Il ricettario delle Janas
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About this ebook
Un viaggio dal nord al sud della Sardegna, dalla montagna al mare, da un secolo all’altro della sua tradizione millenaria.
Cucinerete piatti famosi ed altri poco noti che richiedono di essere tramandati. Burrida, panadas, culurgiones, frègula, macarrones, malloreddus. Scoprirete le carni più gustose, dall’agnello al maiale, e le antiche ricette del pesce, che sia arrosto o a scàbeciu.
Si passa da preparazioni essenziali ad altre incredibilmente elaborate, come quelle dei dolci, in cui la cucina sarda trova la sua massima espressione: guefus, amaretti, pistocos, origlietas, catas…
Ogni ricetta è arricchita da suggestivi approfondimenti sugli ingredienti e sui miti e le leggende che li accompagnano.
Segreti da janas, le misteriose fate sarde. Non da nascondere, ma da condividere. Perché il cibo è un dono.
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Il ricettario delle Janas - Claudia Zedda
a tutte le mie antenate, vicine e lontane: il passato
alle mie figlie, Rebecca e Caterina: il futuro
a mia madre e mio padre: i miei ricettari viventi
Claudia Zedda
Il ricettario delle Janas
fotografie di Claudia Zedda
NOR
Indice
Introduzione
CAPITOLO 1 – ANTIPASTI
1. Le olive in salamoia
2. Olive nere sotto sale
3. Olia pistada
4. Olive a scabèciu
5. Gàtulis: gli arrubiolus de patata
6. Culurgiones fritti e arrosto
7. Patate a sa schiscionera
8. Su gioddu: lo yogurt sardo
9. Sa frue, su casu axedu e su fìsciu: la magia del latte appena munto
10. Sa cibuddada
11. Frittata di bietola
12. Frittata di piselli
13. Melanzane fritte
14. Sa burrida: brutta ma buonissima
15. Is tapadas: le lumache tappate
16. Panadas di Oschiri
17. Pane fritto e dorato
18. Pane imbrutau e pane gutiau
19. Costedda cun tamàtiga: la focaccia di pomodoro a Villasimius
CAPITOLO 2 – PRIMI
20. Culurgiones ripieni di patate e formaggio
21. Angiulotus a sa campidanesa
22. Sa frègula: la pasta che canta
23. Frègula cun còciula
24. Sa cassola alla cagliaritana
25. Malloreddus: i piccoli vitellini di pasta fresca
26. Malloreddus a sa campidanesa
27. Spaghetti a sa butàriga
28. Pani a fitas
29. Macarrones de ferritu
30. Macarrones de ferritu cun bànnia de caboniscu
31. Macarrones lados
32. Matzamurru
33. Pani fratau
CAPITOLO 3 – CARNE E PESCE
34. Pudda prena
35. Carne cun su pratu de cassa
36. Involtini di carasau e prupedda
37. Angioni cun ou
38. Pudda amurtada
39. Maialetto lattonzolo arrosto e amurtau
40. Pedringianu prenu
41. Sa piscadura: il bollito di verdure e carne alla bonese
42. Faa cun lardu: fave e lardo, il cibo degli antenati
43. Coniglio arrosto
44. Sitzigorrus al sugo
45. Casu arrustiu
46. Aragosta a sa casteddaja
47. Cozze ripiene con carne macinata
48. Murena fritta
49. Frittura alla cagliaritana
50. Polpo alla cagliaritana
51. Pisci a scabèciu
52. Pisci arrustiu in àcua e sali
CAPITOLO 4 – I DOLCI SARDI
53. Pastissus: belli come una bomboniera
54. Coricheddos: i cuori di miele
55. Guefus
56. Amaretti
57. Parafritus o fatti fritti?
58. Le tzìpulas: le frittelle con il buco
59. Catas: le frittelle a spirale di grano duro
60. Origlietas
61. Arrubiolus de arrescotu: i piccoli ravioli di ricotta
62. Pàdrulas: la felicità in un morso
63. Casadinas
64. Seada: il dolce grande come un piatto
65. Pàdrulas fritas
66. Primo sale – Casu friscu a sa sarda
67. Pani de saba
68. Pabassinas
69. Pistocos: i savoiardi alla sarda
70. Canestrelli di Carloforte
71. Prèssiu ammustiau
72. Ollu de porcu e gerdas
CAPITOLO 5 – LA MAGIA DEL PANE IN SARDEGNA
73. Su fermentu
74. Pane modditzosu
75. Pani cocoi: il pane con i pitzicorrus
CONCLUSIONE
GLOSSARIO MINIMO
BIBLIOGRAFIA
Colophon
Introduzione
Janas e ricette
Una delle leggende che maggiormente ha segnato il mio percorso di studi sulla gastronomia sarda riguarda le janas. Per la mitologia sarda sono creature centrali: fate e donne mitico-magiche che in Sardegna sono legate al mondo lunare, a quello femminile e infantile, alle domus de janas (tombe di epoca prenuragica), alla natura e alla cucina. Ricordano molto da vicino le donne sarde, ma con un tocco di mistero e magia in più.
