Tessaglia: Revolution
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Fantasy - romanzo (159 pagine) - La rivoluzione ha inizio: tu da che parte stai?
Uno è ancora vivo, è riuscito a fuggire dal laboratorio e dai soprusi del dottor Castellani, ma ora è solo. Vive alla giornata, nascosto, invisibile… finché non è costretto a uscire allo scoperto, finché non avrà davvero bisogno di aiuto. Lo cercherà dagli unici che possono darglielo e attraverso questa strana alleanza ricorderà il suo passato, indagherà nella psiche di Misha e cercherà stabilità nelle doti pratiche e nella calma interiore di Tessa. Misha e Tessa, come ogni coppia, vorrebbero solo una vita tranquilla, invece si ritroveranno catapultati in una guerra più grande di loro. Dovranno fronteggiare non solo le insidie del progetto M.I.S.H.A., ma anche il caos di una Roma in fiamme. Dopo un attentato al varco più esterno la rivoluzione è alle porte e mentre il governo viene scosso alle sue fondamenta, Mauro, Misha, Uno e Tessa dovranno capire chi sono e chi vogliono essere; e dovranno guadagnarsi, a morsi e pugni, il proprio posto nel mondo.
Polly Russell, classe 1975, marchigiana di nascita e sabina d’adozione, è una lettrice e scrittrice compulsiva. Nel 2010 inizia a partecipare a diversi premi letterari minori con buoni risultati e pubblica in numerose antologie e riviste. Frequenta palestre letterarie come Minuti contati, La Sfida e Lo Skannatoio, e modera per alcuni anni il forum di scrittura creativa La Tela Nera. Nel 2014 subisce una battuta d’arresto per problemi personali. Ricomincia a scrivere qualche anno più tardi, vincendo o classificandosi finalista in premi come l’Arthè, La centuria, Il sentiero dei draghi e Inchiostro e Pinna. Tra le raccolte che contengono sue pubblicazioni: Il magazzino dei mondi e 365 Racconti horror di Delos Books; ASAP tempi che corrono, auto pubblicato; Dieci passi nell’aldilà di Liberodiscrivere; I Mondi del Fantasy IV di Limana Umanita e due volumi di Steampunk Vapore Italico, Edizioni Scudo. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in riviste come la Writer Magazine Italia, Noir, Terre di confine, Short Stories e sotto forma di podcast.
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Tessaglia - Polly Russell
Capitolo 1
Uno scavalcò la recinzione sgangherata che avrebbe dovuto proteggere il cantiere dismesso, una fabbrica di tessuti mai completata e diventata un rifugio per barboni, tossici, delinquentelli di borgata e… per lui.
Le luci della strada riuscivano a illuminare il cortile solo in parte, ma ormai conosceva a memoria ogni scatolone, rifiuto ingombrante, cumulo di macerie o bivacco. Avrebbe potuto muoversi anche a occhi chiusi.
Calò il cappuccio fin sugli occhi e mise le mani in tasca, faceva freddo e la felpa che aveva addosso non era sufficiente a scaldare quella notte di dicembre. C’era puzza di urina e di stantio. Superò un groviglio di filo metallico e plastica che un tempo erano state reti da letto e tirò dritto fino all’entrata laterale dell’enorme stabile annerito.
Ognuno aveva un posto là dentro, e un percorso da seguire per raggiungerlo senza invadere il territorio degli altri. Uno era stato molto attento a rispettare quei percorsi, a non crearsi nemici, a essere invisibile.
La porta di servizio dava su una scala antincendio a cui mancavano metà dei gradini, ma non era mai stato un problema, per lui, arrampicarsi su quei ferri mezzo arrugginiti. E il fatto che fosse l’unico accesso al tetto gli garantiva che nessuno sarebbe mai riuscito a raggiungerlo.
Si alitò sulle mani prima di saltare. Afferrò uno dei montanti del secondo piano e salì ancora. Una vampata nauseabonda lo raggiunse al terzo piano. C’era qualcosa di morto, qualcosa che si stava decomponendo in fretta.
Si appese a un pezzo di corrimano ancora integro e si sporse fino alla porta finestra. A quello che ne rimaneva, per la verità. Un buco sul muro coperto per metà da un telo di plastica.
Aspirò. Sì, c’era davvero qualcosa di morto, ma non poteva sapere se fosse un animale o un umano. Il terzo piano era tranquillo, di solito. Ci vivevano un paio di famiglie di esterni, che erano riusciti, chissà come a superare le mura. Non davano fastidio, non cercavano la lite e soprattutto non portavano nel rifugio droghe e ragazzi in overdose.
