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La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I
La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I
La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I
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La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I

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"La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944" è un'opera in tre volumi che ricostruisce le operazioni tedesche e alleate nella regione nel contesto più ampio della Campagna d'Italia 1943-1945 e della II guerra mondiale nel Mediterraneo (1940-1945). Alle operazioni militari sono strettamente correlate le azioni della resistenza attiva e umanitaria nonché le vicende delle popolazioni locali, soggette ai bombardamenti, agli sfollamenti, alle azioni di "terra bruciata" e, talora, alle rappresaglie germaniche.

Questa nuova edizione dell'opera, pur conservando l'impostazione della precedente (1993/1998), si avvale e arricchisce di alcuni importanti contributi di ricerca sul tema pubblicati nell'ultimo venticinquennio sia in Italia che all'estero.

Oggetto del primo volume sono le battaglie del Biferno, del Trigno, dell'Alto Volturno e l'avanzata dell'VIII Armata britannica fino al fiume Sangro, scontri importanti per gli sviluppi tanto della resistenza tedesca sulle linee Viktor-Barbara-Bernhard quanto dell'avanzata alleata nel tentativo di raggiungere la linea Pescara-Roma entro l'autunno 1943".
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 24, 2022
ISBN9791221409482
La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I

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    La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I - Giovanni Artese

    Capitolo I

    L’Italia in guerra (1940-1943)

    I

    Tutto cominciò quel lunedì 10 giugno 1940, una bella e calda giornata di fine primavera. A Roma soffiava un opprimente vento di scirocco. Nell’afoso pomeriggio, alle ore 16.30, Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, consegnava la dichiarazione di guerra dell’Italia agli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra; e, alle ore 18.00, dal balcone di piazza Venezia, di fronte ad una folla da grandi occasioni - solo un poco più fredda e nervosa del solito - Benito Mussolini annunciava al popolo italiano l’evento fatale.

    Il testo della dichiarazione (che sanciva l’alleanza militare con la Germania di Hitler) non conteneva che accuse vaghe alle democrazie plutocratiche e reazionarie d’Occidente, agli affamatori che detenevano ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; insieme all’indicazione che il giovane e fecondo popolo italiano spezzasse le catene che lo soffocavano nel mare nostro Mediterraneo. Ma il dado era ormai gettato e tornare indietro non sarebbe stato comunque possibile. Occorreva dunque battersi e vincere oppure semplicemente soccombere: giacché questa nelle intenzioni, ancor più nella retorica, appariva la volontà del Duce del fascismo.

    La notizia, accompagnata dalle esaltazioni nazionalistiche di gruppi di giovani, si sparse in un baleno, raggiunse persino i paesi e le contrade più sperdute della diffusa provincia italiana e provocò nella popolazione reazioni diverse, a volte contrastanti, benché improntate soprattutto a disorientamento, preoccupazione, paura.

    Eppure quella notizia non giungeva del tutto inaspettata. I rumori di guerra che avevano agitato il mondo nei precedenti anni Trenta si erano già tradotti in operazioni belliche di un certo rilievo, anche per l’Italia. E la campagna di Etiopia (1935-1936), la partecipazione fascista alla guerra civile spagnola (1936-1939)[1], l’occupazione dell’Albania (1939), mobilitando centinaia di migliaia di soldati (in parte volontari, arruolatisi anche in Abruzzo-Molise non tanto per orgoglio patriottico bensì princi palmente per quella paga che veniva assicurata) se avevano consentito di ampliare l’agognato Impero coloniale italiano, avevano ulteriormente accresciuto la tensione nei rapporti con le maggiori potenze europee. Ne era derivato un sensibile isolamento politico dell’Italia, cui il regime mussoliniano aveva risposto con un rafforzamento dei legami con la Germania, così finendo per vincolarsi - suo malgrado - sempre più strettamente alla politica di Hitler (Asse Roma-Berlino, 1936; Patto Antikomintern, 1937; Patto d’Acciaio, 1939).

    Sebbene dunque prevista, in qualche modo attesa, la dichiarazione di guerra dell’Italia pure - in quel momento - stupiva, sorprendeva. Fino a tutto l’inverno 1939-40 non pochi avevano ritenuto difficile, improbabile un intervento italiano nella contesa (iniziata dal 1° settembre 1939, con l’invasione tedesca della Polonia) che opponeva la Gran Bretagna e la Francia alla Germania. Il ritardo nell’opera di ammodernamento del Paese, la sostanziale impreparazione dell’Esercito, l’indifferenza della popolazione verso una politica imperialistica ambiziosa quanto dispendiosa inducevano a pensare che l’Italia di Mussolini avrebbe conservato almeno per un certo periodo una posizione di neutralità o, come preferiva il vocabolario fascista, di non belligeranza. E ancora: mai come in quegli ultimi anni Trenta il fascismo era stato accettato o passivamente subito a livello di massa[2]; mai come allora l’idea di un Duce intelligente e l’impressione di un’Italia in forte ascesa sul piano internazionale erano state più diffuse e condivise. Conveniva portare in guerra la Nazione proprio allora, schierarsi rischiando di perdere quei vantaggi che inopinatamente la complessa situazione internazionale offriva all’Italia e più in generale ai Paesi non coinvolti nel conflitto? Evidentemente no. Questo Mussolini lo capiva; e fino al 1939 egli riuscì anche a praticare una politica di non-belligeranza.

    Ma con l’arrivo dell’inverno, durante i primi mesi del 1940, qualcosa in lui cominciò a cambiare; e non fu più lo stesso. In effetti non aveva egli sostenuto che nella lotta tra le nazioni e i continenti ciò che contavano erano i rapporti di forza? Che la guerra, soltanto la guerra fosse la regola e la pace l’eccezione? Che il futuro apparteneva ai popoli arditi e bellicosi? Ed ora che la guerra c’era, poteva egli restare a guardare, potevano gli Italiani ridursi al rango di un popolo neutralista, di un popolo rinunciatario che sciupa occasioni storiche per tornare ad essere il popolo dei Cesari e della grande Roma di un tempo?

    Così, il 10 marzo 1940, dopo un acuto interno dissidio durate settimane, Mussolini decise: sia la guerra! La guerra a fianco della Germania benché condotta autonomamente, la guerra parallela! Restava soltanto da stabilirne la data. Egli pensava, in via di ipotesi, ad un intervento nella primavera del 1941 comunque non anteriore all’autunno 1940. Il programma di riarmo e di ammodernamento delle Forze Armate italiane era infatti in pieno svolgimento e per una loro messa in efficienza occorrevano almeno 10/12 mesi.

    Ma quando, nell’aprile del 1940, i tedeschi attaccarono e poi occuparono Danimarca e Norvegia; e quando, il 10 maggio successivo, iniziarono la violenta offensiva contro la Francia, le ultime perplessità di Mussolini si sciolsero come neve al sole e una impazienza interventistica lo prese, sempre più forte a mano a mano che i panzer germanici, avanzando attraverso le Ardenne e i Paesi Bassi, schiacciavano l’esercito di Francia e puntavano direttamente sulla capitale: Parigi.

    L’idea che il Fuhrer, un tempo suo timido scolaro, potesse assicurarsi in poche settimane il dominio incontrastato dell’Europa centro-settentrionale lo assillava, non gli permetteva più sonni tranquilli; né gli consentiva stasi o attese inerti.

