Barbogeria
By Carlo Linati
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Barbogeria - Carlo Linati
Barbogeria
Copyright © 1917, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728395011
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
CAPITOLO I
Adieu paniers, vendanges sont faites
Il treno si arrestò finalmente alla stazione della piccola città.
C’erano volute quattordici ore di viaggio per raggiungere nel cuore della provincia di Barbogeria quella misera cittadina che n’era il capoluogo e nella quale mi aspettava l’ambìto impiego di un sottosegretario di Prefettura. Quattordici ore di una giornataccia di Gennaio gelida ed imbronciata, trascorsa fra un variare di cere viete al di dentro, di paesaggi assiderati al di fuori.
Ma, come Dio voleva, ero arrivato. Scesi dal treno e infilai l’uscita; e tosto mi ritrovai su un piazzaletto nebbioso dov’eran due portieri d’albergo, che appena mi videro, si precipitarono sulle mie valige e, uno da una parte l’altro dall’altra, facevano a chi più tirava.
Alla malora i biechi pensieri! Per il gran rimuginare che avevo fatto intorno al mio destino, manco m’era restato tempo, in tutto il viaggio, di cercarmi su una Guida un albergo dove passare la prima notte di quel mio soggiorno in Barbogeria. Sicché, costretto a deliberare lì per lì, scelsi tra i due la faccia meno cagnazza, e a quella mi affidai. Montai sull’omnibus e si partì.
Si fece una scesa, si passò un ponte, si valicò una barriera, si rotolò parecchio per alcune viuzze tortuose; infine s’entrò sotto un androne e ci si fermò in mezzo a un cortiletto intorno cui s’alzavano vecchie case piene d’umido e schizzate d’uccelli.
Sùbito una porticina s’aprì e sbucò fuori, con una candela in mano, un ostiere spilungone che, datomi il benvenuto, mi fece lume nello scendere, poi con mille convenevoli mi condusse dentro l’albergo, dove, sull’uscio di sala mi apparve la più fratesca femmina mi vedessi mai. Era la moglie dell’oste che, saputo l’arrivo di un forastiero di riguardo uscita dalla bacheca di vetro dove invigilava il servizio, ci s’era fatta incontro. Ella m’inchinò con un sorrisetto grazioso, porse al marito il mazzo delle chiavi e ritornò in bacheca. L’oste allora mi fe’ salire al primo piano, m’introdusse in una camera da letto, depose il lume sul comodino e mi lasciò senza far motto.
La sera era triste. Dopo il viaggio malinconico l’arrivo ancor più tetro in mezzo a quella musoneria di cose e figure provinciali e, più che tutto, il pensiero molesto di vedermi ridotto a vivere, chissà per quant’anni, in quella cittaduzza lontana da ogni giocondità, mi piombarono in una desolazione profonda.
M’affacciai ai vetri. Giù in basso si stendeva una piazza deserta e semibuia, dal mezzo della quale s’alzava, come a conciliabolo, un gruppetto di alberi scheletriti intorno a una statua equestre. Agli orli della piazza si travedevano, tra una nebbiaia spessa, alcune casette basse stipate, di cui i lampioni lumeggiavano qua e là fiocamente le facciate mal tinte e sgretolate. Incombeva su quella scena come un senso d’indicibile squallore.
Che amari pensieri mi invasero in quel momento! Con una sorta di intuizione scorata io sentii ciò che v’ha di uggioso, di irreparabilmente desolato nella vita di una città di provincia, sentii tutta la meschinità degli uomini che, là da quella piazza, dentro case buie e malsane, trascinavano i loro giorni senza fede né bellezza. E il disprezzo, l’avversione ch’io sempre avevo nutrito verso quella gente divennero in quell’istante sì forti in me da mutarsi in un senso di angosciosa rivolta.
Allora come un naufrago che stia per affogare mi aggrappai a quelle tavole dove stavano come dipinti a grandi figure i ricordi della mia vita, vita lietamente spesa fra passatempi d’ogni sorta, fra gioliti d’eleganze e d’amori, ne’ più variati soggiorni delle capitali europee.
Mio padre, gerente di una vasta azienda industriale che aveva filiali per tutt’Europa, terminati ch’io ebbi gli studi classici in un collegio di Gesuiti, prese ad inviarmi qua e là per quelle succursali. E ciò, diceva, perch’io ne invigilassi l’andamento e m’adoperassi a mantenere vivi e cordiali i rapporti fra la casa madre ed esse. L’incarico, si vede, era assai agevole, ed io ne traeva profitto più per me che per la casa madre. E facevo esperienza di uomini e di cose. Di donne massimamente. Ché, all’uscire dei badiali anni di collegio, divampava per le mie membra la sensualità di un’adolescenza robusta che per la prima volta si sentiva libera e sbrigliata e già poco eran valse a tener in freno le regole del Loiola e il vitto pitagorico di quei religiosi. Sì che, sbrigate a furia le mie ambasciate, io d’altro non m’occupavo che di godermi gli spettacoli, gli svaghi, gli amori delle belle città.
