Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Sotto zero
Sotto zero
Sotto zero
Ebook340 pages4 hours

Sotto zero

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

DALLO SCENEGGIATORE DI JURASSIC PARK, UN AVVINCENTE, INQUIETANTE THRILLER APOCALITTICO.

1987. Quando Roberto Diaz, maggiore dell’aeronautica distaccato presso la Defense Nuclear Agency, viene mandato in Australia per indagare su una sospetta arma biologica scopre che in realtà la situazione è più grave del previsto: la minaccia che lui e la sua squadra devono contenere è un pericolosissimo fungo patogeno in grado di portare rapidamente all’estinzione qualunque forma di vita. L’unico modo per metterlo in sicurezza è isolarlo in un contenitore anticontaminazione, e seppellirlo nella camera refrigerata di un deposito militare segreto, a novanta metri di profondità.

2019.Il deposito è stato ceduto a una società privata, la camera refrigerata è stata sigillata e dimenticata da tutti, e così pure il suo contenuto… Poi, a causa di un imprevisto aumento della temperatura, il micidiale fungo si risveglia, trova una via d’uscita, inizia a propagarsi. Ormai soltanto Diaz, che nel frattempo è andato in pensione, sa come fermarlo. Ma il tempo è agli sgoccioli: gli rimane appena una notte per mettere in quarantena il fungo assassino prima che distrugga l’intera umanità, e gli unici che possono aiutarlo sono due addetti alla sicurezza – un ex truffatore e una madre single – armati unicamente del loro coraggio, di un po’ di fortuna, e di tanto umorismo. Sarà abbastanza per salvare il mondo?

LanguageItaliano
Release dateJul 8, 2022
ISBN9788830542068
Sotto zero

Related to Sotto zero

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Reviews for Sotto zero

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Sotto zero - David Koepp

    PROLOGO

    Il più grande organismo vivente al mondo è l’Armillaria solidipes, meglio noto come fungo chiodino. Ha circa ottomila anni e si estende per una superficie di novecentocinquantotto ettari sulle Blue Mountains, in Oregon. Nell’arco di otto millenni si è espanso, formando una fitta rete sotterranea dalla quale spuntano, al livello del terreno, fruttificazioni simili a funghi. Il fungo chiodino è una creatura relativamente innocua, a meno che non si trovi di fronte alberi, cespugli ed erba. Per loro, è un assassino spietato. Uccide prendendo gradualmente possesso dell’apparato radicale per poi risalire lungo la pianta, cui sottrae tutta l’acqua e le sostanze nutrienti fino a soffocarla.

    L’Armillaria solidipes si diffonde a una velocità che va dai trenta ai novanta centimetri l’anno, e impiega dai trenta ai cinquant’anni per uccidere un albero di dimensioni medie. Se potesse muoversi con maggiore rapidità, il novanta per cento del verde che ricopre la Terra morirebbe, l’atmosfera si tramuterebbe in un gas velenoso e la vita dell’uomo, così come quella di ogni altra creatura vivente, cesserebbe. Ma è un fungo molto lento.

    Altri funghi sono più veloci.

    Molto più veloci.

    DICEMBRE 1987

    1

    Dopo aver dato fuoco ai loro vestiti, essersi rasati la testa e strofinati fino a scorticarsi, Roberto Diaz e Trini Romano furono riammessi in patria. Non erano riusciti a levarsi di dosso la sensazione di sporco, ma sapevano di aver fatto tutto ciò che potevano: da quel momento in poi, sarebbe stato il destino a decidere.

    Erano a bordo di una berlina del governo e procedevano sulla I-73 a pochi chilometri dal centro di stoccaggio costruito nelle cave di Atchison. Seguivano il camion a una distanza ravvicinata per impedire a qualsiasi veicolo civile di mettersi in mezzo. Trini era seduta davanti, al posto del passeggero, i piedi poggiati sul cruscotto; un’abitudine da sempre insopportabile per Roberto, che invece era alla guida.

    «Perché restano i segni delle scarpe» le disse per la centesima volta.

    «È solo polvere» rispose Trini, anche lei per la centesima volta. «Guarda, la tolgo subito.» Fece un blando tentativo di cancellare le orme lasciate sul cruscotto.