    Non era tuttavia solo invidia: era anche paura, paura di una Germania troppo potente, di un Hitler che - una volta eliminati gli avversari - si rivolgesse all’Italia per umiliarla e aggiogarla. La fragile mente di Mussolini, accecata dalla vanità, timorosa sia di una Inghilterra che di una Germania vittoriosa, finiva dunque per convincersi della necessità dell’intervento italiano allorché persino Hitler, pur felice della scelta di campo, giungeva a considerarlo del tutto inopportuno.

    Fu in ogni caso quella che seguì una decisione contraddittoria, fondata su un calcolo errato, su di una furbizia politica solo apparente, che pretendeva di trarre vantaggi non dalla messa in campo di effettive risorse militari e diplomatiche ma solo da una particolare congiuntura: il collasso della Francia a seguito dell’attacco tedesco. E c’è di più: il Duce avvertiva inconsciamente che la guerra non sarebbe stata breve - come promesso da Hitler - bensì lunga e difficile e sapeva che in tal caso l’Italia non l’avrebbe potuta sostenere e vincere. Le difficoltà dell’Esercito e dell’Aeronautica gli erano note, l’impopolarità dell’intervento (specie a fianco della Germania) anche. Eppure egli si ostinava a chiedere alcune migliaia di morti per potersi sedere al tavolo delle trattative. Non potendo fare la guerra, per impreparazione, non volendo tirarsi indietro, per opportunismo e paura, escogitava un bluff: avrebbe fatto finta di fare la guerra, avrebbe giocato alla guerra. Una scelta non solo equivoca e di corto respiro ma anche cinica poiché comportava, come corollario, quelle poche migliaia di morti...

    L’esercizio di un potere sempre più dispotico e intollerante aveva tolto al Duce la lucidità necessaria per valutare appieno le situazioni. Né d’altronde furono altri a ridimensionarne i sogni megalomani o a bloccarne i progetti. Benché l’interventismo stesse facendo breccia tra molti politici, esponenti della borghesia e persino fasce della popolazione (in specie quelle che avevano tratto benefici dalle guerre precedenti), in quel momento solo una piccola parte della classe dirigente era favorevole all’entrata in guerra dell’Italia. Il re era contrario; Ciano, Grandi, Bottai e i gerarchi dotati di maggiore autorevolezza erano contrari; gli imprenditori più potenti erano anche loro contrari; eppure nessuno (ad eccezione degli oppositori politici) osò pubblicamente contrastare i voleri bellicosi di Mussolini. Il coraggio era divenuto virtù rara perché la propaganda e il conformismo aveva ottenebrato le menti e reso indifferenti anche gli intellettuali e gli uomini più consapevoli.

    La vendetta della Storia era tuttavia al lavoro e preparava giorni terribili per le Forze armate, per il popolo italiano e in conclusione per gli stessi uomini del governo e del regime.

    II

    Così fu la guerra, il 10 giugno 1940. Il Regio Esercito italiano, già in difficoltà organizzative, non disponeva che di armi antiquate (fucili modello 1891, artiglierie da 75 e 100 mm) o inadeguate (poche armi automatiche, carri FIAT da 3,5 e 6 tonnellate) alle esigenze di un moderno conflitto. Pochissime erano le artigliere anticarro e antiaeree e non più di 250 gli obici e i cannoni da 75, 149 e 210 mm di recente introduzione. Esso fu comunque e prontamente mobilitato per affrontare la Francia, prima che i tedeschi giungessero ad occuparla interamente.

    Le operazioni sul fronte italo-francese vennero affidate alla 1a e alla 4a Armata italiana - con la 7a, incompleta, in riserva - forti di circa 22 divisioni, 300.000 uomini e 2.900 pezzi di artiglieria. Esse consistevano unicamente in piccole azioni di disturbo alle posizioni nemiche di confine. Per quanto le difese francesi fossero sguarnite, nei giorni tra l’11 e il 14 le operazioni delle armate italiane si limitarono effettivamente a qualche sporadica azione tesa al rafforzamento delle postazioni alpine. Ad iniziare di

    1. Le operazioni italiane - Gruppo di armate Ovest - sul fronte francese (giugno 1940).

    fatto le ostilità furono pertanto gli inglesi - stizziti per la condotta di Mussolini - con il bombardamento aereo di Torino e Genova (12 giugno). Il 13 una rappresaglia aerea italiana sulla Francia meridionale spingeva la flotta francese ad uscire da Tolone e a sottoporre a bombardamento le strutture portuali di Vado e di Genova (14 giugno). Il Duce, che aveva da poco assunto l’incarico di Comandante in capo delle Forze armate italiane, toccato, ordinò solo allora attacchi alle fortificazioni nemiche e puntate oltreconfine da effettuarsi a partire dal 18 giugno[3].

    Intanto, il 14 i tedeschi erano arrivati a Parigi; e nei giorni successivi, nel mentre i francesi avanzavano proposte di armistizio, la Wehrmacht si limitava ad eliminare le ultime sacche di resistenza e a completare l’occupazione del Paese.

    Il contributo dell’Italia alla sconfitta della Francia era stato pressoché nullo. Né valsero a modificarlo le ultime offensive ordinate da Badoglio tra il 21 e il 24 giugno. Tanto sulla costa quanto sullo spartiacque alpino i risultati furono costosi e modesti. Si trattava, nell’insieme, più di uno scacco che di un successo: poiché erano bastati 10 giorni di guerra a rendere manifesta l’inefficienza dell’Esercito e a vanificare l’immagine di virilità del regime e del Paese che Mussolini aveva abilmente diffuso nel mondo.

    Fu Hitler a trarre d’impaccio il camerata italiano, obbligando i francesi a firmare un doppio armistizio: il primo con la Germania (22 giugno) e il secondo con l’Italia (24 giugno). Le autorità francesi accettarono recalcitrando, consce che poche divisioni insieme alla flotta, ancora intatta, sarebbero state in grado di piegare le Forze armate italiane. In compenso le iniziali esorbitanti pretese di Mussolini su Corsica, Tunisia e Provenza vennero drasticamente ridimensionate dallo stesso Fuhrer, che non desiderava umiliare - oltre lo stretto necessario - l’orgoglio della Francia.

    I soldati italiani, alcuni dei quali inviati al fronte, in alta montagna, con scarpe e divise leggere, alla notizia dell’armistizio respirarono: la temuta controffensiva nemica non ci sarebbe stata. Le perdite francesi degli scontri furono in tutto 229 (187 morti e dispersi, 42 feriti); quelle italiane 3.878 (1.247 morti e dispersi, 2.631 feriti) pressappoco quanto Mussolini aveva di fatto messo in conto.

    Nei mesi successivi, approfittando anche delle incertezze di Hitler e dell’OVW (Oberkommando der Wehrmacht) nella preparazione e avvio della campagna contro l’Inghilterra, Mussolini riprese con maggiore energia la sua guerra parallela.

    In Libia, dopo la morte di Italo Balbo, abbattuto forse per errore dalla contraerea italiana il 28 giugno nel cielo di Tobruk, era stato inviato il generale Rodolfo Graziani. Questi disponeva in totale di 12 divisioni metropolitane e 2 indigene, pari a 250.000 uomini sostenuti da 300 aerei, 1.000 pezzi di artiglieria, 5.000 mitragliatrici e un certo numero di carri leggeri. L’Africa Orientale Italiana (Eritrea, Etiopia e Somalia), governata da Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, era stata invece affidata al generale Claudio Terlizzi. Vi si trovavano 280.000 uomini (90.000 metropolitani e 190.000 indigeni), il più grande contingente del continente nero ma scarsamente motorizzato e con deboli supporti aerei. Mussolini premeva perché le forze italiane in Africa attaccassero senza indugi i numericamente più deboli reparti britannici; Graziani e Terlizzi, consapevoli della inadeguatezza dell’Esercito italiano a combattere negli sconfinati spazi del deserto o della savana, temporeggiavano. Finalmente il 3 agosto il Duca d’Aosta diede inizio alle operazioni contro i britannici. Dopo duri attacchi frontali portati contro le difese nemiche di Berbera, il 19 agosto le truppe italiane occuparono la Somalia britannica. Amedeo di Savoia avrebbe voluto assicurarsi anche il Sudan, occupando Khartoum e Port Sudan; ma le risorse non glielo consentivano.

