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Il caso non esiste
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Il caso non esiste

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Primavera 2020. Nel periodo in cui il mondo si è fermato per il lockdown indetto per fronteggiare l’emergenza Covid-19, il Commissario Leonardo Belli vive la sua Roma, vuota, silenziosa, senza traffico, guardandola con occhi diversi e aprendosi a una serie di riflessioni personali mentre indaga su un nuovo caso: il misterioso omicidio di un uomo e del suo cane. Un caso solo in apparenza irrisolvibile  che invece nasconde un’insolita verità. Con Il caso non esiste, attraverso il personaggio del Commissario Belli, lo scrittore Pietro Antonucci racconta il suo punto di vista sull’esperienza del lockdown, mentre pone al lettore un interrogativo: se un giorno dovessimo incontrare il nostro doppio, il nostro sosia, come cambierebbe la nostra vita?

Pietro Antonucci, nato a Frosinone 54 anni fa, ciociaro DOC, studia a Roma ingegneria meccanica perché da sempre attratto dalla meccanica di precisione, dagli orologi alle automobili. Da oltre 25 anni si occupa di formazione e consulenza aziendale. Scout dall’età di 10 anni nell’associazione FSE dove svolge nel tempo numerosi incarichi. Appassionato di alpinismo come del mare vissuto con la barca a vela. è al suo primo libro.
Scrittore per caso sempre che il caso esista.
LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2022
ISBN9788830662452
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    Il caso non esiste - Pietro Antonucci

    cover01.jpg

    Pietro Antonucci

    Il caso non esiste

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-5483-9

    I edizione marzo 2022

    Finito di stampare nel mese di marzo 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    In copertina: illustrazione di Marta Zanzotto.

    Il caso non esiste

    A Mamma e Papà…

    IL CASO (LETTERARIO) NON ESISTE

    di Vito Zagarrio

    Io mi occupo di cinema, e tendo quindi a leggere i romanzi nella loro capacità di evocare delle immagini e magari nella loro possibile trasformazione in film. Forse anche per questo mi intriga Il caso non esiste, un libro che fa vedere la realtà contemporanea, mostrando luoghi, geografie, paesaggi urbani ed umani, pensando a quello che ci circonda.

    Pietro Antonucci è uno scrittore atipico, che non scrive per mestiere; forse anche per questo si percepiscono spunti autobiografici mescolati ad altri modelli, letterari, musicali, pittorici, visuali in genere. Il giallo diventa un pre-testo per parlare d’altro: al di là della trama (da giallo classico), in Antonucci c’è una lucida riflessione sull’oggi.

    Tanto che lo spunto di partenza è una sorta di instant movie (o instant novel…), partorito durante il primo lockdown del Covid-19. Più contemporaneo di così…Antonucci fotografa (d’altra parte è davvero un bravo fotografo) la Roma deserta del lockdown più duro, che solo la macchina del detective protagonista può attraversare e in cui un uomo che cammina frettolosamente non può non dare nell’occhio. E’ una città distopica, da fantascienza; una Roma che accentua la componente metafisica (un Eur letto alla De Chirico si presta benissimo a uno scenario sur-reale). Ma al tempo stesso è una Roma verace, raccontata con un forte dialetto, contrappuntata di negozi popolari dove si mangiano rosette con mortadella, dove i personaggi sembrano usciti dalla commedia all’italiana: il bottegaio perspicace e romanissimo, il poliziotto siciliano che parla coi passati remoti, certi squarci di paesaggio classico romano valorizzati dal paesaggio urbano deserto, ri-scopribili dalla distanza sociale e dallo smart working. Si veda la dettagliata analisi geografica della zona Colosseo, Arco di Costantino, Colle Oppio, Piazza Venezia, salita del Grillo, ecc.; e poi un’altra dedicata a San Pietro in Vincoli e Santa Maria ai Monti. Il personaggio vorrebbe osservare tutto, ed è impossibile fare attenzione a tutta la grande bellezza romana anche in tempi di pandemia.

    L’operazione de Il caso non esiste è dunque molto interessante. Non so se, quando il romanzo sarà in libreria risulterà essere il primo giallo sulla/della pandemia, ma di certo ne rappresenta bene il clima, le paure, le attese, ed anche le speranze di cambiamento.