    «Il problema è che non la togli, Trini. Non la elimini, ma la spargi ovunque con la mano, poi sono io a dover pulire quando restituisco la macchina. Oppure me ne dimentico e tocca a qualcun altro pensarci. Non mi piace lasciare cose da fare agli altri.»

    Trini lo guardò con le palpebre socchiuse su quegli occhi che non credevano quasi a nulla di ciò che entrava nella loro visuale. Era stato proprio il suo grande intuito a permetterle di raggiungere il grado di tenente colonnello a quarant’anni, mentre la sua incapacità di trattenersi dal commentare tutto ciò che vedeva era il motivo per cui la sua carriera si era fermata lì. Trini non aveva filtri, né le interessava averne.

    Lo fissò pensierosa per un attimo, poi fece un lungo tiro dalla Newport che aveva tra le dita ed espirò una nuvola di fumo da un lato della bocca.

    «Roberto, le accetto.»

    Lui la guardò. «Eh?»

    «Le tue scuse. Per quel che è successo. È per questo che mi tratti male. Perché non sei in grado di chiedere scusa. Quindi ti tolgo d’impaccio e accetto le tue scuse.»

    Trini aveva ragione, perché lei aveva sempre ragione. Roberto non rispose per diversi minuti, continuando a fissare la strada.

    Alla fine, quando si riprese, borbottò: «Grazie».

    Lei scrollò le spalle. «Visto? Non è poi così terribile.»

    «Mi sono comportato male.»

    «Un po’, ma non troppo. In fondo non hai fatto niente di che.»

    Avevano parlato all’infinito di ciò che era accaduto nei quattro giorni dall’inizio di quella storia, ed erano arrivati al punto di non sapere cos’altro aggiungere, dato che avevano ripercorso e riesaminato istante dopo istante da ogni angolazione possibile. Tranne quello. Ed era rimasto lì, inespresso, ma ora che la questione era venuta a galla, Roberto non voleva lasciar correre.

    «Non intendo con lei. Parlo di quello che ho detto a te.»

    «Lo so.» Trini gli posò una mano su una spalla. «Rilassati.»

    Lui annuì e continuò a fissare dritto davanti a sé. Per Roberto Diaz non era facile rilassarsi. A trentacinque anni, aveva ottenuto successi privati e professionali difficili da realizzare alla sua età, proprio perché non mollava mai: lui tirava dritto a testa bassa, portava a casa risultati. Maggiore dell’US Air Force prima dei trent’anni? Fatto. Condizioni fisiche e mentali eccellenti, senza imperfezioni o punti deboli? Fatto. Moglie perfetta? Fatto. Figlio perfetto? Fatto. Non erano traguardi che si potessero ottenere con la pazienza o con la passività.

    Dove sto andando? Dove sto andando? Dove sto andando?, si chiedeva di continuo. Il futuro era il suo unico pensiero, la sua unica preoccupazione, la sua unica ossessione. La sua vita scorreva in fretta, rispettava le scadenze, e lui metteva sempre le cose in chiaro.

    Quasi sempre, almeno.

    Per un po’, i due osservarono il camion che li precedeva. Dietro il telone che copriva la grata posteriore, scorgevano la parte superiore della cassa di metallo che avevano fatto arrivare via aerea dall’altra parte del mondo. Il camion prese una buca, la cassa scivolò indietro di una decina di centimetri e loro inspirarono di colpo, di riflesso. Ma restò ben salda sul pianale. Mancavano solo pochi chilometri alle cave, quella storia stava per finire. Presto la cassa sarebbe stata sistemata a novanta metri di profondità, fino alla fine dei secoli. Nel 1886 le Atchison Caves erano una grotta calcarea, una gigantesca miniera che scendeva per quarantacinque metri sotto il livello delle scogliere del fiume Missouri. All’inizio erano state sfruttate per la produzione di pietrame destinato alle ferrovie dei dintorni, scavando fin dove Dio e l’umana capacità lo avevano permesso, finché i pilastri di roccia ancora intatta che sorreggevano la struttura non erano giunti al limite estremo che un ingegnere sano di mente fosse disposto a dichiarare sicuro sotto la propria responsabilità. Durante la Seconda guerra mondiale, le grotte vuote, circa trentadue ettari di spazio sotterraneo climatizzato, erano state utilizzate come magazzino per prodotti deperibili dalla War Food Administration, e in seguito la società mineraria aveva venduto l’area al governo per ventimila dollari. Tempo dopo, con un investimento di un paio di milioni di dollari, era stata trasformata in un centro di stoccaggio di massima sicurezza, usato per eventuali emergenze e per la pianificazione della continuità di governo; vi erano stati conservati macchinari funzionanti in perfette condizioni, pronti per essere spediti ovunque in qualsiasi momento, nella speranza che prima o poi si scatenasse un conflitto nucleare che giustificasse un simile dispendio di denaro.