    Poche settimane dopo, a partire dal 13 settembre, il maresciallo Graziani, sottoposto a forti pressioni, mosse all’offensiva contro l’Egitto. Egli, grazie alla sorpresa e all’insufficienza delle truppe britanniche a difesa, riuscì a portare la sua armata il giorno 17 a Sidi el-Barrani. Ma qui, in pieno deserto, con le tempeste di sabbia che imperversavano, Graziani si rese conto di non essere assolutamente in grado di proseguire l’avanzata verso la posizione fortificata di Marsa-Matruh. Glielo impedivano le difficoltà nei rifornimenti e l’insufficiente numero di autocarri e veicoli corazzati disponibili. Proseguire in quelle condizioni avrebbe significato consegnarsi ai britannici, i quali, per quanto assai più deboli negli organici, disponevano di un discreto armamento e di buoni reparti motorizzati e corazzati. Nonostante le insistenze di Mussolini a proseguire in avanti, il maresciallo Graziani decise pertanto di fermarsi e di attestarsi a Sidi el-Barrani. L’avanzata in Egitto, con obiettivo finale Suez, era terminata a meno di 100 chilometri dal punto di partenza.

    Nel frattempo, nulla o ben poco venne fatto per eliminare le basi navali britanniche nel Mediterraneo. La Regia Marina, guidata dall’ammiraglio Cavagnari, costituiva il comparto più moderno e più potente delle Forze armate italiane. Essa disponeva di 4 corazzate, 7 incrociatori pesanti, 12 incrociatori leggeri, 43 cacciatorpediniere, 69 motosiluranti e 105 sommergibili. Una flotta di tutto rispetto e, dopo l’eliminazione della Francia dal conflitto, l’unica che potesse competere con quella inglese nel Mediterraneo.

    Il 9 luglio, all’altezza di Punta Stilo, una squadra navale inglese ed una italiana

    3. L’offensiva italiana contro l’Egitto (settembre 1940).

    ebbero il primo contatto. Durante il combattimento l’ammiraglia italiana GIULIO CESARE venne colpita da una granata da 381 mm dell’ammiraglia nemica WARSPITE; e lo scontro si concluse con il rientro della squadra italiana al completo nel porto di Messina. Malta, che avrebbe potuto essere efficacemente colpita e forse occupata nelle prime settimane di guerra, misteriosamente fu solo bombardata. Né furono tentate altre azioni significative contro la flotta e i convogli britannici, neppure quando le circostanze si mostrarono favorevoli.

    Ciò in sostanza permetteva a Churchill e ai britannici la salvaguardia degli interessi e delle posizioni strategiche, proprio quando, dopo la rinuncia tedesca allo sbarco in Inghilterra e gli insoddisfacenti risultati dell’offensiva aerea della Luftwaffe sull’isola, il Mediterraneo si apprestava a divenire un teatro di guerra di primaria importanza.

    Nonostante le deludenti offensive dell’estate 1940, nell’ottobre Mussolini pervenne infine alla decisione di attaccare la Grecia non tenendo conto dei pareri negativi espressi dal Capo di stato maggiore, generale Badoglio, e da altri vertici delle Forze Armate.

    L’Italia si era da tempo preparata ad una eventuale invasione della Jugoslavia. Sconsigliato vivamente da Hitler ad agire contro di questa, il Duce cominciò a pensare ad una occupazione della Grecia. E il 12 di ottobre, con grande sorpresa e sconcerto generale, egli decise l’intervento e l’immediata mobilitazione dell’Esercito. La notizia dell’occupazione tedesca dei pozzi petroliferi rumeni, comunicata al solito dal Fuhrer a cosa avvenuta, aveva provocato i risentimenti di Mussolini, che volle ripagare il tedesco con la stessa moneta. Hitler - a suo pensare - avrebbe appreso dai giornali la notizia dell’attacco italiano alla Grecia.

    La data di inizio delle ostilità venne fissata al 28 ottobre, 18° anniversario della Marcia su Roma, e non permise un’adeguata preparazione della campagna. Gli stessi comandanti dell’Aeronautica e della Marina furono tardivamente informati della decisione. Ciò nonostante, il giorno 28, in condizioni atmosferiche proibitive, le operazioni ebbero puntualmente inizio, con solo 8 divisioni (105.000 uomini) su 20 potenzialmente disponibili[4]. E con una evidente sottovalutazione delle qualità strategiche e tattiche dell’esercito greco: forte di appena 13 divisioni ma energicamente comandato da un piccolo generale, Alexandros Papagos, nonché logisticamente sostenuto dalla Gran Bretagna.

    Secondo i piani, la 9a Armata italiana avrebbe dovuto marciare su Salonicco attraverso Florina ed Edessa e successivamente impadronirsi di Atene. Le divisioni Ferrara, Centauro e Siena mossero lungo il fiume Kalamas. Alla loro sinistra la divisione alpina Julia[5] puntò verso il passo di Metsovo, per tagliare i collegamenti dei greci tra l’Epiro e la Macedonia. Dopo pochi giorni di avanzata, con il maltempo che imperversava e i fiumi in piena, le truppe italiane vennero tuttavia bloccate da quelle greche e costrette ad una difficilissima opera di contenimento per evitare una rotta precipitosa e la catastrofe. La divisione Julia (che si era spinta più avanti delle altre), fu semiaccerchiata da diverse formazioni nemiche ad una tappa di marcia del passo di Metsovo. Le unità inviate a rinforzo vennero anch’esse arrestate; e l’8 novembre il comando italiano fu costretto a dare l’ordine di ritirata. La Julia, più che decimata[6], riuscì a stento a ripiegare. Il 14 novembre la disfatta si annunciava completa, con le truppe italiane che battendosi con coraggio rientravano in Albania, a copertura di Tirana e di Valona, ora minacciate dall’Esercito greco.

    Quella operazione che, nelle previsioni della vigilia, era stata definita una passeggiata si era trasformata in una delle sconfitte militari più cocenti di tutta la storia italiana post-unitaria. Il generale Soddu, comandante del fronte greco-albanese dopo il siluramento di Visconti-Prasca, e il generale Badoglio, Capo di Stato maggiore generale, colpevoli per Mussolini di inefficienza e inadempienza, vennero bruscamente licenziati. Il generale Ugo Cavallero, germanofilo, li avrebbe sostituiti in entrambe le responsabilità.

    Hitler, che aveva effettivamente saputo dell’attacco alla Grecia con solo qualche giorno di anticipo - restando di sasso - adesso era furente. Poiché la trovata di Mussolini, unita all’insuccesso dell’operazione, comportava per le potenze dell’Asse conseguenze di ordine politico oltre che militare. L’equilibrio nella penisola balcanica, sostanzialmente favorevole ai tedeschi, si era infranto; il rapporto tra la Germania e l’Unione Sovietica, regolato dal Patto Ribbentrop-Molotov, era reso più difficile; il generale Franco, capo del governo spagnolo, sciogliendo ogni riserva, rifiutava l’ipotesi di belligeranza a fianco della Germania e dell’Italia; l’opinione pubblica americana, abbandonate la più rigide posizioni neutraliste, si impegnava perché i britannici fossero almeno riforniti e si preparava ad un possibile - se necessario - intervento in guerra; l’Inghilterra, infine, che avrebbe potuta essere seriamente colpita dall’Italia a Malta, Suez e nei suoi interessi mediterranei più in generale, superava la fase più difficile, traumatica della guerra e si apprestava a nuovi scontri con maggiore fiducia nel successo finale.