    Si è fatta strada, nel campo degli studi visuali, una estetica della pandemia, fatta di immagini simboliche forti: le icone in split screen delle riunioni zoom, le ossessioni ricorrenti delle strade vuote e del virus stesso al microscopio, l’inquadratura del Papa nel deserto di Piazza San Pietro in una Pasqua in lockdown. La Roma claustrofobica che Leonardo Belli attraversa nel suo viaggio aggiunge un tassello interessante a questa nuova estetica della pandemia. E’ un viaggio che, come tutti i viaggi, assume toni psicanalitici; un travel nell’inconscio della città e degli esseri che la popolano. Non a caso (il gioco di parole col titolo è voluto) uno dei tempi centrali del romanzo è quello –altamente psicanalitico – del doppio. Doppio sogno, è il libro di Schnitzler da cui Kubrick trae Eyes Wide Shut, il doppio è nei plays di Pirandello ma anche nella commedia (da Plauto alla commedia hollywoodiana), nel film d’Autore o nel melodramma: vedi La regola del gioco, dove lo scambio di un cappotto provoca la tragedia finale; il Don Giovanni di Mozart/Da Ponte, dove Don Giovanni si sdoppia in Leporello.

    La cifra autoriale di questo romanzo permette allo scrittore esordiente un diario (come il protagonista descrive le sue pagine narrate in prima persona) che diventa uno statement sul mondo che viviamo. Antonucci consente al suo personaggio delle lunghe pause riflessive, delle digressioni sulla way of life italiana e occidentale: l’uso del cellulare e dei social, la superficialità della vita quotidiana prima del lockdown (che potrebbe incoraggiare a un radicale cambiamento di stile), la banalità di alcuni comportamenti. C’è un piglio etico (e non moralistico), uno sguardo morale alla Nanni Moretti – che non a caso viene citato nel romanzo.

    Lo sguardo («…osservare tutto», dicevamo) e la luce, ecco. Da un lato c’è il bisogno di guardare, di osservare, di giudicare la realtà (l’indagine poliziesca è da sempre una metafora di ricerca di verità, che sia una denuncia della camorra o l’analisi estetica di un film); dall’altro il desiderio di fare luce (su un delitto ma anche sulla società e sulla Storia. Forse la chiave del romanzo finto-giallo sta nell’incipit, in cui il protagonista, dopo un’uscita in barca, riflette sulla nozione di comunicazione, e si dilunga su come gli ideogrammi giapponesi rappresentino questo termine, facendo riferimento a parlare, ascoltare, comprendere, e declinando il tutto con i simboli del sole e della luna; dunque della luce. Mi si è accesa la luce, mi si è fatto chiaro: Antonucci si allarga in sinonimi di quella che può essere la sua operazione di scrittura.

    Il dotto richiamo agli ideogrammi giapponesi dà il la a tutta una serie di citazioni colte che accompagnano il diario del protagonista, cui spesso l’Autore si sostituisce per riflessioni ideologiche e politiche. Borges, David Foster Wallace, la filosofia greca, Kandinskij, Lavoisier, Einstein: il libro è disseminato di indizi che aiutano a comprendere il carattere del personaggio protagonista ma anche la personalità dell’Autore. Molte di queste citazioni emblematiche sono musicali, e rivelano la generazione dello scrittore, i suoi gusti, le sue passioni: «I am sailing home again», vedi cara, è difficile spiegare», le lyrics scelte non sono mai casuali (ancora!), parlano di ritorni a casa, di veleggiare andando in barca, di spiegazione" di un enigma (delittuoso o sentimentale). E c’è naturalmente anche il cinema, come il richiamo al western nella descrizione dell’Eur desertificato dalla pandemia («Ma io tutto sono, meno che Clint Eastwood pronto a sparare»); o come l’omaggio alla commedia (l’«omone che parla come Aldo Fabrizi»).

    C’è un progetto alto, dunque, che il romanzo mette in gioco con le pratiche basse: ad esempio la materialità del corpo, che emerge soprattutto dal rapporto che il protagonista ha col cibo, gustose, ad esempio, sono le pagine in cui il detective si diletta con la cucina, diventata per tutti una riscoperta in tempi di Covid (quando riesce a cucinarsi uno spaghetto aglio olio e peperoncino il protagonista lo segna sul calendario come un evento), o quando fa assaporare al lettore il profumo della sopra citata rosetta alla mortadella o di una ciriola con la porchetta, condita di broccoletti e formaggio primo sale. «La cucina si porta dietro educazione, ordine, rispetto del lavoro altrui, amore del bello e del buono», così annuncia ieratico il detective/scrittore. «In questo posto, ho toccato vertici di soddisfazione inattesa. Devo ricordarmelo».