    Quel giorno la giustificazione era arrivata.

    La chiamata stessa era stata inconsueta, fin dal primo squillo. Tecnicamente, Trini e Roberto lavoravano per la DNA, Defense Nuclear Agency. Più avanti, l’agenzia sarebbe entrata a far parte della DTRA, ma la confusione burocratica durò fino al momento in cui il dipartimento della Difesa non era stato riorganizzato, nel 1997. Dieci anni prima erano ancora nella DNA, dove lavoravano seguendo istruzioni chiare e semplici: impedite a chiunque di impossessarsi di ciò che abbiamo noi. Qualsiasi progetto nucleare andava individuato e distrutto all’istante. Al minimo sospetto di un’arma biologica, si faceva piazza pulita. Non si badava a spese, non si ponevano domande. Di solito, le squadre di lavoro erano composte da due persone, in modo da procedere a compartimenti stagni, ma in caso di necessità i rinforzi erano sempre a disposizione.

    Trini e Roberto non ne avevano quasi mai avuto bisogno. Avevano svolto missioni in sedici punti critici nel giro di sette anni e avevano messo a segno sedici soppressioni – non in senso letterale: era così che l’agenzia definiva l’eliminazione di un programma di armamenti. Nel processo, le vittime non erano mancate. Ma nessuno aveva mai chiesto spiegazioni.

    Sedici missioni, eppure nessuna era paragonabile a quella, neanche alla lontana. Alla base, l’aereo dell’USAF stava già scaldando i motori quando avevano imboccato la scaletta per salire a bordo. C’era solo un’altra passeggera, e Trini si era seduta proprio di fronte a lei. Roberto si era sistemato dall’altra parte del corridoio, su un sedile rivolto contro il senso di marcia, in modo da poter guardare la donna dagli occhi chiari, che indossava una tenuta da safari logora.

    Trini le tese la mano e lei la strinse.

    «Tenente colonnello Trini Romano.»

    «Dottoressa Hero Martins.»

    Trini la guardò, annuì e si infilò in bocca una gomma Nicorette, lo sguardo fisso su Hero: non provava il minimo imbarazzo nel sostenere un silenzioso contatto visivo mentre la esaminava. Il suo modo di fare era sconcertante. Roberto invece le rivolse un mezzo saluto militare: non era mai stato un amante dei giochetti mentali.

    «Maggiore Roberto Diaz.»

    «Lieta di conoscerla, maggiore» rispose Hero.

    «In cosa è specializzata?» domandò Roberto.

    «In Microbiologia. Università di Chicago. Per l’esattezza, in controllo epidemiologico.»

    Trini la stava ancora fissando. «Hero è il suo vero nome?»

    La donna represse un sospiro. A trentaquattro anni, ormai era abituata a sentirselo chiedere. «Sì, è il mio vero nome.»

    «Sta per eroe, come Superman, oppure è un nome legato alla mitologia greca?» chiese Roberto.

    Hero puntò gli occhi su di lui. Quella domanda, invece, non gliela facevano quasi mai.

    «La seconda. Mia madre era un’insegnante di lettere classiche. Conosce la storia?»

    Lui sollevò lo sguardo, socchiudendo l’occhio sinistro e fissando un punto indefinito in alto a destra, come faceva sempre quando cercava di recuperare un’informazione nascosta nei meandri della sua mente. Alla fine scovò quella che cercava e la fece emergere in superficie, sopra la coltre fumosa.

    «Viveva in una torre, nei pressi di un fiume?»

    Hero annuì. «L’Ellesponto.»

    «Un uomo era innamorato di lei.»

    «Leandro. Ogni notte risaliva il fiume a nuoto e raggiungeva la torre per fare l’amore con lei. Hero accendeva una candela nella torre per aiutarlo a individuare la spiaggia.»