    La tela dei rapporti diplomatici pazientemente tessuta dai tedeschi in Europa nei mesi successivi alla caduta della Francia, e volta a isolare la Gran Bretagna, finiva a pezzi. Il Fuhrer era ora costretto a rivedere i suoi piani di guerra e a prepararsi ad un più aspro, estenuante combattimento contro i britannici e i loro alleati. Le sortite di Mussolini ottenevano effetti contrari a quelli sperati: e la guerra, da breve e sostanzialmente europea, si avviava a divenire lunga ed extracontinentale, dunque mondiale.

    4. La campagna italiana di Grecia (ottobre-dicembre 1940).

    III

    Altri gravi insuccessi militari, per l’Italia, si accompagnavano o seguivano alla disfatta di Grecia.

    Il giorno 11 novembre, l’ammiraglio britannico Cunningham, avendo atteso invano lo scontro in mare aperto con la flotta italiana, decise di attaccarla dal cielo, nella rada di Taranto dov’era ricoverata. L’operazione appariva rischiosa; ma la sorpresa fu totale e avvantaggiò i britannici. Partendo da un’unica portaerei e superando gli sbarramenti protettivi, 21 vecchi velivoli Swordfish riuscirono a sganciare alcuni siluri sulle corazzate CAVOUR, DUILIO, LITTORIO e VITTORIO VENETO. La CAVOUR fu col-

    5. La controffensiva britannica in Africa settentrionale (10 dicembre 1940-9febbraio 1941).

    pita in pieno e affondò; la DUILIO e la LITTORIO restarono seriamente danneggiate. Con due soli aerei perduti, Cunningham aveva dimezzato la flotta corazzata italiana. I convogli britannici avrebbero ricominciato a navigare indenni nel Mediterraneo evitando - per raggiungere l’Egitto e il Medio Oriente - il lungo periplo dell’Africa.

    Le difficoltà delle Forze armate italiane si manifestavano ormai con evidenza su tutti i fronti. Aiuti militari, soprattutto in veicoli corazzati, offerti dai tedeschi furono sdegnosamente rifiutati - per ragioni eminentemente politiche - dagli alti comandi e dallo stesso Mussolini. E quando anche in Africa gli eventi volgevano decisamente al peggio.

    Il maresciallo Graziani, a Sidi el-Barrani, si era attestato tra il mare e il pendio di Sofafi. Pur disponendo di 7 divisioni (circa 160.000 uomini) contro le 2 divisioni del XIII Corpo britannico (la 4a indiana e la 7a corazzata, forti di 40.000 uomini circa), l’Armata italiana si trovava in netta inferiorità quanto a supporti motorizzati e aeronavali. Del tutto insoddisfacente era l’armamento: accanto ai fucili ‘91 e ad un numero insufficiente di mitragliatrici FIAT - solite ad incepparsi - essa era dotata di batterie da 100 e 149 mm e qualche altra cosa non creduta e non stimata[7], insieme a circa 40 carri leggeri L3 (detti scatole di sardine) e 72 carri medi M11: ciò che non consentiva alcuna efficace manovra offensiva di fronte ai circa 300 carri medi e pesanti nemici.

    Wavell, comandante delle forze britanniche nel Medio Oriente, si era in realtà preparato alla difensiva; e O’Connor, comandante dell’Armata del Nilo, decise di dare battaglia solo quando si rese conto della situazione e delle intenzioni degli italiani. Il 9 dicembre, i mezzi corazzati britannici aggirarono da sud, nel deserto, le opposte posizioni avanzate di Nibeiwa e portarono l’attacco al grosso dell’Armata italiana scardinandone le difese in appena quattro giorni. Per evitare l’accerchiamento Graziani decise di ordinare la ritirata, abbandonando ai britannici 38.300 prigionieri.

    O’Connor non aveva previsto un successo così clamoroso; e non si era preparato ad inseguire gli italiani in Marmarica. Le incertezze dei comandi britannici salvavano l’Armata italiana da una probabile distruzione.

    Il maresciallo Graziani avrebbe voluto portarsi rapidamente verso Tripoli ma fu costretto dal Comando Supremo ad attestare le sue truppe a Bardia, ultima città libica al confine con l’Egitto, in una posizione ancora poco felice per la difesa. Qui, in un perimetro fortificato di circa 30 chilometri, vennero schierati 45.000 uomini, al comando del generale Bergonzoli. Le opere di difesa, frettolosamente realizzate, cedettero tuttavia nuovamente sotto l’urto del secondo attacco britannico. Il 3 gennaio 1941, due brigate di fanteria australiana, con il sostegno di una trentina di carri e delle artiglierie navali, penetrarono le linee italiane e gettarono lo scompiglio tra i reparti di Bergonzoli. 40.000 soldati finivano ancora prigionieri dei britannici nel mentre i resti si ritiravano precipitosamente su Tobruk. L’intera operazione era costata all’Armata del Nilo appena 450 morti e feriti.

    La strategia britannica in Africa si precisava giorno dopo giorno e puntava ora apertamente alla liquidazione della presenza italiana sul continente. Così, mentre le forze di O’Connor in Africa settentrionale riprendevano l’inseguimento degli italiani attraverso la Cirenaica, 80.000 anglo-sudafricani si raggruppavano nel Kenia e in Sudan per attaccare la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia italiane.

    Il Duca d’Aosta, viceré d’Etiopia, aveva cercato durante l’estate e l’autunno del 1940 di imprimere alla lotta contro gli inglesi una condotta rispondente anche agli interessi italiani in Africa settentrionale; ma non fu compreso. Il mancato collegamento con le forze operanti in Libia - attraverso il Sudan - finì pertanto per creare ben presto una estrema difficoltà nei rifornimenti delle truppe dell’Africa Orientale Italiana e per costringerle a contare esclusivamente sulle risorse locali.

    Troppo poco per un esercito costretto a fronteggiare un efficiente contingente britannico, che contava su approvvigionamenti generosi e continui e che ora poteva permettersi di chiudere in una morsa - da terra e da mare - le colonie italiane del Corno d’Africa, senza fretta e senza alcun disturbo.

    Mussolini per un momento sperò di risollevare le sorti della guerra e la credibilità dell’Italia con una controffensiva in Albania e una difesa ad oltranza di Tobruk. Si trattò di una breve illusione. In Albania una divisione scelta, la 7a Lupi di Toscana, subiva uno scacco già alla sua entrata in linea; e Tobruk cadeva dopo una debole resistenza.

    In Africa settentrionale, Graziani ordinava intanto alle sue truppe di portarsi, attraverso Derna e Bengasi, direttamente verso Tripoli. A nulla valsero i richiami da Roma e l’arrivo di 57 buoni carri M13 (da 13 tonnellate) per indurlo a fermarsi sul Gebel; che tuttavia si rivelò immediatamente come indifendibile. La 7a Divisione corazzata britannica[8], tagliando attraverso il deserto, piombò dopo Bengasi sulle colonne italiane in movimento lungo la strada costiera e le arrestò. Una successiva manovra di accerchiamento procurava ai britannici la cattura di altri 25.000 prigionieri. Da Sidi el-Barrani al golfo della Sirte, l’Armata italiana aveva perduto circa 130.000 uomini, in grandissima parte catturati dal nemico insieme ad ingenti quantità di armi e materiali. L’esercito di Graziani non era stato del tutto annientato ma era decisamente alle corde. La caduta di Tripoli appariva inevitabile e imminente.