    Insomma, il lettore viene rimbalzato da un tono all’altro in un gioco tra dissertazioni filosofiche e greve romanesco (il linguaggio dei poliziotti, che potrebbe fare da pendant – in un futuro adattamento del romanzo - al sicilianese de La piovra o del Commissario Montalbano, e il dialetto romano – non a caso il protagonista si chiama Belli), tra notazioni ironiche e riflessioni più pensose sulla società contemporanea, che fanno un po’ venire in mente alcune pagine di Baricco in Game, quando analizza il mondo del web e dei social contemporanei, con una punta di nostalgia per i tempi andati, della scrittura e dell’analogico.

    «E’ incredibile come le persone si sentano confortate dallo scrivere stronzate» - sentenziano il personaggio e l’Autore con un po’ di snobismo morettiano, a proposito del mondo dei twitter e dei messaggini. «Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità, e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo. L’ordine del tempo il nostro unico giustiziere» - così citando Anassimandro con fare grave.. «E’ evidente – citando Taleb – che la storia è un canguro. Non è una biscia. Salta non striscia». «E’ incredibile come la nostra mente sembra disposta a cercare e a trovare spiegazioni a tutto, meno che al caso…» Sono anche due belle metafore dello storytelling. «Però Niño per un cane di almeno settanta ottanta chili. Il padrone avrà avuto senz’altro senso dell’umorismo» - commenta ancora l’io del protagonista con altrettanta ironia del padrone del cane. E’ un’ironia che torna spesso, a volte con stilettate improvvise: «Amava giocare a tennis e pescare. Insomma un sant’uomo. A cui hanno sparato con un fucile a canne mozze»,

    Ho detto poco della trama. Volutamente, perché il giallo si deve gustare dall’inizio alla fine. E questo romanzo consente di bersi la trama in un unico sorso. Ma si può dire che il plot principale è quello di un delitto e del suo enigma: un cadavere – come dicevo poc’anzi - viene trovato sotto l’obelisco dell’Eur insieme a un cane, un grosso mastino; l’animale è stato freddato con un colpo di pistola, mentre l’uomo è stato ucciso, sembra, con una lupara; circostanza misteriosa su cui si avviluppa la trama. E si può dire che esistono i codici classici del genere giallo/noir: il delitto, la moglie e il figlio affranti, una donna seduttiva che promette i prodromi di una storia d’amore col protagonista, la squadra dei polizotti, del medico legale, dei collaboratori, il dipanarsi dell’investigazione, al risoluzione quasi casuale.

    Non voglio dire di più. Il romanzo si legge tutto d’un fiato perché è impossibile non empatizzare con i personaggi, non essere curiosi della soluzione del delitto, che convince - anche nella sua paradossalità – perché Antonucci ha portato il lettore dentro al suo gioco e il pubblico si interessa poco della credibilità o della verosimiglianza. E questo grazie allo stile della scrittura, piano e facile (con dialoghi degni di una sceneggiatura per il cinema o la serie tv) ma con degli improvvisi larghi più difficili che costringono chi legge a fare i conti con il proprio bagaglio di storia della letteratura, storia dell’arte, della musica, della filosofia.

    Insomma, il personaggio di Leonardo Belli è originale, e non è certo uno scimmiottamento dei tanti commissari televisivi (tutti di derivazione letteraria), da Montalbano a Coliandro, da Cattani a Schiavone. Ma come loro, potrebbe avere successo in una trasposizione cine-televisiva, e dunque auguriamo al romanzo un sequel degno di questo prototipo. Il lettore accetta volentieri il patto con lo scrittore, e si lascia portare per mano come un bambino dentro la vicenda, non cercando riprove scientifiche. E si identifica col protagonista, assaporandone sapori e odori, a dispetto dei sintomi del Covid; si immedesima con la sua posizione, spesso di attesa e di studio: «Continuo a girare come un automa, aspetto che il luogo mi trasmetta qualcosa». E’ una posizione che incarna bene anche l’attesa del lettore/spettatore. Ma al tempo stesso l’Autore ironizza sulla capacità di intuire, sentire: «L’unica cosa di cui mi debbo fidare è il razionale, non le sensazioni. Con quelle non ci ho mai capito una mazza».