La leggenda narra della Sabia Sibilla, la più vecchia fra le janas (e vecchia qui ha il suo significato originale di saggia), che, non accontentandosi di essere veggente e profetessa, scelse di diventare maista, maestra. Il termine sardo maista è del tutto speciale: non indica semplicemente un’insegnante. Si diventa maista o maistu solo quando si sa tutto, ma proprio tutto, sulla propria materia. Il termine è usato spesso in ambito artigianale, e chi ha il diritto di fregiarsi di questo titolo ne va grandemente fiero.
La nostra jana maista tutto sapeva, e tutto sapeva fare: per questo decise di insegnare ogni cosa alle sarde che apprendevano non con la teoria, ma con la pratica e l’osservazione.
L’aspetto davvero interessante è che ancora oggi chi sceglie di imparare da una vecchia maista durcera, ma anche semplicemente dalla propria nonna, deve farlo prima con l’osservazione (furai cun is ogus ‘rubare con gli occhi’), poi con la pratica, e dopo forse arriverà un briciolo di teoria: un apprendistato lungo ma indelebile.
Per questo ho studiato la cucina sarda, per questo mi sono specializzata in mito sardo, per questo amo cucinare: perché la cucina è sacrificio, memoria, cultura, sapere, leggenda, condivisione, cura, e per dirla alla sarda
la cucina est maia (è magia).
La cucina sarda come magia che lega
Che la cucina in Sardegna sia magia lo racconta molto bene il linguaggio simbolico culturale, non verbale, incredibilmente complesso, che le gravita intorno e che oggi è in parte oscurato. Questo libro ha l’obiettivo di supportare il ripristino di questo linguaggio, rendendolo ancora comprensibile a chi lo osserva
. D’altronde dimenticare è tanto facile quanto ricordare. E questo è un libro per non dimenticare, per ricordare.
Se l’antropologo Marcel Mauss spiegava l’obbligo della reciprocità usando l’esempio dei maori — per i quali nel dono risiede la forza magica del donatore, la quale, in caso di mancata restituzione, si ritorcerà contro chi ha interrotto il circuito dello scambio —, noi qui, in Sardegna, l’obbligo della reciprocità lo possiamo spiegare con una frase: su regalu est maia (il regalo è magia), ma anche pratu chi andat, pratu chi torrat (piatto che va, piatto che ritorna), e ancora su donu est dèpidu (il dono è debito). La forza del dono è valida per tutto: favori ricevuti, visite, lavori agricoli e pastorali, ma soprattutto cibo.
Che il ricevente sia un uomo, una donna o una divinità, questi è obbligato alla restituzione, a sa torradura. Perché donare crea un legame, un legame magico.
Fachere sos durches pro leghia si dice in molte località dell’Isola: ‘fare i dolci per buon auspicio, scaramanzia e/o consuetudine’. In nome di tale legge anche le donne in lutto confezionavano almeno qualche dolce in onore di Sant’Antonio, contravvenendo ai dettami della morte, un tempo rigorosi. E oggi, anche quando non si ha possibilità economica, il tempo o la salute, i dolci si preparano: saranno pochi ma mai assenti.
La giustificazione a tale uso è custodita nel termine leghia. Oggi comunemente tradotto come ‘scaramanzia’ o ‘consuetudine’, in realtà significava, perlomeno in origine, ben altro, come Susanna Paulis, antropologa e autrice de I dolci e le feste, spiega con grande maestria. Il sostantivo leghia – leia è stato ricondotto al verbo ligare – liare che dal latino si traduce come ‘legare’. E non si tratta di una legatura qualsiasi. Sa leghia in Sardegna è la fattura, una legatura magica stretta all’insaputa o addirittura contro la volontà del destinatario. Merita osservare anche che il malocchio è detto ogu liau (legato all’occhio).
Con il dono si lega magicamente l’amica, il cugino, la sorella, la zia, ma sopra ogni cosa la divinità (oggi il santo) alla restituzione. Anticamente in modo consapevole, successivamente in maniera non più conscia, con il dono del dolce si mirava a legare l’entità divina, coinvolgendola in una logica di reciprocità, che se tradita avrebbe avuto delle conseguenze.
Una giovanissima Grazia Deledda, intenta nella raccolta delle tradizioni popolari che tanto influenzeranno i suoi romanzi, nel 1893 riportava questo affascinante gosos de Santu Antoni:
Antoni chi sos cherveddos / ti lampana che arvata; / Preca pro sos moitheddos / Chi lis facat bona annata. / Ca si non sa panata / Senza mele ti l’achimus.
‘Antonio che la fronte / ti lampeggi come il vomere, / prega per gli alveari, / ché loro faccia buona annata, / perché altrimenti la panata, / senza miele te la facciamo’.