    La crisi delle Forze armate italiane non poteva essere più netta. L’ipotesi di guerra parallela dell’Italia era clamorosamente fallita. E, per evitare la resa o il ritiro dei contingenti, a Mussolini non restava che accettare l’aiuto tedesco.

    D’ora in avanti si sarebbe perciò combattuto non più a fianco della Germania ma con la Germania, con Hitler, i cui comandi avrebbero elaborato i piani strategici e deciso la condotta della guerra. Nonostante le persistenti velleità concorrenziali del Duce, le Forze armate italiane perdevano inevitabilmente autonomia e si apprestavano a diventare gregarie, di supporto a quelle tedesche.

    Ciò che Mussolini aveva tentato di scongiurare con la dichiarazione di guerra dell’Italia si stava dunque paradossalmente realizzando. Aveva tentato di salvare la sua immagine, e l’aveva distrutta, era stato ridicolizzato nel suo orgoglio; aveva cercato di accrescere il prestigio e il consenso al regime, e adesso questi apparivano perlomeno intaccati; aveva sperato di fare dell’Italia una grande potenza imperialistica riuscendo invece a creare le premesse per la perdita di tutte le colonie, peraltro faticosamente conquistate nel corso di un sessantennio.

    Il 6 febbraio 1941, dopo la conquista di El-Agheila, l’avanzata dei britannici verso Tripoli inaspettatamente si fermò. Nuovi avvenimenti avevano momentaneamente distolto l’attenzione del primo ministro inglese Churchill (ormai sicuro della disfatta dell’Italia) dal fronte dell’Africa settentrionale e lo avevano spinto ad interessarsi della Grecia. Secondo indiscrezioni, i tedeschi si stavano preparando all’invasione della penisola balcanica. Occorreva allora, per Churchill, costruire al più presto un baluardo antigermanico in tale area. La Grecia costituiva la regione strategicamente più importante dell’intera area; ed essa andava pertanto rafforzata e sostenuta con ogni mezzo nella lotta contro gli italiani che ancora resistevano in Albania.

    Fu quindi dato ordine di allestire un Corpo di spedizione britannico in Grecia; con grande rammarico di Wavell (già impegnato su due fronti in Africa), costretto suo malgrado a rinunciare all’attacco decisivo contro l’Armata italiana in Libia.

    Nello stesso tempo importanti novità si avevano anche a Berlino, dove l’OKW stava definendo i piani di invasione sia della penisola balcanica che della Russia (la cui attuazione era prevista rispettivamente per l’inizio e la fine della primavera 1941). Hitler e Keitel, ritenendo di non poter consentire l’occupazione britannica della Libia, accoglievano infatti le richieste di aiuto formulate dal generale Guzzoni e decidevano di conseguenza.

    Un Corpo di spedizione tedesco, denominato Deutsche Afrikakorps - composto dalla 5a Divisione leggera, da un reggimento carri e dalla 15a Divisione panzer - sarebbe al più presto stato inviato in Africa settentrionale. A due sole condizioni: che il comando del Corpo, pur sottoposto nominalmente a quello dell’Armata italiana, godesse di una sostanziale autonomia e avesse diritto di appellarsi all’OKW in caso

    6. Direttrici dell’offensiva britannica contro l’Africa Orientale Italiana (gennaio-aprile 1941).

    di disaccordo; e che la divisione corazzata italiana Ariete, di recente allestimento, fosse prontamente inviata in Africa settentrionale insieme alle forze tedesche.

    Mussolini accettò, rimosse Graziani e nominò il generale Gariboldi comandante dell’Armata italiana in Libia. Il comando dell’Afrikorps, dopo qualche ripensamento, venne da Hitler affidato ad un generale che si era già distinto nella campagna di Francia per intuito e capacità strategiche. Si chiamava: Erwin Rommel.

    Nel mentre veniva costituito il sodalizio italo-tedesco in Africa settentrionale si consumava peraltro in Africa Orientale l’ultima tragedia interamente italiana. In quest’area le operazioni dei britannici, iniziate alle fine di gennaio, si svilupparono con gradualità verso l’interno delle colonie italiane e dettero esito positivo nel giro di pochi mesi: tra febbraio e marzo cadevano la Somalia e l’Eritrea, in aprile l’Etiopia.

    I comandanti italiani, tra cui si distinsero i generali Carnimeo, Gazzera, Nasi, pur disponendo complessivamente di soli 480 pezzi di artiglieria, 240 aerei e una settantina di carri leggeri e medi, impegnarono a fondo le divisioni britanniche in sanguinosi scontri attorno a postazioni di montagna. A Cheren, all’Amba Alagi si svolsero selvaggi combattimenti che culminarono in episodi di lotta all’arma bianca. Sull’acrocoro etiopico, alcune sacche di resistenza furono espugnate dai britannici soltanto all’inizio dell’estate[9].

    Il sacrificio dei soldati e ufficiali italiani in Africa Orientale[10] non potè dunque che ritardare l’inevitabile successo nemico ma ebbe un’utilità indiretta giacché, impegnando per tutto l’inverno cospicue forze avverse impedì ai britannici la liquidazione dell’Armata italiana arretrata in Libia.

    Gli inglesi vedevano ora, con soddisfazione, eliminata la scomoda presenza italiana sul Mar Rosso e sull’Oceano Indiano. E Churchill arrivò ad ipotizzare un attacco, a breve scadenza, alla Sicilia. Peccava evidentemente di ottimismo. Ma la parte più avveduta del popolo italiano a quel tempo, con le cattive notizie che giungevano dal fronte o comunque trapelavano, se si fosse potuta pronunciare avrebbe probabilmente chiesto il ritiro dell’Italia dal conflitto; di tanto era scesa la credibilità del regime, tanto scarse apparivano le possibilità che le Forze armate riuscissero a risollevare in qualche modo le sorti dello scontro.

    IV

    Agli inizi del 1941, i maggiori teatri bellici relativi al conflitto tra le forze dell’Asse e quelle Alleate erano: le Isole Britanniche (battaglia aerea d’Inghilterra), l’Atlantico (battaglia dei convogli), i Balcani, il Mediterraneo e le colonie italiane d’Africa.

    La situazione politico-militare appariva assai fluida, aperta a nuovi imprevedibili sviluppi, e si caratterizzava per un inaspettato benché limitato intervento tedesco nell’area mediterranea. In gennaio, forze germaniche avevano cominciato ad affluire in Romania, in preparazione dell’attacco alla Grecia; e in Sicilia era giunto, proveniente dalla Norvegia, il X. Flieger-Korps tedesco allo scopo di operare nel Mediterraneo.

    Le prime azioni del X. Flieger-Korps sorpresero in pieno i britannici e modificarono da subito i rapporti di forza sul mare. Gli attacchi degli Ju-88 (bombardieri bimotori orizzontali) e degli Ju-87 o Stukas (bombardieri monomotori in picchiata) ai convogli britannici si intensificarono gradualmente, riuscendo a mettere in gravi difficoltà le forze dell’ammiraglio Cunningham. Di conseguenza l’attività della flotta mercantile e militare britannica nel Mediterraneo fu - tra febbraio e giugno 1941 - notevolmente ridimensionata.