Chiuse gli occhi. Nessuno conosceva il suo nome, metà di quelli che vivevano nella fabbrica non l'avevano nemmeno mai visto. Attendeva sempre la notte per raggiungere la sua baracca sul tetto, e usando quella scala impraticabile agli altri, era certo che nessuno potesse disturbarlo o spiarlo. E le cose dovevano rimanere così.
Ancora una zaffata.
Una delle due coppie di esterni aveva dei figli. Due maschietti di otto, dieci anni.
Chi se ne frega! Fatti gli affari tuoi, Uno, non ne uscirà niente di buono!
Era bravo a darsi buoni consigli, un po’ come uno dei suoi personaggi preferiti delle fiabe. E come Alice, era anche del tutto incapace di seguirli.
La passerella fino alla porta finestra era caduta chissà quanti anni prima, o forse l’avevano smontata. Non aveva molto spazio per prendere la rincorsa e per un semplice umano sarebbe stato parecchio difficile saltare. Probabilmente per questo, gli esterni dovevano aver pensato che fosse un posto sicuro, una volta bloccata la porta sulle scale principali, raggiungerli sarebbe stato complicato.
Si accovacciò su un gradino, afferrò il corrimano per aumentare lo slancio e saltò.
Strappò il telo di protezione e rotolò nell’edificio.
L’odore era ancora più forte, ed era mischiato a polvere, urina e sudore. Cipolle e carne: qualcuno aveva cucinato, ma era un’emanazione talmente debole che poteva essere successo anche due o tre giorni prima.
L’interno era buio pesto, il cono di luce proiettato dalla porta finestra illuminava a malapena i primi tre o quattro metri, di quello che lui sapeva essere uno stanzone lungo almeno quindici.
Mosse qualche passo, l’odore era più forte. Estrasse un accendino.
Dei sacchi a pelo erano piegati e ben riposti su dei teli di plastica, alcune cassette di frutta facevano da tavolo, comodino, armadio e scarpiera. Diverse candele erano incastonate in chili di cera colata, sulle cassette e su delle bottiglie vuote. Ne accese una. Dei libri scolastici malridotti erano appoggiati accanto a uno dei sacchi a pelo.
In qualche modo erano riusciti a mandare i figli a scuola, o forse qualche anima pia si era offerta di far loro delle lezioni personali. Annusò i sacchi a pelo, l’odore era recente, ci avevano dormito la notte prima, ma dove diavolo erano adesso?
Fracasso di vetri rotti e il suono di risate giunsero dai piani inferiori.
La gang che bivaccava al pian terreno doveva essere in vena di festeggiamenti. Altre risate, un paio di grida e partì una musica carica di bassi.
La porta che dava sulle scale era chiusa dall’esterno, avrebbe potuto forzarla in pochi attimi, ma avrebbe creato un bel danno alle famiglie che vivevano lì.
L’odore di decomposizione era più lieve in prossimità della porta, tornò dove l’emanazione era più forte: il centro del locale.
La musica al piano inferiore aumentò di volume, sarebbe arrivata la polizia di lì a poco o, peggio, la Guardia Sacra.
Avvicinò la candela al soffitto e una corrente d’aria fece tremolare la fiamma.
Le travi di cemento armato erano larghe mezzo metro, resti di un soppalco o qualcosa di simile. Tra loro e il soffitto c’erano almeno due metri e mezzo d’aria. Sicuramente c’erano dei topi morti lassù o dei pipistrelli, magari un gatto. Nulla che dovesse preoccuparlo, ma ormai era arrivato fin lì, aveva distrutto il telo protettivo, aveva invaso la privacy di sei persone, tanto valeva dare un’occhiata.
Poggiò la candela e spiccò un salto.
Raggiunse la trave con le mani, si issò su di essa e ci si accovacciò sopra. L’aria era più calda lì, e l’odore più forte. Camminò in equilibrio sul reticolato sospeso. Su una delle travi più vicine all’uscita c’era una trappola con un topo mezzo putrefatto. Una poco più avanti con un cadavere più fresco. Se lo avesse trovato un paio di giorni prima, avrebbe potuto mangiarlo: peccato.
Mistero risolto, poteva andarsene a dormire.
La musica cessò di colpo, un bambino stava piangendo.
Non si prova empatia. Pena e compassione sono fardelli da lasciare indietro, o non si può diventare dei veri soldati.
Distolgono dalla missione, fanno perdere di vista l’obbiettivo.
Questo era vero fino a qualche mese prima. Fino a quando era stato il soldato perfetto, l’esperimento UNO.