    «Ma lui annegò lo stesso, giusto?»

    Trini si voltò e fissò Roberto: il fastidio sul suo viso era evidente. Roberto era così bello da risultare addirittura irritante. Figlio di un messicano e di una bionda californiana, sembrava la salute fatta persona, senza contare la massa di capelli che non sarebbero mai caduti. Aveva anche una moglie intelligente e simpatica, di nome Annie, che perfino Trini riusciva a sopportare, il che la diceva lunga. Eppure non erano passati nemmeno trenta secondi da quando erano saliti su quell’aereo che lui stava già cercando di fare colpo su quella donna. Trini non aveva mai considerato il suo partner un idiota e sperò di non doversi ricredere. Lo osservò, masticando la gomma come se la odiasse con tutto il cuore.

    Hero però era molto presa dalla conversazione con Roberto, e ignorò Trini.

    «Il loro amore fece ingelosire Afrodite. Una notte spense la candela di Ero, e Leandro si perse. Quando si accorse che il suo amato era annegato, la giovane si gettò dalla torre e morì.»

    Roberto si fermò un attimo a riflettere. «Quale sarà la morale? Bisogna venirsi incontro sulla sponda, forse?»

    Hero sorrise e si strinse nelle spalle. «Credo sia che non bisogna far incazzare gli dèi.»

    Stanca di quello scambio di battute, Trini si voltò verso i piloti e ruotò un dito in aria. I motori gemettero all’istante e l’aereo si mosse sulla pista con uno scossone. L’argomento di conversazione cambiò.

    Hero si guardò intorno, preoccupata. «Un momento, stiamo partendo? Dov’è il resto della squadra?»

    «La squadra siamo noi» rispose Trini.

    «Siete… insomma, siete sicuri? Non è una faccenda che possiamo gestire da soli.»

    Roberto mostrò la stessa sicurezza di Trini, ma senza la sua spavalderia.

    «Perché non ci spiega di che si tratta?» disse a Hero. «Così potremo dirle se pensiamo di poterla gestire.»

    «Non vi hanno detto niente?» domandò lei.

    «Ci hanno detto che stiamo andando in Australia» rispose Trini, «e che lei ci avrebbe dato i dettagli.»

    Hero guardò fuori dal finestrino, osservando l’aereo che si staccava da terra. Non poteva più tornare indietro. Scrollò il capo. «Non capirò mai l’esercito.»

    «Nemmeno io» rispose Roberto. «Siamo dell’aeronautica, distaccati presso la Defense Nuclear Agency.»

    «Il problema non ha niente a che vedere con il nucleare.»

    Trini aggrottò la fronte. «Se hanno inviato lei, immagino riguardi una sospetta arma biologica.»

    «No.»

    «Allora cos’è?»

    Hero ci pensò su per un attimo. «Bella domanda.» Aprì la cartellina sul tavolinetto di fronte a lei e cominciò a parlare. Si interruppe solo sei ore dopo.

    Con le sue conoscenze dell’Australia, Roberto avrebbe potuto riempire ben poche pagine; anzi, a dire la verità, forse avrebbe riempito un semplice volantino, scritto a caratteri cubitali. Hero spiegò loro che erano diretti in una cittadina sperduta chiamata Kiwirrkurra Community, al centro del deserto di Gibson, circa milleduecento chilometri a est di Port Hedland. Era stata fondata una decina di anni prima come insediamento della comunità Pintupi grazie a un programma del governo australiano il cui scopo era incoraggiare gli aborigeni a riprendere possesso delle terre legate alle loro tradizioni ancestrali. Per decenni erano stati maltrattati e allontanati da quegli stessi territori, soprattutto intorno al 1960, a causa dei test missilistici del progetto Blue Streak. Non era certo semplice vivere in una zona destinata a essere fatta saltare in aria. Di sicuro era poco salutare.

    A metà degli anni Settanta, però, i test erano ormai conclusi, le sensibilità politiche erano cambiate, e così gli ultimi Pintupi rimasti erano stati riportati a Kiwirrkurra, che non era nemmeno in mezzo al nulla, ma distava qualche centinaio di chilometri dal margine estremo del nulla. I ventisei Pintupi, dunque, abitavano lì, immersi nella pace e nella felicità concesse da una vita nel deserto opprimente, senza corrente elettrica, linea telefonica e altri collegamenti con la società moderna. A loro piaceva essere tagliati fuori dal mondo, e gli anziani gradivano in particolar modo il ritorno alle terre dei loro avi.