    Il 12 febbraio, sei giorni dopo l’arresto dell’offensiva britannica, Erwin Rommel era giunto intanto a Tripoli. Comandante senza truppe, il soldato al sole si limitò a studiare il terreno nonché gli schieramenti e i movimenti dell’Armata del Nilo. Gli ordini con cui era partito da Berlino gli imponevano d’altronde prudenza e un atteggiamento essenzialmente difensivo. Rommel tuttavia osservava che gli inglesi stavano in parte sguarnendo le postazioni in Cirenaica o modificando le precedenti disposizioni; e ritenne, all’opposto, di poter agire con tempestività attaccando.

    I primi reparti della 5a Divisione leggera tedesca cominciarono ad arrivare in Libia dal 21 febbraio[11]; ma le operazioni di imbarco e sbarco procedevano con estrema lentezza. Ad un mese di distanza, la 5a Divisione leggera non era ancora al completo e la 15a Divisione panzer si trovava in buona parte in suolo germanico. I britannici.

    7. Direttrici della prima offensiva italo-tedesca in Africa settentrionale (1941).

    nonostante Parrivo di truppe tedesche e un violento bombardamento aereo di Bengasi, continuavano a mantenersi tranquilli. Essi ragionevolmente pensavano che i tedeschi non sarebbero stati pronti ad attaccare prima di maggio.

    Ma Rommel non intendeva aspettare; e, ricevuto il reggimento carri, con le sole forze disponibili mosse, il 21 marzo, contro il nemico. Il 24, piccoli scontri coronati da successo gli consentirono di riconquistare El-Agheila e lo rafforzarono nella convinzione di poter impegnare il grosso dell’Armata del Nilo. Pochi giorni dopo, alla fine di marzo, egli lanciò pertanto - con la Divisione Brescia e una parte della 5a Divisione leggera una veloce offensiva verso Agedabia, Bengasi e Derna, sulla costiera, abilmente rafforzata con una manovra di aggiramento a sud del Gebel, in pieno deserto, condotta con le unità motocorazzate della Divisione Ariete e della restante parte della 5a Divisione leggera. Per accrescere i timori del nemico, i tedeschi camuffarono i camion in carri armati e sollevarono grandi nuvole di polvere. I britannici si ritirarono.

    La mattina del 4 aprile, le truppe in marcia sulla strada costiera raggiunsero Bengasi, accolte dai coloni italiani in festa. Gariboldi e gli stessi alti comandi tedeschi, paghi dei risultati e scambiando l’audacia per irresponsabilità, premevano su Rommel perché desistesse e arrestasse l’offensiva. Troppo tardi: i reparti in mezzo al deserto chiedevano di andare avanti; né d’altronde l’armata britannica, in pieno caos, sembrava più in grado di opporre una valida resistenza. Il giorno 6 Derna capitolava e durante la notte, in un’auto nei pressi della città, erano sorpresi e catturati tre generali britannici: O’Connor, Neame e Combe, i comandanti stessi dell’Armata del Nilo!

    Tra l’11 e il 12 aprile, accerchiata Tobruk, che non cadde, le forze italo-tedesche raggiunsero il confine egiziano; e si attestarono sulla linea Sollum-Halfaya, idonea ad essere fortificata.

    Il bilancio della ritirata per i britannici si configurava pesante: due divisioni completamente distrutte, decine di carri abbandonati al nemico, il ritorno - in 20 giorni - pressoché alle posizioni di partenza dell’anno precedente. Solo Tobruk, tenuta da una guarnigione di 36.000 uomini e rifornita dal mare, aveva resistito. I carri tedeschi, veloci e dotati di notevole gittata, nonché l’abile guerra di movimento adottata da Rommel, avevano ancora una volta dimostrato che nel deserto la qualità pagava più della quantità.

    V

    Importanti sviluppi si verificavano intanto nella penisola balcanica. Il 1° marzo (dopo la Romania e l’Ungheria) la Bulgaria offriva la sua adesione alle potenze dell’Asse. Il giorno dopo, consistenti forze tedesche, superato il Danubio, iniziavano a concentrarsi per l’attacco alla Grecia e, se necessario, alla Jugoslavia.

    A Belgrado non esisteva infatti un accordo sull’atteggiamento da assumere nei confronti dei tedeschi: i croati e gli sloveni erano disponibili a intessere rapporti di amicizia e di alleanza; i serbi, fiduciosi in un intervento dell’Unione Sovietica in caso di aggressione, erano su posizioni antigermaniche. Hitler attese con pazienza l’esito del confronto; e diede il via libera all’invasione solo quando un colpo di stato portò al potere, il 26 marzo, una fazione vicina alle posizioni dei serbi.

    Il 6 aprile, la Wehrmacht superò con le forze terrestri il confine jugoslavo nel mentre le forze aeree bombardavano pesantemente Belgrado e i principali aeroporti del Paese. I generali slavi pensavano di poter resistere, ma in pochi giorni le punte corazzate tedesche, superando gli ostacoli naturali, scardinarono in profondità le linee nemiche e crearono scompiglio negli schieramenti difensivi. Una parte dell’esercito slavo si portò inutilmente in Bosnia, nel tentativo di creare un ultimo baluardo di resistenza; dove, accerchiata con il concorso di reparti italiani provenienti dall’Albania, finì per arrendersi ai tedeschi.

    I greci di Papagos, attestati sulla linea del Metaxas, nei pressi del confine bulgaro, si difesero per alcuni giorni con accanimento dai ripetuti attacchi tedeschi. E fu solo una brillante azione di aggiramento delle loro posizioni difensive - condotta dalla 2a Divisione panzer di Veier - a costringerli alla ritirata. Più a sud altre due divisioni greche, intatte, e l’intero Corpo di spedizione britannico - forte di 55.000 uomini - avrebbero potuto ancora tentare di fermare o di rallentare l’avanzata tedesca. La prospettiva di una sconfitta comunque certa convinse i generali Papagos e Wilson prima a temporeggiare poi a desistere.

    Con una precipitosa ritirata verso il Peloponneso e un altrettanto rapido reimbarco

    8. L’occupazione tedesca e italiana della Jugoslavia (aprile 1941).

    9. L’occupazione tedesca della Grecia (aprile 1941).

    ad opera della Royal Navy, il Corpo di spedizione britannico in Grecia riuscì a mettere in salvo 41.000 uomini. Per sua fortuna, la flotta italiana, da poco pesantemente colpita da Cunningham al largo di Capo Matapan, non era in grado di intervenire.

    La conclusione delle campagne di Jugoslavia e di Grecia, rispettivamente il 18 e il 24 aprile 1941, costituiva in ogni caso più che un successo per Hitler e per l’Esercito tedesco. La Jugoslavia, piegata in 11 giorni, e la Grecia, che si era battuta, in poco più di 15, avevano lasciato in mano alla Wehrmacht 660.000 prigionieri serbi e greci ed erano costate in tutto ai tedeschi 1.684 morti e dispersi.

    La guerra lampo, la guerra di movimento si affermava, dall’Africa ai Balcani, come un modello ancora vincente sotto ogni aspetto, non ultimo quello dell’economia di vite umane.

    Churchill, che aveva imposto la spedizione britannica in Grecia, accusava un duro scacco. Dopo l’autunno 1940, l’Inghilterra non aveva conosciuto un momento così grave. I successi mediterranei di 10 mesi di guerra erano stati cancellati, improvvisamente azzerati dall’efficace intervento tedesco. Occorreva ricominciare daccapo.