Poi Zero gli aveva tagliato la gola e aveva ucciso il dottor Golia. Il dottor Castellani aveva preso il posto del vecchio nel progetto M.I.S.H.A., e tutto era peggiorato. Castellani lo aveva strappato alla morte e gliela aveva fatta desiderare, ogni giorno, per i mesi successivi. Finché era scappato.
Un coro di risate coprì il pianto.
Uno saltò giù dalla trave e molleggiò sulle caviglie.
Corse verso la porta, una spallata fu sufficiente a scardinarla. La luce del pian terreno filtrava nella tromba delle scale.
Si sporse sul corrimano e saltò giù.
La voce impastata di alcol di uno dei tossici gli stridette nelle orecchie. – Stai facendo frignare il moccioso! Vedi di muoverti! – Era un tipo sulla trentina e puntava l’indice sul petto di uno degli esterni. C’erano una ventina di persone, quasi tutti maschi, quasi tutti imbottiti di alcol ed eccitanti sintetici.
Qualcuno rideva, ma per lo più erano presi dalla dimostrazione di potere di quello che poteva essere il loro capo. Il trentenne dai capelli unti e la barba vecchia di giorni. Indossava una giacca di pelle logora sopra a una di jeans, pantaloni militari e un coltello infilato nella cintura.
Gli esterni erano rintanati in un angolo, tutti, eccetto quello al centro dell’attenzione, e uno dei bambini stava piangendo.
Si sarebbe dovuto fare gli affari suoi. Gli esterni, fino a quel momento, aveva dovuto ammazzarli, o consegnarli.
Strinse i pugni e fece scrocchiare le dita. Golia era morto e Castellani era solo un brutto ricordo, ora poteva scegliere cosa fare e in che modo indirizzare la propria vita.
Il ragazzino affondò il viso nel grembo di una donna, la madre forse.
C’erano quattro fuochi accesi in altrettanti bidoni e tutta la gang di teppistelli del pian terreno. Il capo brandiva un coltello, ma gli altri sembravano disarmati. Erano in tutto una quindicina di persone, di cui la metà era strafatta. Poteva affrontarli.
– Non hai pagato l’affitto, pezzente. Noi siamo persone per bene – Il trentenne unto rise gettando la testa indietro e indicò gli altri teppistelli del gruppo. – Ma i miei amici qui, hanno delle scadenze, io ne ho. – Lo pungolò ancora. – Quindi, o tiri fuori i soldi che mi devi, o io faccio strappare i denti ai tuoi bei bambini.
La donna che abbracciava il ragazzino emise un gridolino isterico e lo strinse ancora più forte, ci si curvò sopra, sperando di nasconderlo.
Uno entrò nella sala. I vecchi macchinari erano stati accatastati sul fondo, ostruivano l’entrata principale, rendendo quello da cui era arrivato l’unico accesso possibile. Si schiarì la voce con un colpo di tosse per attirare la loro attenzione.
Da quando Zero gli aveva reciso la gola parlare era una tortura, per quanto si fosse rigenerato, per quanto Castellani avesse lavorato sulla ferita, ogni parola era uno strappo sulle sue corde vocali.
– E tu chi cazzo sei, amico? – Il trentenne unto afferrò il coltello. Qualcuno rise dal gruppo, odore di adrenalina, sudore che puzzava di cocaina e speed.
Non gli rispose, non valeva la pena sprecare parole per degli esseri inutili, anche perché, di lì a poco, oltre che inutili, sarebbero stati morti.
Superò la distanza che lo separava da lui con un salto. Un colpo secco al plesso solare e il trentenne viscido cadde all’indietro privo di sensi.
Il coltello scivolò sul pavimento polveroso.
Qualcuno rideva ancora, qualcun altro aveva capito che non c’era proprio niente da ridere.
– Ma che? – Un tizio mezzo ingobbito e con la carnagione scura non ebbe il tempo di dire altro, Uno fece perno sulla gamba sinistra e calciò con la destra, un colpo alla gola.
Le risate cessarono, passi di corsa verso l’uscita.
Uno sferrò un cazzotto e una gomitata al più vicino, poi si voltò verso un altro.
Non c’era scontro, non erano addestrati ed erano strafatti. Rincorse uno che cercava di scappare, entrò in scivolata e gli colpì le gambe. Il rumore delle ossa che si spezzano: da quanto non lo sentiva?
Quello rotolò a terra e iniziò a urlare, le mani che cercavano di raggiungere il ginocchio, piegato in senso contrario.
