L’ipotesi di Riemann. Il quaderno perduto
By Iacopo Riani
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L’ipotesi di Riemann. Il quaderno perduto - Iacopo Riani
Copyright
© Argot edizioni
© Andrea Giannasi editore
Lucca luglio 2022
ISBN 9788832281361
Dedica
A Elena
1.
Gottinga, settembre 1859
"Einen regelmässigeren Gang als F(x) würde die Function f(x) zeigen, welche sich schon im ersten Hundert sehr deutlich als mit Li(x) + log ξ(0) im Mittel übereinstimmend erkennen lässt.ˮ ¹
Bernhard posò la penna, soddisfatto del proprio lavoro. L’articolo era pronto e poteva essere inviato alla rivista. Sarebbe uscito sul numero di novembre.
Il sole stava tramontando dietro i tetti della città di Gottinga, illuminando di una luce rossastra le facciate delle case esposte a ovest. Dalla finestra della sua stanza Bernhard poteva scorgere il viavai di studenti nella strada e pensava più con soddisfazione che con orgoglio alla posizione raggiunta. Trasferitosi da nemmeno due mesi in quell’alloggio prestigioso che era stato del suo maestro, aveva raggiunto al tempo stesso una tranquillità economica che gli consentiva di proseguire i suoi studi e mantenere le sue due sorelle, senza dover continuamente pensare a procurarsi altro denaro per sopravvivere. La nomina a membro corrispondente dell’Accademia di Berlino, giunta nel mese di agosto, era stata l’ultima gratificazione ricevuta per tutto il lavoro svolto sino a quel momento, e quell’articolo, come da tradizione, rappresentava la sua prima collaborazione con il prestigioso istituto.
L’appartamento di Gauss² presso l’osservatorio astronomico era decisamente confortevole, e il fatto che gli fosse stato assegnato costituiva una prova del rispetto e dell’ammirazione che riscuoteva nell’ambiente universitario cittadino.
Sebbene appena trentatreenne, la sua fama di matematico aveva raggiunto i più sperduti atenei del vecchio continente, grazie soprattutto al suo lavoro sulla teoria delle funzioni abeliane³, risalente a un paio di anni prima, ma, come spesso accade alle menti superiori, a Bernhard importava ben poco di tanta popolarità, immerso com’era nello studio e nella ricerca. Quel breve saggio che si accingeva a inviare era in un certo senso una digressione, dato che in quel periodo si occupava di ben altre questioni che a suo giudizio apparivano più importanti.
Matematico di prim’ordine, si era occupato in passato di geometria, indagandone i fondamenti in un lavoro sviluppato nel ’54, ma era interessato anche alla Fisica e in particolare ai fenomeni elettrici.
Alzatosi dalla scrivania, si avviò verso la sala da pranzo, perché era l’ora di cena e sicuramente Helene aveva già predisposto la tavola. La donna, infatti, conoscendo i gusti e le abitudini del fratello, era solita preparare la cena senza andare a disturbarlo. Dopo qualche minuto arrivò anche Ida, l’altra sorella, proprio mentre Helene portava in tavola la cena. Si sedettero e, come era tradizione della famiglia, recitarono una breve preghiera di ringraziamento e quindi iniziarono a mangiare.
Figlio di un pastore protestante e unico maschio della famiglia rimasto dopo la morte prima del padre e poi del fratello, Bernhard aveva imposto alle sorelle un regime di vita austero e frugale. Per questo motivo i pranzi non erano mai ricercati o eccessivamente abbondanti e le due donne si erano dovute adeguare a malincuore ai voleri del fratello, anche nella vita di società, che, come si può immaginare, era ridotta al minimo.
Inoltre, seppur di bell’aspetto, con il volto severo incorniciato da una folta barba scura, il matematico era di costituzione molto fragile e soffriva di una cronica stitichezza che gli suggeriva di contenersi nel mangiare.
Durante il pasto era tradizione non conversare, e così fu anche quella sera, ma le due sorelle avevano notato che Bernhard si era presentato a tavola con un’espressione soddisfatta, ed erano curiose di saperne il motivo.