    Novità si avevano inoltre nei Paesi del Medio Oriente. In Iraq si sviluppavano rivolte anti inglesi; in Egitto e in diversi altri stati arabi si diffondevano sentimenti anti britannici, a volte scopertamente filo germanici. Per i tedeschi si offrivano possibilità di intervento insperate, preziose occasioni per eliminare o drasticamente ridurre la presenza inglese in quella importante area geopolitica.

    In maggio, vinta l’esitazione di Hitler, il generale dei paracadutisti Student fu autorizzato a preparare quindi ad attuare l’invasione di Creta. Il giorno 20 forze aviotrasportate scesero sull’isola e ne attaccarono i presidi, tenuti da un nutrito contingente ellenico e da un contingente britannico. Gli aspri combattimenti che seguirono diedero esito incerto per alcuni giorni. I tedeschi detenevano il dominio dell’aria; gli inglesi quello del mare. Finalmente, in seguito a martellanti bombardamenti aerei sulle navi nemiche e all’arrivo di rinforzi, i paracadutisti tedeschi riuscirono a piegare la resistenza anglo-greca.

    Creta era stata conquistata. Ma le perdite germaniche, 1.990 morti e 4.700 feriti, sebbene inferiori a quelle greco-britanniche, allarmarono Hitler e lo indussero a rinunciare per il futuro ad operazioni offensive condotte con forze paracadutate.

    L’invasione dell’Egitto o un attacco a Cipro oppure al Libano sembravano probabili, imminenti. Nulla di questo tuttavia accadde. Hitler, che stava ultimando i preparativi per l’attuazione del piano Barbarossa contro l’Unione Sovietica, bloccò ogni altra iniziativa e costrinse Rommel a rinunciare all’avanzata verso Alessandria d’Egitto e verso Suez, la cui conquista appariva non solo possibile e opportuna bensì necessaria per porre fine all’egemonia navale britannica nel Mediterraneo.

    VI

    Il 22 giugno 1941, le armate germaniche iniziarono l’invasione dell’Unione Sovietica. La volontà di schiacciare la Russia e la sua confederazione, viste come luogo dalle enormi risorse, abitato da una sorta di sottospecie umana governata dal comunismo bolscevico, aveva indotto il Fuhrer a violare il comodo trattato Ribbentrop-Molotov e a dare il via alla più grande campagna terrestre del conflitto.

    L’attacco alla penisola balcanica ne aveva tuttavia posticipato la data, in precedenza fissata al 15 maggio. Le operazioni, secondo la previsioni dell’OKW, avrebbero dovuto concludersi entro l’inverno, in coincidenza con l’arrivo del tremendo gelo delle steppe russe. Nelle intenzioni, ancora una guerra-lampo, dunque, che cercava di sfruttare il fattore sorpresa e le veloci offensive delle grandi unità panzer. Gli alti comandi tedeschi avevano mobilitato allo scopo oltre 130 divisioni, 3.300 carri e 2.000 aerei: una forza notevole benché non ottimale, a causa degli impegni cui Heer, Luftwaffe e Kriegsmarine assolvevano contemporaneamente nei territori occupati e sugli altri fronti di guerra.

    Le armate furono concentrate e suddivise in tre gruppi: Nord, Centro e Sud, che sarebbero dovuti avanzare rispettivamente sulle direttrici di Leningrado, Mosca e Rostov. Conquistata la capitale, con una manovra a tenaglia, essi avrebbero ancora proseguito l’avanzata fino a raggiungere, ben oltre Mosca, la linea Astrahan-Arcangelo (mar Caspio-mar Bianco). Il piano era faraonico e, per la prima volta dal 1939, non ben rifinito neppure con obiettivi finali certi e definitivi. E oltretutto con un’ampiezza notevole del fronte, da 1.500 a 3.000 chilometri, che avrebbe creato problemi crescenti, in proporzione all’avanzata, a Guderian, Kleist, Hoth, Hopner, Manstein e gli altri strateghi della guerra corazzata.

    Mussolini non seppe dell’attacco tedesco alla Russia che all’ultimo momento. Tuttavia - tanto in segno di gratitudine per gli aiuti ricevuti dal Fuhrer quanto per ragioni di carattere eminentemente politico - dispose l’allestimento del C.S.I.R. (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) forte di 3 divisioni (62.000 uomini, con 4.600 autocarri e 220 pezzi di artiglieria) e il suo immediato invio in Unione Sovietica, sotto il comando del generale Giovanni Messe.

    Le operazioni della Wehrmacht, nelle prime settimane di guerra, si svilupparono favorevolmente, sebbene con una sorpresa: l’insospettata resistenza e il discreto armamento delle truppe sovietiche nemiche, dotate di un ottimo carro, il T-34, già prodotto in molte migliaia di esemplari, di buoni mortai e del lanciarazzi multiplo Katjuscia, in grado di sparare 320 razzi in 25 secondi. Apparve subito chiaro che la lotta sarebbe stata dura e forse più lunga del previsto giacché si erano eccessivamente sottovalutate le capacità e la qualità dell’Armata Rossa.

    In circa 20 giorni, il Gruppo di armate Nord avanzò in Lituania e Lettonia, occupando Riga; e il Gruppo Centro in Bielorussia, occupando Minsk. Nel corso di un’audace manovra del Gruppo di armate Centro, Guderian e Hoth superavano sui fianchi la 2a, la 4a e la 10a Armata sovietiche e le chiudevano in una sacca. 328.000 prigionieri, 1.800 cannoni, 3.300 veicoli corazzati costituivano il compenso dell’azione. Più lenta e difficoltosa si sviluppò invece l’avanzata del Gruppo di armate Sud in Ucraina, dove i tedeschi scontavano una netta inferiorità in uomini e talora anche in mezzi.

    Il 1° luglio, quasi metà delle 164 divisioni sovietiche effettivamente schierate il 22 giugno risultavano distrutte o pesantemente ridimensionate. Stalin, furbescamente giocato dal suo ex alleato Hitler, ricompariva in pubblico il 3 luglio per annunciare la volontà di resistere agli aggressori in ogni modo e con ogni mezzo: dal sabotaggio alla lotta partigiana alla distruzione delle risorse e dei ricoveri davanti al nemico. Quanto alle truppe, esse avrebbero dovuto battersi fino all’ultimo uomo; la possibilità di resa non era contemplata.

    Stretta tra le dure direttive di Hitler e quelle altrettanto energiche di Stalin, la guerra in Russia portò ben presto ad un imbarbarimento dei rapporti tanto tra i combattenti quanto tra i tedeschi e la popolazione, i civili. Alle esecuzioni sommarie di commissari politici, partigiani, ebrei russi corrispondevano spesso le torture o le esecuzioni di soldati tedeschi ad opera di partigiani e persino di forze regolari sovietiche.

    In luglio e nella prima metà di agosto, pur se ostacolata, la Wehrmacht colse nuovi successi e proseguì l’avanzata, resa più lenta del previsto dalle condizioni del terreno (ora acquitrinoso ora polveroso) e dalle difficoltà delle fanterie - solo in parte motorizzate - a tenere il passo con i veicoli dei corpi corazzati. Nel settore nord, essa giunse nei pressi di Leningrado; al centro a Smolensk, dopo aver battuto ancora le migliori armate di Timosenko e catturato altre centinaia di migliaia di prigionieri; e a sud avanzò vero il Bug e il Dnepr.

