nell’affermare la loro fede non rischiavano più la vita. Neanche l’Editto di Milano del 313, che fece del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero, deve illudere più di tanto. Non siamo ancora ai tempi di Carlo Magno, che dopo aver sconfitto i Sassoni, li obbligò a farsi battezzare sotto pena di morte. Nel quarto secolo esisteva ancora la tolleranza, e fare del Cristianesimo una religione ufficiale non significava affatto che dall’oggi al domani tutti i cittadini romani avrebbero dovuto convertirsi, superficialmente o sinceramente. Le idee impiegano del tempo a penetrare le mentalità. E difatti abbiamo dei testi che indicano la fragilità della nuova religione cristiana.

    In fin dei conti, se prescindiamo dalle sette donatiste e novaziane, forma arcaica di un puritanesimo spinto all’estremo⁵, la Chiesa non fu eccessivamente rigida sul comportamento dei suoi fedeli. Per essere battezzati era sufficiente volerlo e aver ricevuto l’iniziazione della catechesi. Un po’ dappertutto si cominciarono a udire sulle pubbliche piazze dei missionari zelanti che predicavano con eloquenza, raccontando i miracoli di Gesù e mostrando delle reliquie alla venerazione delle folle. Si possono avere dubbi sull’autenticità di quelle reliquie, ma non si può dubitare sul fatto che quei missionari itineranti fossero i successori, o gli eredi, di coloro che due secoli prima avevano esaltato i meriti della Buona Dea e venduto amuleti di Iside o falli di garantita origine divina. Del resto, i – falsi – discepoli di Simon Mago non vendevano i sacramenti a quanti li chiedessero? È sempre rassicurante poter acquistare la felicità eterna con un po’ di denaro.

    Certamente numerosi editti imperiali avevano ristretto, e poi proibito l’esercizio pubblico dei culti pagani, ma cosa accadeva in realtà? Numerose testimonianze fanno pensare che tali culti sopravvissero nell’ombra. Inoltre, poiché ai neofiti si chiedeva solo di credere, senza alcun obbligo di ordine morale, in certi casi non era assolutamente possibile distinguere dal suo comportamento un individuo battezzato da uno che non lo fosse. Soddisfatti delle promesse offerte loro dalla nuova religione, rassicurati dalla possibilità di lavarsi da ogni peccato con un pentimento, anche tardivo, numerosi pagani da poco convertiti cercarono di conservare il loro precedente stile di vita. Non era raro trovare nelle assemblee ecclesiali ubriachi, prostitute e personaggi loschi⁶. Ciò non scandalizzava nessuno. Se ne fa eco sant’Agostino: Che prima di tutto siano battezzati. Poi, si insegnerà loro tutto quello che riguarda il comportamento e la morale⁷.

    Se la fragilità di questo Cristianesimo appare con chiarezza sul piano del comportamento quotidiano, essa diventa grave sul piano del rituale e su quello delle convinzioni profonde. I fedeli sono sempre emozionati dinanzi a ciò che non comprendono. Quanti nuovi cristiani non hanno fantasticato nel pronunziare parole magiche quali Alleluia, Osanna, Amen che si chiedeva loro di cantare in risposta a salmodie articolate in una lingua spesso oscura?... Dopo tutto, pronunziare formule magiche cristiane o pagane è la stessa cosa. Non sorprende constatare che a più riprese, ma soprattutto tra il 392 e il 394, vi siano stati tentativi di restaurazione dei culti antichi. E soprattutto, non bisogna dimenticare che quest’epoca di decadenza dell’Impero romano, minacciato tanto dall’esterno quanto dall’interno, è un periodo di turbamenti psicologici di inquietudine metafisica. Di fatto i cittadini del Basso Impero vivevano in un’escatologia permanente. E non fu il Cristianesimo a sistemare le cose, poiché i primi apostoli erano convinti del ritorno imminente del Cristo in un’apocalisse che cercarono di descrivere nei suoi dettagli più terrificanti.

    Questa decadenza fu vissuta dalla comunità cristiana allo stesso modo in cui la visse tutta la società. La causa principale del crollo dell’Impero romano fu tutta interna: a forza di accogliere elementi eterogenei in strutture che non erano pronte a riceverli, si andò verso uno smembramento, una confusione generale dei valori e dei comportamenti. Il Cristianesimo visse la sua prima grande crisi nel momento in cui aumentò il numero dei battezzati, e nella comunità primitiva, portatrice del messaggio cristico, furono integrate speculazioni e sistemi provenienti un po’ da ogni dove.

    È allora che prese forma una corrente, detta monastica, soprattutto in Gallia, le cui motivazioni possono essere riassunte così: distaccarsi, definire la fede, evangelizzare con l’esempio. Traendo esempio dall’eremitismo orientale, in particolare egiziano, alcuni cristiani di Gallia si ritirarono nel deserto, cioè, nel loro caso, nelle foreste. Ciò facendo, però non si accorsero di agire esattamente come gli antichi druidi. Questi ultimi, in effetti, pur partecipando alla vita pubblica dei popoli celtici non praticarono mai il loro culto al di fuori del nemeton, il recinto sacro nel cuore della foresta, punto ideale d’incontro tra il Cielo e la Terra. In fin dei conti, i primi monasteri cristiani in Gallia non fecero altro che riprendere a loro vantaggio il nemeton druidico.