«Hai finito l’articolo al quale stavi lavorando?» azzardò Helene, pur sapendo che al fratello non piaceva parlare con loro del proprio lavoro.
«Sì, - rispose Bernhard - ma voglio dargli un’ultima lettura prima di inviarlo».
«Il solito perfezionista» commentò ironicamente Ida, che, essendo la sorella maggiore, poteva permettersi ogni tanto di criticare la totale dedizione al lavoro del fratello.
«Si tratta di un saggio di una certa importanza … - si giustificò Bernhard - Come ben sai è tradizione che i nuovi membri corrispondenti dell’Accademia di Berlino presentino un lavoro originale da pubblicare sulla rivista, e io mi sono impegnato in un campo che sino ad oggi non avevo mai affrontato. È per questo che desidero dare un’ultima lettura».
Finito di mangiare, le due donne cominciarono a mettere tutto a posto, mentre Bernhard si ritirò nello studio per rileggere l’articolo che avrebbe spedito il giorno successivo. Si era fatto buio, e quindi accese la lampada sulla scrivania, accostandola al manoscritto.
La luce artificiale illuminava le formule che riempivano le pagine scritte con una grafia minuta ed elegante, frutto di un laborioso lavoro di ricopiatura dalla prima stesura del testo. Controllò di non aver commesso qualche errore nel copiare, che i simboli, gli esponenti, gli estremi di integrazione e i segni di operazione fossero tutti corretti, e si compiacque del risultato.
C’era però un punto che ancora non gli piaceva, verso la metà dell’articolo, dove aveva ipotizzato l’esistenza di una relazione tra una funzione che aveva indicato con la lettera greca ‘zeta’ e una certa proprietà dei numeri primi. In realtà si trattava di un’affermazione non dimostrata, della quale era abbastanza convinto, ma che non era stato capace di verificare. D’altra parte, la cosa non toglieva valore al resto dell’articolo perché in un certo senso si trattava di un risultato marginale connesso all’obiettivo principale del lavoro. Per amore di completezza, pensò comunque di aggiungere un inciso per giustificare l’affermazione non dimostrata. Intinse quindi la penna nel calamaio e scrisse: "Certamente qualcuno desidererebbe qui una dimostrazione più rigorosa; tuttavia per il momento ho messo da parte la ricerca su questo punto, dopo alcuni fugaci inutili tentativi, perché mi sembra non necessaria al prossimo obiettivo della mia investigazione"⁴.
Ora finalmente l’articolo era completo. Restava però quell’ipotesi non dimostrata che lo disturbava: sebbene non gli sembrasse importante, il fatto di non essere stato capace di verificarne la validità costituiva ai suoi occhi una pecca non di poco conto. D’altra parte, la necessità di inviare l’articolo in tempo utile per la pubblicazione lo costringeva a lasciare incompleto quel punto. Ci sarebbe tornato in seguito, magari prima di presentarlo a Berlino in occasione della sua nomina a nuovo membro dell’Accademia.
Raccolse i fogli e si concesse un momento di riflessione.
2.
Pisa, 6 febbraio 2014
Come gli era potuto venire in mente di accettare una tesi su Bernhard Riemann e sul suo soggiorno presso l’Università di Pisa, una permanenza breve e scarsamente documentata? Il professor Giuntini, che gli aveva fatto la proposta, aveva tralasciato di dirgli che si trattava di un lavoro di ricerca con difficoltà pressoché insormontabili. Pochi documenti, nessun atto da citare né date da riportare: una disperazione. Eppure Riemann era stato lì quasi centocinquant’anni prima e, a giudicare dalle prime informazioni reperite, si era trattenuto un bel po’.
Matteo Tedeschi, laureando in Storia, era un tipo determinato, di quelli che non si arrendono al primo ostacolo. Alto e magro, moro e scuro di carnato, era considerato dalle ragazze un giovane attraente, e spesso si era sentito fare delle proposte più o meno velate, alle quali in alcune occasioni erano seguite brevi avventure, ma non si era mai imbarcato in una relazione fissa. L’ultima risaliva a un paio di mesi addietro ed era durata poco più di una settimana. Poi la ragazza, una studentessa sarda trasferitasi a Pisa, lo aveva liquidato in quattro e quattr’otto mettendosi con un dottorando in Medicina.