    Mosca era in pericolo e Guderian chiedeva di poterla prendere. Il morale dei suoi uomini era alto, nonostante la durezza dei combattimenti, giacché a breve questi presumevano che sarebbero entrati a Mosca! Ma Hitler non era dello stesso avviso. E piegando ai suoi voleri l’OKW ordinò la conquista dell’Ucraina. Occorreva impossessarsi delle ricchezze agricole, minerarie e industriali della Russia sud-occidentale; occorreva distruggere l’ultimo Gruppo di armate sovietiche rimasto pressoché intatto! Solo dopo si sarebbe dato il via alla battaglia per Mosca. A malincuore, i comandanti e le truppe dell’Esercito tedesco si impegnarono ancora in difficili estenuanti combattimenti. Il 25 agosto, il Gruppo di armate Centro, effettuando una svolta a destra di 90 gradi, puntò sul fianco e a ridosso delle armate nemiche che difendevano Kiev. La pronta avanzata del Gruppo Sud consentì di nuovo di chiudere i sovietici di Budenny in una grande sacca. Grazie ai buoni successi conseguiti, la battaglia di Ucraina si concludeva nel giro di un mese con la cattura di 655.000 uomini dell’Armata Rossa.

    Per Hitler era l’apoteosi, giacché i fatti avevano dato ragione al suo intuito. In Inghilterra tornava l’incubo dell’invasione tedesca e Churchill, preoccupato, spingeva gli Stati Uniti a compiere ogni sforzo per aiutare Stalin e l’Unione Sovietica.

    L’alto comando dell’Esercito tedesco (OKH) chiedeva ora di poter chiudere la campagna di Russia con la rapida conquista di Mosca o, in alternativa, di potersi attestare su di una linea difendibile per potervi trascorrere l’inverno e riprendere le operazioni in primavera. Hitler continuava a dissentire: bisognava sì conquistare Mosca, con il Gruppo di armate Centro, ma allo stesso tempo continuare l’avanzata verso Arcangelo, a nord, e verso Stalingrado e il Caucaso, a sud. Di fronte ad un nemico che dopo ogni sconfitta rialzava prontamente la testa e che adesso mobilitava 300 divisioni, con la stagione delle piogge alle porte e il freddo in arrivo, e con una Wehrmacht che dall’inizio della campagna non aveva ricevuto che insufficienti rifornimenti e insignificanti rinforzi, contro ogni logica strategica il Fuhrer ordinava di estendere ulteriormente - a ventaglio - il fronte di lotta.

    Hitler pretendeva dalla sue forze ciò che nessun esercito avrebbe mai potuto fare; per di più entro Natale! L’intuito strategico, l’accortezza tattica che egli aveva in qualche altra occasione dimostrato di possedere ora cedevano il posto all’astrattezza dei ragionamenti e alle forzature della sua imperiosa volontà. Il parere dei valorosi comandanti delle Forze armate tedesche non contava nulla: bisognava obbedire e terminare comunque la conquista della Russia entro l’anno.

    L’offensiva germanica riprese il 2 ottobre. Ancora con dei successi. Il solo Gruppo di armate Centro catturò altri 663.000 prigionieri, sfondando la prima barriera difensiva eretta intorno alla capitale. A Mosca si diffondeva il panico: ministri, alti personaggi insieme a popolani abbandonavano la città diretti ad est o in Siberia.

    Ma la Wehrmacht si stava logorando. La pioggia creava fango, che bloccava o ritardava fortemente molte operazioni. I fanti dell’Esercito tedesco, in divisa estiva, soffrivano il freddo e la fame. Sarebbe stato opportuno interrompere l’avanzata. Fu ordinato di proseguirla. Con un gelo sempre più intenso, che rendeva difficile i movimenti delle truppe e incollava - come cemento - al suolo i carri e i mezzi bellici limitandone fortemente l’efficienza, le avanguardie del Gruppo Centro giunsero infine - negli ultimi giorni di novembre - a poche decine di chilometri da Mosca. Ed esauste, con migliaia di congelamenti, lanciarono l’ultima sofferta offensiva per prendere Mosca.

    Il 4 dicembre, la periferia della capitale sovietica fu raggiunta: le torri del Cremlino già visibili da alcuni avamposti. Tuttavia Guderian, da Jasnaja Poljana, sulla linea del fuoco, a 50 gradi sotto zero, chiamava gli alti comandi e comunicava loro l’intenzione di arrestare l’avanzata. Di fronte all’ipotesi di una logorante, e sicuramente perdente, battaglia per il possesso della città preferiva fermarsi e arretrare su posizioni più sicure. Contemporaneamente gli altri comandanti dei corpi corazzati pervenivano alle medesime conclusioni; e agivano di conseguenza.

    Hitler, pur contrario, era costretto a cedere: l’obiettivo di conquistare Mosca e la Russia entro l’autunno-inverno era fallito. La Wehrmacht, spossata, era costretta alla difensiva e ad un difficile aggiustamento tattico. Il futuro si caricava di incognite. Una inquietudine prima sconosciuta penetrava nei rifugi solitari della Prussia Orientale, in

    11. La controffensiva britannica in Africa settentrionale (novembre 1941-gennaio 1942).

    mezzo ai boschi dove il Fuhrer e YOKW avevano stabilito il quartier generale.

    L’interruzione dell’offensiva tedesca non segnò tuttavia l’inizio di un periodo di tregua in Russia. Truppe sovietiche addestrate in Siberia alla guerra d’inverno, approfittando delle difficoltà del nemico, contrattaccarono con vigore.

    Hitler ordinò ai suoi uomini di non indietreggiare di un passo e di morire sul posto piuttosto che arrendersi. E tra gli ufficiali, coloro che non concordavano con il suo punto di vista furono prontamente rimossi quando non deferiti ai tribunali militari. Alcuni dei protagonisti della campagna di Russia, da Rundstedt a Brauchitsch, da Guderian ad Hopner caddero in disgrazia e persero il comando.

    L’arretramento tattico (insieme ad una dura resistenza antisovietica) si rendeva comunque necessario per salvare la Wehrmacht da una grave crisi; ed Hitler alla fine fu costretto ad accettare ciò che aveva in principio aprioristicamente rifiutato.

    L’estate era trascorsa in Africa settentrionale senza grosse novità. Tobruk resisteva ai ripetuti attacchi di Rommel, stratega di grandi capacità ma sicuramente poco adatto alla guerra di posizione. L’Afrikakorps contava ora tre divisioni: la 15a e la 21a Divisione panzer (che aveva inglobato la 5a leggera e il suo reggimento carri) e la 90a leggera; l’Armata italiana (comandata dal generale Bastico) 8 divisioni: 7 di fanteria e 1 motocorazzata. A queste forze gli ordini provenienti da Roma e da Berlino imponevano atteggiamenti esclusivamente difensivi.

    Gli effetti della campagna di Russia non tardarono peraltro a farsi sentire anche nel Mediterraneo. In agosto-settembre, sul mare, i convogli dell’Asse diretti in Libia furono affondati mediamente al 40%; e nell’ottobre-novembre si giunse alla quasi paralisi dei trasporti, con perdite di oltre il 70%. In tali condizioni, con le unità italo-tedesche pesantemente limitate dall’insufficienza dei rifornimenti, Rommel, anche volendo, non avrebbe potuto mai attaccare.

    Dalla parte avversa, i britannici, godendo di una preziosa inaspettata tregua, si prepararono alla controffensiva[12]. In autunno, completata la riorganizzazione (e sostituito Wavell con Auchinlek), l’Armata del Nilo - ridenominata 8a Armata britannica, sotto comando del generale Cunningham - si schierò per attaccare le difese nemiche di Sollum, con l’obiettivo di togliere l’assedio a Tobruk e di respingere gli italo-tedeschi in Cirenaica.

    L’offensiva ebbe inizio il 18 novembre, sotto la pioggia. Rommel, nonostante le avvisaglie, si fece cogliere

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