    Poi era caduto il cielo.

    Non tutto, stando alla spiegazione di Hero. Solo un frammento.

    «Che cos’era?» chiese Roberto. L’aveva guardata dritto negli occhi per tutto il tempo, e naturalmente Trini l’aveva notato. Anzi, in effetti gli aveva puntato addosso uno sguardo di fuoco, come se volesse imporgli di smetterla.

    «Skylab.»

    A quel punto Trini voltò la testa e la guardò anche lei. «È successo nel ’79?»

    «Sì.»

    «Credevo fosse caduto nell’oceano Indiano.»

    Hero annuì. «Quasi tutto. I pochi pezzi che sono finiti sulla terraferma sono arrivati nei pressi della città di Esperance, sempre nell’Australia occidentale.»

    «È vicina a Kiwirrkurra?» domandò Roberto.

    «Non esiste nulla che sia vicino a Kiwirrkurra. Esperance si trova a circa duemila chilometri, e ha diecimila abitanti. È una metropoli, al confronto.»

    «Che cosa è successo ai pezzi caduti a Esperance?»

    Hero aprì la sezione seguente dei suoi appunti. Gli abitanti del luogo, mostrando un certo spirito d’iniziativa, avevano raccolto i frammenti precipitati a Esperance e li avevano esposti nel museo cittadino – un’ex sala da ballo convertita in breve tempo nell’Esperance Municipal Museum & Skylab Observatorium. Il biglietto d’ingresso costava quattro dollari e consentiva di ammirare il serbatoio di ossigeno più grande dell’orbiter, la cella frigorifera della stazione spaziale usata per conservare cibo e altri oggetti, dell’azoto utilizzato dai propulsori per il controllo di assetto e un pezzo del portello dal quale gli astronauti entravano e uscivano durante le visite alla stazione. Erano stati esposti anche una serie di rottami irriconoscibili, tra cui parte di una lamiera su cui era incisa in modo piuttosto sospetto la parola Skylab, in perfette lettere rosse, esattamente al centro.

    «Per anni la NASA ha dato per scontato che non si sarebbe recuperato altro, perché il resto si era bruciato al rientro nell’atmosfera oppure era finito in fondo all’oceano Indiano» riprese Hero. «Cinque o sei anni dopo, hanno immaginato che tutto ciò che si trovava sulla superficie terrestre dovesse essere stato individuato, o che si trovasse in luoghi inabitabili.»

    «Come Kiwirrkurra» intuì Roberto.

    Lei annuì e voltò un’altra pagina.

    «Tre giorni fa sono stata chiamata dall’ufficio di Ricerca di bioscienze spaziali della NASA. Avevano ricevuto un messaggio, trasmesso da circa sei diverse agenzie governative, che riferiva come qualcuno avesse chiesto aiuto dall’Australia occidentale perché è uscito qualcosa dal serbatoio

    «Quale serbatoio?»

    «Quello con la scorta di ossigeno supplementare caduto su Kiwirrkurra.»

    Trini si protese in avanti. «Chi ha chiamato dall’Australia occidentale?»

    Hero diede uno sguardo agli appunti. «Si è identificato con il nome di Enos Namatjira. Ha detto che abita a Kiwirrkurra e che è stato suo zio a trovare il serbatoio nel terreno, cinque o sei anni fa. Lo zio aveva sentito parlare della navicella spaziale precipitata, l’aveva trascinato davanti a casa sua e lo teneva lì come ricordo. Solo che adesso è successo qualcosa, e lui si è ammalato, peggiorando velocemente.»

    Roberto cercava di mettere insieme le informazioni, serio. «E come ha fatto questo tizio a sapere che numero doveva chiamare?»

    «Non lo sapeva. Ha cominciato con la Casa Bianca.»

    «Ed è arrivato fino alla NASA?» Trini era incredula. Mai avrebbe immaginato che il sistema potesse essere tanto efficiente.

    «Ha fatto diverse telefonate e ogni volta ha dovuto guidare per cinquanta chilometri per raggiungere un telefono, però sì, alla fine è riuscito a parlare con la NASA.»