    È in questa specifica dimensione che si spiega l’apostolato di san Martino di Tours. Martino non era un gallo. Egli nacque in Pannonia. All’età di dodici anni sognava di costruire un eremo per ritirarvisi, ma suo padre, veterano dell’esercito imperiale, lo costrinse a seguire la carriera militare. Martino, quindi, fu un soldato fino all’età di ventidue anni. Successivamente visse per un certo periodo di tempo come un recluso su un’isola del Mediterraneo, e lo si ritrova nel 360 a Ligugé, presso Poitiers, ove realizza il suo sogno: costruisce infatti un eremo che con ogni probabilità è il primo monastero stabilito in Gallia. Ma stando a quel che sappiamo, si tratta in realtà di un semi-eremitismo: Martino visse tanto nel suo eremo quanto nel mondo secolare, compiendo la sua missione di far conoscere il Vangelo sia con l’esempio che con la parola. In ogni caso, se alcuni discepoli si uniscono a lui, non vi sono regole nel monastero, che resta essenzialmente un’associazione libera e aperta, in qualche misura separata dal mondo.

    La reputazione di Martino cresce e oltrepassa i confini della regione di Poitiers. Nel 371, con un vero e proprio stratagemma, viene prelevato a forza e proclamato vescovo di Tours. Egli accetta il fatto compiuto, ma non rinuncia però ai suoi principi: fonda, non lontano da Tours, in una zona desolata, il monastero di Marmoutier, ove si pratica lo stesso semi-eremitismo di Ligugé. Ed è lì che morirà nel 397. Occorre sottolineare che Martino è allo stesso tempo vescovo e abate di un monastero. È anche una figura ai margini: la sua autorità non gli viene conferita da una gerarchia, ma dallo stesso popolo cristiano. Sono due elementi che ritroveremo in Gran Bretagna e in Irlanda, e che caratterizzano abbastanza bene il Cristianesimo celtico.

    L’esempio di san Martino si rivela efficace. La Gallia si ricopre di monasteri, e questi si accingono a rappresentare una nuova tappa nella storia del Cristianesimo. Ormai la tradizione è destinata a conservarsi grazie ai monaci che, allo stesso tempo, influiscono in modo inevitabile sulla formazione della dottrina. E tra questi monasteri, quello di Lérins, fondato da sant’Onorato, nobile gallo del Nord, morto vescovo di Arles nel 429, avrà un’influenza preponderante su tutto l’Occidente. Costituirà infatti un vivaio di santi: Ilario di Poitiers, Cesario d’Arles, Lupo di Troyes, Eucherio di Lione, senza dimenticare Massimo e Fausto di Riez con i quali si diffonderà, in modo latente, quella che è stata chiamata eresia pelagiana, un momento assai importante della discussione teologica delle origini, in quanto costituì indubbiamente il bivio tra druidismo e Cristianesimo.

    L’ISOLA DI BRETAGNA

    L’introduzione del Cristianesimo nell’isola di Bretagna, cioè l’attuale Gran Bretagna, si attuò in circostanze poco chiare e in date che è difficile precisare. Secondo Origene, la fede cristiana vi si sarebbe sviluppata a partire dal secondo secolo; ciò viene confermato da Pelagio, il quale, originario di quell’isola, affermò che la Britannia era molto attiva per tutto quello che riguardava i problemi intellettuali e religiosi. E Tertulliano, all’inizio del terzo secolo, fa allusione a regioni dell’isola inaccessibili ai Romani, ma accessibili al Cristo⁸, indicando con ciò verosimilmente il territorio settentrionale dei Pitti, nell’attuale Scozia. Ciò corrisponde alle affermazioni del sassone Beda circa la missione di san Niniano, evangelizzatore dei Pitti meridionali, in un territorio mai conquistato dai Romani, al di là del Vallo Antonino (tra Glasgow ed Edimburgo). Secondo Beda, il Cristianesimo si sarebbe inizialmente sviluppato nelle regioni meno romanizzate come il Galles, o in quelle che i Romani non avevano conquistato⁹, cosa che a prima vista potrebbe sembrare sorprendente.

    Saremmo, infatti, tentati di credere che i missionari cristiani, formati nelle scuole romane, abbiano seguito le legioni nella loro marcia verso il Nordovest. Ma, allora, ci si scontra con situazioni illogiche che ci obbligano a porre delle domande: perché furono le regioni più distanti a essere cristianizzate con maggiore facilità? Perché l’Irlanda, che non vide mai una sola coorte romana sul suo territorio, si convertì così rapidamente?

    Rispondere a queste domande significa probabilmente risolvere il problema generale costituito dal Cristianesimo celtico nei suoi rapporti con la religione anteriore, il druidismo. Ma per rispondere, occorre innanzitutto sapere che la presenza di tre vescovi bretoni (insulari) è attestata nel 314 per il Concilio di Arles, il che suppone per quella data una prima organizzazione ecclesiastica nell’isola di Bretagna. D’altra parte, è necessario tenere conto dell’evoluzione specifica di quell’isola, occupata parzialmente dai Romani a partire dal regno di Claudio, delle sue caratteristiche sociologiche, politiche e culturali. Sull’isola, infatti, le cose andarono molto diversamente rispetto alla Gallia conquistata da Cesare.

    Sul continente celtico, la fede cristiana si diffuse seguendo le orme dell’esercito romano. Sull’isola di

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