    Pietro Antonucci, dunque, potrebbe presentarsi come uno scrittore per caso, tanto improvviso è il suo esordio. Ma il caso non esiste… il suo romanzo, potrebbe rivelarsi un interessante caso letterario..

    Premessa

    Il racconto che segue si articola in un preciso periodo storico che si posiziona a cinquanta giorni circa dall’inizio del lockdown attivato in Italia a seguito della pandemia covid19. Il periodo preciso è riconducibile a inizio maggio del duemila venti. Un tempo del tutto particolare che ha visto una nazione bloccata nel novanta per cento delle attività produttive, scuole chiuse e tutta la popolazione serrata nelle proprie case per evitare il propagarsi dell’epidemia. Il potenziale contagio ha diffuso paura, incertezza e una stranissima sospensione spazio-temporale. In questa bolla inizia la storia del commissario Leonardo Belli in una Roma deserta e del tutto desueta. È corretto e doveroso comunque indicare che, nonostante il collocamento temporale molto preciso e il riferimento a volte puntuale della cronaca quotidiana, non tutti i contesti narrati, le citazioni e le situazioni descritte sono riconducibili a fatti e persone realmente esistite.

    Prologo

    Aria fredda e pulita, cielo terso blu cobalto, il mare si sta lentamente calmando, l’orizzonte è netto, definito, come solo due giorni di forte tramontana possono lasciare. La frustata sulle sartie provocata dal boma mi fa sussultare, riportandomi dall’incanto al timone.

    Sono uscito presto, il sole ancora non evidente in cielo anche se la luce era sufficiente ad annunciare una giornata splendida. Non so ancora spiegarmi come le mie mani sul volante mi abbiano guidato quasi inconsapevolmente in porto. Preso da una strana frenesia, non avevo perso tempo: saltato sulla barca dormiente in molo, in meno di cinque minuti ero fuori dal canale.

    Cappotto, giacca e cravatta, solo, dritto a poppa, la ruota del timone tra le dita, se qualcuno mi avesse visto uscire a quell’ora, minimo avrebbe chiamato i carabinieri, ma non c’era nessuno, davvero nessuno. La giornata si era aperta mantenendo le promesse e, girata la punta, quei pochi bordi fatti all’ombra della grande montagna sono risultati il toccasana inconsapevolmente cercato. Bolina stretta, un bordo dopo l’altro alternando le mura, passando dall’ombra della montagna alla luce piena del sole, dal freddo al caldo, questo continuo contrasto capace di regalare una strana energia mi fa venire in mente La linea d’ombra di Conrad, un grande libro. Il mare è una massa silenziosa che avvolge la barca tra le sue onde lunghe e regolari. Periodo oltre i quaranta metri, cresta sotto i settanta centimetri. La prua le attraversa con pochissimi spruzzi tanto che sembra quasi quasi non romperle, oleose e dense si richiudono silenziose al mio passaggio.

    Perso e incantato da tanta bellezza, me ne sto sopravvento, al sole, con le vele a segno e la prua puntata all’orizzonte. Non riesco a determinare per quanto tempo sono rimasto così.

    Di colpo una stra-orza, generata dal vento, dal fato, dalla barca, o da Dio, non lo so, qualcuno sicuramente, ma non io, ha rimesso la prua verso terra, interrompendo l’idillio e richiamandomi all’ordine. Guardando terra, il molo appare ormai come un piccolo punto lontano. Guardo l’ora e mi accorgo che sono già in ritardo di quasi due ore. Butto un occhio sul telefonino che avevo silenziato sulla consolle, sono oltre dodici le chiamate perse e una sfilza di messaggi su WhatsApp. Riposiziono le vele, lasciandomi alle spalle il sole e il vento nel viso, per una poppa triste e sconsolata verso terra, verso il lavoro. Mentre lentamente ritorno, apro il telefono, la situazione è questa: ventitré messaggi WhatsApp, undici e-mail, diciotto notifiche su Instagram, due sms, tredici chiamate perse. Riesce ancora a stupirmi quanto una semplice assenza di connessione lunga più di due ore possa generare un tale fiume di parole e immagini, perlopiù inutili.