    «Era determinato» commentò Roberto.

    «Sì, perché a quel punto la gente aveva cominciato a morire. Lo hanno messo in contatto con me più o meno un paio di giorni fa. A volte lavoro per la NASA, controllo i veicoli rientrati per assicurarmi che non vi siano forme di vita aliene, e in effetti non ne trovo mai.»

    «Stavolta invece pensa che sia arrivato qualcosa?» chiese Trini.

    «Non proprio. È qui che la storia diventa interessante.»

    Anche Roberto si chinò in avanti. «A me sembra già molto interessante.»

    Hero gli sorrise. Trini si sforzò di non alzare gli occhi al cielo.

    La donna riprese: «Il serbatoio era sigillato e dubito che abbia potuto trasportare sulla Terra qualcosa che non sia partita da qui. Ho esaminato tutta la documentazione dello Skylab, e all’ultimo rifornimento sembra che quel serbatoio in particolare sia stato inviato non per il ricircolo dell’ossigeno, ma solo per essere attaccato a uno dei bracci esterni della navetta. All’interno c’era un organismo fungino, una specie di cugino dell’Ophiocordyceps unilateralis: è un piccolo fungo parassitoide, in grado di adattarsi da una specie all’altra. Sopravvive anche in condizioni estreme, un po’ come le spore del Clostridium difficile. Avete presente?».

    La fissarono, inespressivi. Il Clostridium difficile non rientrava tra le conoscenze richieste per svolgere il loro lavoro.

    «Be’, sono perniciosi. Possono vivere ovunque: all’interno di un vulcano, in fondo al mare, nello spazio.»

    Gli altri due si limitarono a guardarla, credendo alle sue parole. Lei proseguì.

    «In ogni caso, il campione che si trovava all’interno del serbatoio faceva parte di un progetto di ricerca. Il fungo è dotato di alcune proprietà di proliferazione interessanti, e volevano verificare l’impatto delle condizioni di vita nello spazio su di esso. Tenete a mente che parliamo degli anni Settanta: le stazioni spaziali orbitanti erano considerate un grande passo avanti, quindi era necessario sviluppare farmaci antifungini efficaci per i milioni di persone che immaginavano sarebbero andate a vivere lassù. Ma non ne hanno mai avuto l’opportunità.»

    «Perché lo Skylab è precipitato.»

    «Esatto. E così, dopo cinque o sei anni trascorsi davanti alla casa dello zio di Enos Namatjira, il serbatoio ha cominciato ad arrugginirsi. Lo zio voleva sistemarlo, lucidarlo e ridargli l’aspetto di un tempo, sperando che la gente fosse disposta a pagare pur di vederlo. Ha cercato di rimuovere la ruggine, ma era resistente. Stando al racconto di Enos, ha provato con vari prodotti, affidandosi infine a una soluzione folkloristica: ha tagliato a metà una patata, vi ha versato sopra del sapone per i piatti e l’ha strofinata sulla superficie.»

    «Ha funzionato?»

    «Sì. La ruggine è venuta subito via, e la superficie è diventata lucida. Pochi giorni dopo, lo zio si è ammalato. Ha cominciato a comportarsi in modo imprevedibile, senza senso. È salito sul tetto della casa e si rifiutava di scendere, poi il suo corpo ha iniziato a gonfiarsi a dismisura.»

    «E dopo che diamine è successo?» chiese Trini.

    «Da lì in poi, posso solo formulare delle ipotesi.» Fece una pausa. Che lo facesse apposta o meno, una cosa era certa: la dottoressa Martins era bravissima a raccontare storie. Erano ipnotizzati dalle sue parole.

    «Credo che la combinazione chimica utilizzata dallo zio si sia insinuata tra le microfessure della parete esterna del serbatoio e sia finita all’interno, reidratando il Cordyceps dormiente.»

    «Con quella roba a base di patata?» fece Roberto. Non gli sembrava una soluzione molto idratante.

    Lei annuì. «In media, le patate contengono dal settanta all’ottanta per cento di acqua. Il fungo però non è stato solo reidratato: ha ricevuto pectina, cellulosa, proteine e grasso. E un bellissimo posto in cui crescere. La temperatura nel deserto dell’Australia occidentale in questo periodo dell’anno si aggira sui trentotto gradi. All’interno del serbatoio, arriverà almeno a cinquantacinque. Mortale per l’uomo, ma perfetta per un fungo.»