Avevo poi cura di raggranellare in ognuno di quei luoghi un bel mucchietto di amicizie spassose e scioperate, per modo che, appena v’arrivavo, già sapevo dove dar di capo per trascorrere nella maniera più gaia il mio soggiorno. E qua un convegno galante, là un ballo mascherato, sempre me la passavo piacevolmente, senza un pensiero al mondo. Anzi, a dir il vero, in quel mio raffinato godere, io posi, poco alla volta, un certo orgoglio. Come spesso accade a chi avendo durato a lungo in uno stato di cose è portato a lavorarvi attorno di teorie, mano mano m’addentravo in quella vita, io m’intestavo sempre più a volerla assaporare in ogni sua sensazione più riposta, a razzolarla, per così dire, fin dentro l’ossa.
Era però questa una passione più malsana di quanto si creda perché essa non dava posa al mio desiderio, e dal guazzabuglio d’emozioni che dentro mi veniva formando, m’esalava la fumea d’un’accidia che a volte arrivava fino alla nausea.
Io non ero propriamente quel che si dice un viveur. M’aggiravo sì con baldanza in quel mondo di lusso e piacere, ma più ché sguazzarvi mattamente mi garbava fiutarne l’aroma, aspirarne l’alito acceso. Godutavi un’emozione, trascorrevo a un’altra. E siccome per la mia gran docilità di cuore non era forma di godimento alla quale mi sentissi propriamente negato, così io fui a volta a volta coureur de femmes, spadaccino, cricketer, impresario d’una danseuse peruviana, affiliato a una setta buddista, predicatore sui trivi e quanto altro non so.
Quella vita delle capitali come l’amavo! Non potevo stare che fra le sue grandi folle, sulle sue strade interminate: aspiravo con delirio l’aria spessa ed agitata dove vivevano mescolate le moltitudini di tutte le razze. I paddocks dove si correvano i «Grands Prix», i vasti velodromi, le tuonanti orchestre, i casinos scintillanti di luce e femmine, la vita febbrile degli uffici commerciali, lo spettacolo di scandalosi processi, le nuove follie dell’eleganze, dei sensi, delle anime formavano il mio alimento cotidiano. Che manco a dire, poi, da quella mia attività tasteggiatrice io non traeva utile veruno. Essa non mi serviva nemmeno a redar cronache galanti o romanzi d’avventura, nemmeno, propriamente, a rendere più solida ed estesa la mia scienza del mondo. Le spirituali vivande accattate così a casaccio non si prestavano a esser chimificate in esperienza, ma solo, com’ho detto, a insediarmi dentro un arruffio grandissimo d’emozioni e d’idee. Che tutte poi mettevano capo a una sconfinata grandigia, e questa faceva sì ch’io andassi superbo del mondo in cui vivevo come di un parto della mia fantasia.
Ma un brutto giorno la Sventura sonò a doppio sulla scena della mia vita.
Mio padre ch’io cercava vedere il meno possibile per non sentirmi sempre fastidire con l’eterne rampogne sul lavoro e il dovere, un giorno, trovandomi io in una città del Nord per non so quale affare di gonnella, è colto d’apoplessia. Accorro di volo, ma, ahimè, in tempo soltanto per stringermi fra le braccia la sua povera salma.
Questo sì che fu bene l’ultimo brano di vita «ad alta pressione» che mi toccò di provare!
Non il becco d’un quattrino ei mi lasciava. Vagheggiatore d’imprese ardite e rischiose, egli soleva profondere la pingue annualità del suo stipendio in speculazioni di terreni che andaron sempre di male in peggio ed alla fine precipitaron del tutto. Che fare? I vaghi uffici ambasciatorii che, lui vivo, mi venivano affidati per suo rispetto dalla società, mi furon tolti. Mi si offrì in compenso un modesto impiego nell’azienda, ma reputandolo io indegno della mia nobiltà di uomo europeo, rifiutai. N’ho in cambio una bella usciata da quei bravi procuratori. Non mi disanimo, e pacificatomi col dire che tale era veramente la sorte riserbata agli uomini forti e geniali, mi rassegno al destino.
Ma intanto Necessità mi stava alle calcagna. Ed io con quella mia poltronaggine radicata per l’ossa, con quel mio sempre isperare dalla dimane quel che l’oggi non mi dava, mi riduco a così mal partito, che, se non voglio campare d’elemosina, conviene ch’io pieghi il capo e m’adatti a un mestiere.
S’apriva allora uno di quei concorsi annuali mediante cui il Governo suole fare incetta di macinatori per il suo burocratico mulino. Io presento i miei titoli e col soccorso di alcuni amici che m’eran rimasti fedeli nella sventura e a cui non pareva vero liberarsi a buon prezzo della minaccia di un possibile parassita, vengo nominato Sottosegretario di Prefettura in quella cittadina di ventimila anime, capoluogo di Barbogeria, già sede del potente Ducato de’ Barbogi ed ora centro manifatturiero per l’industria de’ Salumi e delle Concerie.
Ora lì, in quella stanzuccia d’albergo, quei casi e quelle passioni d’un tempo mi tornarono alla