Il gosos (canto religioso) contiene in sé una minaccia nemmeno troppo celata: nel caso in cui gli alveari non saranno protetti dal santo, questi riceverà il dolce privo di miele.
Il sardo, d’altronde, non è nuovo a questo genere di rapporto con la divinità. Quando sull’Isola non pioveva per lungo tempo, per spronare il santo di turno a generare la pioggia, si immergeva la sua statua in mare o acqua dolce, fino a che il cielo non avesse risposto con un acquazzone. E ancora: la divinità rispondeva direttamente al sardo. I santi invocati, infatti, si sarebbero manifestati spesso in veste di poveri pellegrini. Allo stesso modo anche il diavolo, seppure invocato involontariamente, poteva comparire. Ecco perché, molto a lungo, in Sardegna era vietato nominarlo. Se proprio ci si doveva riferire alla sua persona, si preferiva usare dei nomignoli. Il più noto è aremigu ‘nemico’.
Che la preparazione del cibo in Sardegna sia arte magica, rituale, da tutelare, ce lo ricordano anche i numerosi brebus (preghiere, orazioni, invocazioni, frasi magico-rituali ritenute in grado di modificare il normale corso della realtà), recitati a mo’ di protezione della preparazione, che citerò in seguito.
Ricette tra memoria e sacralità
In questo ricettario compariranno esclusivamente ricette di famiglia, donatemi da donne e uomini che le hanno maneggiate, provate, modificate e infine condivise. I profumi delle loro preparazioni in molti casi hanno insaporito la mia infanzia, tant’è che tutte le volte che quelle stesse ricette vengono riproposte, non è un piatto che si mette in tavola, è un ricordo che riprende vita, una memoria che si riaccende, è un’emozione che viene nutrita. Intendere in questo modo la cucina fa sì che ogni preparazione sia un’esperienza sensoriale, emotiva, e aiuta a restituire sacralità al cibo che ci nutre e ci fa sani.
Il cibo inteso come sacro è rispettato, amato, curato, selezionato. Un cibo che nutre meglio, che nutre di più: e oggi abbiamo davvero bisogno di ritrovare questo approccio.
Il mio consiglio è quello di creare dei veri e propri rituali gastronomici.
Nel ricettario esorto a utilizzare i cinque sensi per impastare la semola, preparare il pane o magari amurtai su porceddu (insaporire con il mirto il maialino lattonzolo): perché una ricetta cucinata con i cinque sensi non è solo nutrimento per il corpo, è anche cura per l’anima. Chi sarà in grado di cucinare con gli occhi, con le mani, con il palato, il naso e l’udito legherà, ancora una volta magicamente, la preparazione a un momento, a una situazione, a una persona.
Ricette e cibo come rituale
La preparazione di molte ricette che troverai di seguito ricorda lo svolgimento di un rituale.
I rituali, la scienza se ne sta rendendo conto negli ultimi decenni, vanno incontro alla necessità del nostro cervello di produrre previsioni attive sullo stato del mondo. Quando ben praticati, ci regalano un senso di controllo che fa star bene il nostro cervello. In questo senso i rituali sono in grado di ridurre lo stress e sono un ottimo modo per affrontare l’ansia cronica. Sono una tecnologia mentale
che ci può aiutare a stare meglio. Sono stati con noi fin dagli albori della nostra specie, li abbiamo negati, ma è palese che ne abbiamo bisogno.
Come tutti i rituali, quelli della cucina e del pasto (preparazione di un buon piatto, preghiera, condivisione, accensione di una candela) possono aiutare il corpo a rilassarsi, attivando uno stato parasimpatico che favorisce, fra le altre cose, la buona digestione.
Ricette: tradizione e innovazione
Le ricette e gli ingredienti saranno sempre protagoniste e protagonisti: ho ridotto all’osso le mie osservazioni, limitando al minimo il mio ego narrativo. Come ricorda Marino Niola, uno degli antropologi alimentari che stimo di più, attraverso le ricette «tutti raccontano la propria storia, sempre con la certezza che questa debba interessare, ed è tutto da dimostrare»¹.
Per cui la ricetta è sempre in primo piano, e io ho tentato la difficilissima missione di scomparire davanti al cibo, che è cultura e come tale, questo dobbiamo ricordarlo, in costante evoluzione.
All’interno del ricettario potrai trovare alcune ricette alterate, innovate, modificate, e per questo non volermene.
Per quanto la tradizione gastronomica sia spesso ritenuta statica e immutabile, nessuna ricetta la cui pratica sia viva è estranea all’innovazione. Si vedano i culurgiones di patate, che sono spesso concepiti come piatto mistico e originario dell’Isola, dimenticando che la patata entra a far parte della nostra tradizione gastronomica molto tardi.
D’altronde, «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri» (Gustav Mahler).
Cucina al femminile: questione di cultura
Leggende, cultura, consuetudini hanno creato un legame indissolubile fra donna e cucina, non solo in Sardegna ma nel mondo. Questo legame è stato tutto fuorché casuale. La cultura patriarcale, che ahimè