    Trini desiderava arrivare al punto. «Quindi sta dicendo che quella cosa è tornata in vita?»

    «Non proprio. Come dicevo, le mie sono solo ipotesi. Credo sia possibile che il polisaccaride della patata si sia combinato con il palmitato di sodio contenuto nel sapone per i piatti, generando un ambiente favorevole alla proliferazione. Di solito sono molecole grandi, inerti e noiose, ma messe insieme possono produrre risultati piuttosto interessanti. Non è colpa dello zio: in fondo lui stava cercando proprio di ottenere una reazione chimica.»

    Hero cominciava a infervorarsi: le brillavano gli occhi per lo sforzo intellettuale, e Roberto non smetteva di fissarli, era più forte di lui.

    «E ci è riuscito?»

    «Direi proprio di sì, cazzo!»

    Dio, imprecava anche. Roberto sorrise.

    «Ma non credo che il vero catalizzatore sia stato il polisaccaride o il palmitato di sodio.»

    Si protese verso di loro, come se stesse per svelare la battuta finale di una barzelletta irresistibile.

    «È stata la ruggine. Fe2O3·nH2O.»

    Trini sputò la gomma in un fazzolettino e se ne mise in bocca una nuova. «Dottoressa Martins, per caso da qualche parte dentro di lei crede di poter trovare la capacità di sintetizzare?»

    Hero si voltò verso il tenente, sfoggiando il suo atteggiamento pragmatico.

    «Certo. Abbiamo spedito nello spazio un estremofilo superaggressivo, resistente al calore intenso e al vuoto ma sensibile al freddo. L’ambiente circostante ha indotto uno stato dormiente nell’organismo, che però è rimasto iperecettivo. A quel punto deve aver raccolto un autostoppista. Forse è stato esposto alle radiazioni solari, o una spora è penetrata nelle microfessure del serbatoio durante il rientro. Il risultato, comunque, è che quando il fungo è tornato sulla Terra era di nuovo sveglio, e si trovava in un ambiente caldo, sicuro, ricco di proteine e favorevole alla crescita. E qualcosa ha fatto sì che la sua struttura genetica di livello superiore mutasse.»

    «E cosa è diventato?» chiese Roberto.

    Lei guardò i due interlocutori, prima uno, poi l’altro, proprio come un’insegnante di fronte a due studenti un tantino ottusi cui sfuggiva l’ovvio. Lo disse chiaro e tondo.

    «Credo che abbiamo creato una nuova specie.»

    Per un attimo ci fu silenzio. Dato che era una teoria di Hero, rivendicò i diritti sul nome. «Cordyceps novus.»

    Trini la fissò. «Che cosa ha detto al signor Namatjira?»

    «Che avevo bisogno di fare alcune verifiche e di richiamarmi sei ore dopo. Non l’ho più sentito.»

    «Quindi cosa ha fatto?»

    «Ho chiamato il dipartimento della Difesa.»

    «E loro cos’hanno fatto?» domandò Roberto.

    Li indicò. «Hanno mandato voi.»

    2

    Le sei ore di volo successive trascorsero in un relativo silenzio. Quando sorvolarono la costa occidentale dell’Africa e scese la notte, Trini fece ciò che faceva sempre mentre si recava in missione, cioè guadagnare ore di sonno non appena ne aveva l’occasione. Un’altra sua abitudine era sfruttare sempre qualsiasi bagno disponibile. Erano le basi. Limitare le necessità.

    Hero era stanca di fissare gli stivali di Trini sul sedile accanto a sé, così, quando l’aereo fu quasi del tutto avvolto dall’oscurità, si alzò e la scavalcò per andare dall’altra parte del corridoio, dal lato di Roberto.

    «Le spiace?» mormorò, indicando il sedile vuoto accanto a lui. A lui non dispiaceva, nemmeno un po’. Spostò le gambe per farla passare, e lei si accomodò, per quanto possibile, vicino a lui. La scusa che avrebbe potuto addurre per il cambio di posto era che lì poteva tirare su le gambe anche lei, ma Roberto si disse che poteva farlo anche dove si trovava. Forse il vero motivo era la serie di sguardi furtivi che si erano scambiati da quando lei aveva terminato il

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1