Uno si rialzò al volo, la guardia alta. A conti fatti, esclusi quelli che erano riusciti a scappare dovevano ancora esserci cinque o sei sacchi da allenamento in carne e ossa. Poggiò le mani a terra e saltò verso i superstiti, le uniche due ragazze si erano abbracciate e schiena alla parete erano scivolate a sedere. Si voltò verso gli uomini, puzza di urina e feci. Due di loro avevano i calzoni bagnati.
Fece un cenno con la testa e quelli scapparono via.
Gli esterni non sembravano aver capito che era lì per aiutarli, che aveva fatto tutto per loro. La madre aveva spinto il ragazzino contro il muro e lo aveva coperto con il proprio corpo, tremava e singhiozzava talmente forte che poteva sentirla sopra alla musica della radio portatile.
L’uomo che aveva appena salvato era ancora al centro dello stanzone, immobile, guardava dritto davanti a sé con gli occhi sgranati.
Della bella brigata di vigliacchi erano rimaste solo le due ragazze, e il trentenne, che era ancora svenuto.
Uno distese le spalle e fece scrocchiare le ossa del collo. Si avvicinò alla radio portatile che era poggiata su un mobile in ferro da officina, accanto a uno dei bidoni e la spense.
Quiete.
A parte il piagnucolare e i respiri affannati, c’era finalmente quiete.
Probabilmente era colpa dell’isolamento in cui viveva più o meno da sempre, ma odiava i rumori forti.
Avrebbe voluto sorridere, avrebbe voluto battere il cinque ai due ragazzini, come facevano nelle serie televisive, ma quelli sembravano aver più paura di lui che dei tizi che li avevano minacciati fino a un minuto prima.
Tirò su col naso e mise le mani in tasca. Non aveva molto da fare lì. Uscì dalla porta che dava sulle scale. Tese l’orecchio: nessuno cercò di fermarlo. Il ricordo della dopamina che gli iniettavano al compimento di una missione gli scaldò il torace. No, non era il ricordo, non poteva avere quell’effetto.
Qualunque cosa fosse era una sensazione piacevole.
Capitolo 2
La baracca sul tetto doveva essere stata una specie di rifugio, un posto dove il proprietario della fabbrica andava a rilassarsi, o qualcosa del genere. E probabilmente, doveva essere un appassionato di uccelli, viste le decine di gabbie polverose che aveva trovato appese un po' ovunque. Il bello di quel posto era che nessuno era riuscito ad arrivarci. La scala antincendio era impraticabile, se non eri un Segugio, e la scala interna doveva essere una delle prime cose ad essere crollate quando l’edificio era stato abbandonato.
Aveva dovuto combattere con polvere, escrementi di topo e di uccello, ma alla fine si era ricavato un buon rifugio. La poltrona della scrivania era comoda per dormire, di certo più comoda delle brande al laboratorio e le scaffalature erano ancora intatte.
Uno accese un paio di candele e rianimò il fuoco nel braciere che aveva lasciato prima. Aprì un po’ la finestra per far uscire il fumo e poggiò la grata di ferro sulla fiamma. Non gli era rimasto molto da cuocere, qualche pezzo di pane e un radicchio che aveva visto tempi migliori. Li mise entrambi sulla grata e si scaldò le mani.
Quella cena era comunque meglio dei papponi insapori che mangiava di solito. Probabilmente aveva un quarto dei nutrienti, ma al momento non gli importava molto.
Era fuori dal laboratorio, per qualche motivo il richiamo acustico sembrava non avere più alcun effetto e nessuno lo avrebbe potuto trovare. Non avrebbe ucciso nessuno, non avrebbe eseguito ordini come un automa e nessuno avrebbe più potuto usarlo come un oggetto inanimato. Tutto questo valeva un po’ di freddo e lo stomaco vuoto.
– Ehi!
La voce veniva da fuori, dal basso, probabilmente dal piano inferiore.
– Ci sei?
Non potevano avercela con lui, quelli del primo piano erano sempre troppo strafatti e gli altri non lo avevano mai considerato.
– Tu! Che vivi sul tetto!
Ecco. Forse aveva fatto male i propri calcoli. La porta aveva bisogno di una leggera spallata per scivolare sul manto di foglie secche e calcinacci, la aprì e attraversò il terrazzo. Si affacciò dal parapetto, verso la scala antincendio.
Uno degli esterni, quello che era stato minacciato poco prima, era affacciato dalla porta finestra, aveva una candela accesa in mano e con l’altra si reggeva a qualcosa all’interno, per sporgersi il più possibile.
– Finalmente! – Gli fece un cenno. La candela disegnò una linea gialla. – Grazie! – Non disse altro. Poggiò la candela a terra e prese una busta di plastica. La fece