Nonostante l’aspetto decisamente accattivante, gli occhi azzurri e profondi che lo facevano sembrare un latin lover consumato, Matteo aveva un carattere abbastanza timido e schivo che contrastava con l’immagine che dava di sé, e di solito erano le ragazze a prendere l’iniziativa. Ma ultimamente nessuna si era fatta avanti.
Abitava a Pisa in via della Faggiola sin dal primo anno di università, ovviamente a spese dei genitori. Il padre, un medico pistoiese, gli passava un mensile sufficiente per le sue esigenze, svaghi inclusi, e per questo Matteo si sentiva un privilegiato rispetto a molti suoi compagni che si arrabattavano per tirare avanti in una città nella quale, come in tutte le sedi universitarie, mangiare costava poco ma gli affitti dei posti letto erano alle stelle. Lui si era trovato una stanza singola in un appartamento al piano terra, nel quale abitavano altri quattro giovani: una camera di una dozzina di metri quadri, arredata spartanamente. Un letto a una piazza, un armadio, una scrivania e due sedie impagliate; dal soffitto pendeva un globo di vetro con dentro una lampada a basso consumo e accanto alla scrivania c’era una piantana che illuminava il piano di lavoro sul quale Matteo aveva piazzato il portatile. La stampante era appoggiata in terra. Di fronte all’armadio, vicino alla porta, uno specchio a muro senza cornice completava l’arredamento. Per quanto fosse lontana anni luce dalla sua stanzetta a Pistoia, la si poteva considerare quasi un lusso. Per dare un tocco personale a quel locale anonimo, nel quale dovevano essere passate generazioni di studenti, Matteo aveva appiccicato sulla parete un poster raffigurante un atollo del pacifico e sopra il letto ne aveva messo un altro con una veduta notturna del celebre skyline di New York prima dell’11 settembre. L’unica finestra, protetta da una spessa inferriata, era esposta ad est e di conseguenza la stanza restava nella penombra per buona parte della giornata, anche perché il palazzo di fronte era abbastanza alto. Fortunatamente l’affitto comprendeva anche il consumo di energia elettrica.
Gli altri quattro studenti erano sistemati in camere a due letti, un po’ più grandi della sua, alle quali si accedeva da un corridoio abbastanza stretto. Nella prima stanza c’erano due matricole di scienze naturali, un calabrese e un sardo, mentre nell’altra camera alloggiavano due genovesi iscritti a ingegneria ed entrambi fuori corso. Non c’era un gran feeling tra Matteo e gli altri ragazzi e i rapporti si limitavano allo stretto necessario per una civile convivenza. Il bagno era vicino all’ingresso e doveva servire per tutti; questo talvolta creava qualche dissidio, se uno degli studenti indugiava troppo a lungo sotto la doccia o se lasciava il locale poco pulito, ma fortunatamente ciò accadeva abbastanza di rado.
Riprese in mano gli appunti che aveva stampato e cominciò a scorrere le poche informazioni raccolte sino ad allora.
Riemann era nato a Breselenz il 17 settembre del 1826 e aveva studiato a Hannover e poi a Lünenburg, prima di iscriversi all’università di Gottinga. Da lì era passato a Berlino e quindi nuovamente a Gottinga, sino alla laurea, avvenuta alla fine del 1851.
Arrivato a Pisa nell’agosto del 1863, quando già era considerato un matematico affermato, si era trattenuto lì per un po’ di tempo, per poi tornare in Germania. Ma nel ’66 era tornato nuovamente in Italia, dove, all’età di neanche quarant’anni, aveva reso l’anima a Dio in uno sperduto paesino sulle rive del Lago Maggiore.
Il soggiorno pisano era dunque individuabile a cavallo tra il ’63 e il ’64, forse fino al ’65, ma non c’era una data certa della sua ripartenza, o almeno sino a quel momento non l’aveva trovata, né un’indicazione di dove abitasse durante la sua permanenza.
Tutte queste informazioni le aveva ricavate da internet ed era rimasto sorpreso quando, dopo aver inserito su Google il nome del matematico, erano uscite 961.000 voci, 21.400 delle quali