Il Padre Nostro di Dante
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Il Padre Nostro di Dante - Maurizio Signorile
Introduzione
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Si può pregare con il Padre Nostro di Dante?
In tempi in cui si dibatte sulla più efficace traduzione della preghiera che Cristo insegnò ai suoi discepoli, quella di Dante in volgare potrebbe forse offrire una valida alternativa; altri versi della Divina Commedia, come l’Inno alla Vergine dell’ultimo canto, sono ormai utilizzati come vere e proprie preghiere. Rispondere alla domanda posta non è immediato, tanto più che il testo dantesco, come spesso accade, sembra celare molto più di quello che dice. C'è di più: se vogliamo in verità dare esito a questo interrogativo dobbiamo essere pronti a mettere in discussione l’idea stessa che abbiamo del pregare, soprattutto con una preghiera, quella del Padre Nostro, donataci direttamente dalle Parole del Figlio, ed essere pronti a riviverla in noi stessi, insieme a Dante, con coraggio, in senso più profondo ed esperienziale.
In quella che solo superficialmente è una traduzione, il Poeta sembra condividere con noi delle preoccupazioni molto contemporanee, come l’apparente impaccio nella resa della sesta richiesta et ne nos inducas in tentationem, questione attualissima, che ancora oggi, dopo settecento, anzi duemila anni, facciamo fatica ad accettare pienamente. Quel non spermentar dantesco non è però semplice trasposizione, riaggiustamento di una non soddisfacente traduzione, esso è la maniera in cui Dante riesce a non far rimanere quel termine vuoto, bensì a parlare della propria tentazione, per far sì che dietro le parole ritrovi la sostanza di ciò che prega. In realtà in tutto il testo si nasconde una complessa trama di riferimenti, scoperti vocabolo per vocabolo, che raccontano la storia di un traviamento, quel periodo di difficoltà in cui Dante, persa l'umiltà e abbassato lo sguardo alle cose terrene, ha faticato a sentirsi figlio e si è perso nella selva oscura.
Dall'esame della terzina sulla tentazione, vera novità del presente lavoro, prende avvio la necessità di rileggere tutto il testo e di ricercare in ogni terzina, in ogni frase, in ogni vocabolo un sistema più ampio di riferimenti che si snodano fra le varie opere del Sommo Poeta: in questo lavoro l’analisi filologica non è fine a se stessa ma è al servizio della riflessione spirituale, tanto che l’esigenza iniziale, pregare, si riproporrà alla fine in maniera assai più stringente e personale.
Quello di Dante è un pregare poeticamente, un poetare pregando e in queste sette terzine veramente l’uno non può prescindere dall’altro: il merito del Poeta fiorentino è forse quello di mostrare che in una preghiera, oltre le parole, spesso recitate a memoria al di là del loro significato, c’è un senso che quelle stesse parole, o se ne necessario altre, sono chiamate a restituire, essendo loro al servizio della preghiera e non il contrario.
Un volgarizzamento
Il Padre Nostro di Dante costituisce le prime sette terzine del canto XI del Purgatorio, il canto centrale della triade dedicata ai superbi, e per diverse ragioni è un unicum nella Divina Commedia. Capita anche altrove che il Poeta inizi un canto con una preghiera¹ e ne fa comunque un largo uso nelle tre Cantiche, ma mentre per altre ne cita brani o anche solo un verso, appellandosi di volta in volta alla certa conoscenza che ne ha il lettore, qui ne abbiamo l’intero testo. Altra particolarità è che negli altri casi le preghiere liturgiche sono sempre recitate in latino: dal Salve Regina al Te deum, dall’Agnus Dei al Gloria; invece Dante traduce in volgare il Padre Nostro e questo è importante se pensiamo che liturgicamente la preghiera era recitata in latino, fino a settant’anni fa; ma soprattutto perché ci fa rendere conto che tradurre in volgare non è per Dante sminuire, anzi questa scelta già dal Convivio attesta una sua volontà estensiva, volta a raggiungere più persone, il suo voler dare a molti... dare utili cose... sanza essere domandato lo dono, dare quello (Cv I VIII 2). Nella sua opera, come per tutta la Bibbia, anche per il Padre Nostro «Dante è traduttore – e spera di non essere traditore
– della parola divina, volgarizzandola affinché possa parlare direttamente all’intelletto umano»². È questo probabilmente il tentativo di Dante, che questa preghiera parli senza mediazioni al cuore dell'uomo, vedremo, di un uomo in particolare, e le due peculiarità che la rendono unica in tutta la Divina Commedia, la completezza e la traduzione, ne sono segni evidenti.
Come si vedrà questa non è soltanto una lineare traduzione ma il testo della preghiera si dilata con aggiunte e commenti che ampliano il significato e il senso di ogni versetto. Basti anche solo il dato numerico: dalle 49 parole del testo evangelico Dante ci restituisce con i suoi versi 145 parole, in sostanza triplicandolo. Nel Medioevo si era sviluppato questo fenomeno letterario definibile come volgarizzamento
delle preghiere latine della Chiesa: alla traduzione si affiancavano, meglio, s’inframmezzavano dei commenti, andando a costituire «una specie di genere letterario di moda, tra dottrinale e rettorico»³. Tale filone era soprattutto di marca francescana, quindi relativamente recente nella letteratura religiosa italiana del Duecento⁴, e di esso si possono citare due eminenti esempi che il Poeta fiorentino ben conosceva: la Distinzione del Pater Noster di Jacopone da Todi e la Expositio in Pater Noster proprio del Santo di Assisi.
Nel volgarizzare il suo Padre Nostro Dante è quindi in linea con un genere che si era affermato nei decenni precedenti, ma egli si cimenta veramente in qualcosa che era un’assoluta novità: volgere una preghiera in poesia, in endecasillabi rimati, facendo sì che il testo risulti parte della Commedia, coerente con lo sviluppo dell’opera che scrive, nel momento preciso in cui esso prende forma; ma tutto ciò non è per lui un ostacolo, bensì una risorsa e si vedrà quanto e come la forma poetica e il linguaggio, in special modo quello amoroso, siano per il Poeta un mezzo, una chiave con un’enorme potenzialità, che addirittura lo aiuta a meglio comprendere ed entrare nel testo evangelico e restituire al lettore molto più di una semplice traduzione in volgare.
Il giudizio della critica
Questo passaggio della Divina Commedia non ha in verità sempre raccolto il plauso dei dantisti e ha suscitato anche diverse critiche: per il Tommaseo «la parafrasi non è indegna di Dante; ma è parafrasi», Parodi parlò di «elemento poco più che decorativo», Pernicone ha usato termini come «incerto... incoerente... impacciato» e Perotti ha definito questo Padre Nostro «trasformato e deformato»; ma non è possibile a nostro parere neanche ridurre questo solo a «un esperimento d’arte», come scrisse Bosco⁵. Il più impietoso fu certamente D’Ovidio che nel definirlo uno «squarcio lirico... abbastanza brutto» si lamentò del fatto che «una preghiera che sappiamo così bene a mente, così augusta e sacramentale, noi non tolleriamo davvero se non una pura e semplice traduzione. Ogni