    È incredibile come le persone si sentano confortate dallo scrivere stronzate, condividere corbellerie, scegliere con cura faccine e disegnini, per di più chiamando tutto questo comunicazione.

    Il popolo giapponese usa nella scrittura tradizionale gli ideogrammi. Tutte le scritture antiche, in assenza di un vero alfabeto, utilizzavano segni/simboli/concetti che associati riuscivano a esprimerne altri. Un amico mi ha fatto conoscere come viene scritta la parola comunicazione in giapponese tradizionale. È molto interessante l’insieme dei simboli che la compongono. Un primo simbolo per bocca, poi un secondo molto più complesso composto da orecchio, occhio, cuore, tu e attenzione, poi un terzo simbolo composto da sole e luna.

    Le rispettive associazioni portano ai tre elementi chiave descrittivi e costituenti l’essenza della comunicazione.

    La trovo una illuminante composizione per la definizione di un concetto così importante: parlare, avere attenzione all’altro, saper ascoltare, passione, comprendere e farci comprendere. Trovo bello l’utilizzo dei simboli del sole e della luna, uniche fonti di luce disponibili in epoca antica per indicare la comprensione. Una sorta di biblico E luce fu. A ben riflettere, ancora oggi, per dire che abbiamo capito, usiamo metafore tipo mi si è accesa la luce, si è fatto chiaro, sono fuori dal tunnel e così via. Pensando a tutto questo, mi chiedo come sia possibile soddisfare questo concetto così complesso attraverso otto, dieci sillabe e qualche faccina…

    Non credo si possa riuscire, almeno per noi non nativi digitali. Se però poi osservo con attenzione una chat di un ragazzo o di una ragazza di dodici-tredici anni, mi accorgo che forse loro sì, loro riescono a comunicare in maniera completa perché usano un canale privilegiato, un linguaggio codificato e condiviso, e soprattutto lo fanno a una velocità simile a quella di una interlocuzione tra due persone viso a viso. Dialogano, di fatto, come noi facevamo alla loro età, seduti sul muretto del paese o davanti a una coca cola in un bar. Lo fanno però stravaccati su un divano con degli ignoranti genitori che gli urlano di staccarsi da quel cacchio di telefono. Devo ricordarmi di fare di più, per non essere catalogato come una cariatide noiosa, quantomeno da una mia ipotetica progenie. In questo tempo di lockdown, l’utilizzo della rete come sistema comunicativo se da un lato forse ci ha salvato, dall’altro, è arrivato al limite del sopportabile: bastano dieci minuti e ti ritrovi con un centinaio di messaggi da evadere, oltre la metà sono enormi stronzate più o meno ironiche sulla situazione, ci sono poi assurde fake-news inoltrate a circuito così che, se appartieni a quattro o cinque gruppi, te le ritrovi come minimo doppiate in poco tempo. Notizie fantasiose che variano dalla nuova cura per il coronavirus, ai pochissimi morti della Germania rispetto ai nostri grazie alla razza ariana. Famigerate ipotesi complottiste che vedevano nell’ordine prima Trump, poi i cinesi, poi i tedeschi, poi l’Isis, poi i terroristi baschi, per non parlare degli alieni o di madre Natura che si ribella... Insomma, come sempre, lo sport più diffuso è la caccia al colpevole. Sono già nate app e post per costruire la propria ipotesi di complotto. Non manca certo la satira politica, in alcuni casi spassosa, in altri deprimente, deprimente come del porno spiccio un po’ sessista, utile per appagare i picchi di testosterone che l’isolamento in qualche caso provoca.

    Uno scenario davvero complicato che mi costringe a fare ampia selezione per arrivare ai messaggi relativamente importanti. Fermo a terra, sulla banchina, guardo la barca, tornata dormiente, pronta per il prossimo giro. Solo ora realizzo di non avere memoria almeno dell’ultima mezz’ora. Non ricordo l’approccio al porto, l’ingresso nel canale, il rientro in porto, l’ormeggio, l’aver ammainato le vele, raccolto le scotte, chiusa la tuga, insomma, il vuoto assoluto. Automatico e inconscio come l’aver deviato, stamani, sulla strada del porto invece che procedere per Roma. Alzheimer galoppante o sana autodifesa. Mi guardo intorno e cerco di togliermi velocemente dalla vista di qualcuno, negli ultimi giorni, essere fuori senza un figlio o un cane da passeggiare rischia di farti apparire un ladro o qualcosa di peggio.

    Devo andare in ufficio e dai messaggi selezionati, devo farlo anche celermente. Sembra che gli assassini non riescano neanche a prendersi una pausa per pandemia.

    Come se non bastassero le disgrazie.

    GIORNO 1°

    Muoversi. In questi giorni, è davvero una cosa molto particolare che non può riassumersi nel descrivere strade vuote. C’è dell’altro: guidare lungo l’ombra dei pini che costeggiano l’Appia senza nessun’altro veicolo trasmette una sorta di rilassata armonia, pazzesco, ma non ho sentito neanche la necessità di accelerare, seppure in ritardo. Nessuna voglia di superare il limite, nessuna fretta. Un’armonia che non è determinata dall’assenza di auto, ma piuttosto da una presenza. La presenza di una natura prorompente, prima soffocata dalla nostra invasiva occupazione degli spazi, il verde è verde, l’azzurro è azzurro, uno scoiattolo salta da un ramo all’altro indisturbato. I caprioli pascolano nei campi a bordo della Pontina in mezzo a capannoni abbandonati. Questa strada l’ho fatta per dieci anni più volte al giorno senza mai vedere un animale. Le notizie dei delfini a Genova, le oche selvatiche in piazza di Spagna, le balene a Cagliari, e ora i caprioli sulla Pontina alle porte di Roma, insomma, sembra che la natura stia riprendendo il controllo e il dominio del nostro ambiente.

    La scena che si apre, percorsa la rampa del raccordo, è davvero sconcertante, ai miei occhi appare il raccordo deserto, vuoto assoluto. Anche qui, seppure la prospettiva sia dominata dai toni di grigio dell’asfalto e del cemento, questi toni omogenei sono solo lo sfondo che esalta le piccole ma intense macchie di colore dei fiori sui bordi. L’abitudine mi porta a prendere il raccordo e poi l’Ardeatina, piccolo stratagemma atto ad accorciare i tempi di percorrenza nei picchi di traffico. Ora, chiaramente, risulta del tutto inutile, anzi, dannoso. Otto chilometri in più di strada.

    Ne vale la pena, il paesaggio si fa apprezzare, verde primaverile punteggiato di ruderi romani a segnare la storia; fanno tristezza i piccoli chioschi sulla strada, un tempo luogo di ogni commercio, ora tutti completamente serrati. Passo un piccolo posto di blocco, rallento a passo d’uomo, con un cenno ai carabinieri di servizio, l’adesivo sulla mia auto trasforma velocemente la paletta alzata in un gesto di riverente saluto che ricambio con un sorriso.

    Se sapessero che sto ritardando tutta la procedura di rilievo della scientifica per la voglia di fare un giro in barca, probabilmente smetterebbero subito di essere così gentili.

    Chissà se davvero quelli che aspettano me si stanno agitando. Forse anche no, fretta e tensione non sono di questi tempi. Arrivo e posteggio in una piazza Civiltà del Lavoro liscia e sgombra come un tavolo da biliardo dopo aver messo in buca la otto. Non passa certo inosservato il capannello di persone vestite come infermieri dello Spallanzani intorno alla rotonda inutilmente cintata dal nastro.

    Mi viene incontro Martini, il decano del commissariato, ha la sua solita aria noncurante, l’andatura da pinguino che trasporta le uova e una malcelata agitazione.

    «Capo, è un casino. È appena arrivata la scientifica, ma non si riesce a trova’ il magistrato. Sembra che Boraldi sta bloccato in quarantena e che il sostituto nun se trova. So’ quasi tre ore che siamo bloccati qui»

    «Chi è il morto?»

    «Non abbiamo ancora potuto identificarlo, non ha documenti, portafoglio, telefonino, ‘nsomma gniente, poi ha il volto massacrato»

    «Massacrato? Da cosa?»

    «Nun se capisce, sta lavorando ora il dottore»

    «Chi l’ha trovato?»

    «L’omo della monnezza, stamattina intorno alle sette e mezza, si è fermato pensando che fosse qualcuno colto da malore, ha chiamato subito il centodiciotto. Sono loro che ci hanno chiamato, una volta arrivati»

    «Quindi il corpo è stato toccato solo dagli infermieri?»

    «No, in realtà il monnezzaro aveva già toccato il corpo, pensando fosse ancora in vita»

    «È ancora qui?»

    «Chi?»

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