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Viaggio in America: Musica coast to coast
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About this ebook

«Che ne pensi del rock cambogiano?»
La domanda suona bizzarra, perché il rock cambogiano non è un vero e proprio argomento di conversazione – un po’ come la musica colta americana, verrebbe da pensare. In questo libro si scopre invece quante sorprese riservino in merito gli Stati Uniti, a volerli esplorare meglio: compositori dissacranti, interpreti estrosi, personaggi, sonorità e atmosfere impregnati di quella contaminazione culturale che genera un inconfondibile sguardo poetico sull’arte e sulla vita.
Un appassionante on the road lungo i sentieri (in Italia spesso sconosciuti) della scena musicale statunitense moderna e contemporanea, con la guida di un interprete che, come scrive Joseph Horowitz nella Prefazione, «padroneggia di fatto il più grande e il più variegato repertorio americano di qualunque pianista […] mai conosciuto». Dalla brulicante giungla di New York ai silenziosi deserti dell’Arizona, passando per le riserve indiane del Midwest e una San Francisco assolata che somiglia a Napoli, alla scoperta di una musica dalla irresistibile vocazione narrativa. Se solo la conoscesse, il pubblico potrebbe innamorarsene. Purché si tratti di un pubblico curioso.
Il viaggio è accompagnato da una playlist online accessibile tramite il QR Code che si trova in fondo al libro.
Emanuele Arciuli (Galatone, Lecce, 1965), pianista, suona per alcune fra le maggiori istituzioni musicali della scena internazionale. Più di cinquanta le pagine composte per lui da autori come, tra gli altri, George Crumb, Milton Babbitt, Frederic Rzewski, Michael Nyman, Michael Daugherty, John L. Adams. Incide per le maggiori etichette discografiche e ha pubblicato diversi saggi sulla musica americana contemporanea. Nel 2011 ha vinto il premio della critica “Franco Abbiati” come miglior solista. Insegna all’Accademia di Pinerolo e al Conservatorio di Bari.
LanguageItaliano
Release dateMay 13, 2022
ISBN9788863953916
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    Book preview

    Viaggio in America - Emanuele Arciuli

    PRIMA DI PARTIRE

    UN SIGNORE DAI CALZINI ROSSI: COME TUTTO EBBE INIZIO

    Mi capita spesso di chiacchierare sulla musica americana, in occasioni più o meno formali, e quasi invariabilmente la prima domanda che mi sento rivolgere è: «Quando è nata questa passione? E come?». La risposta sembra tratta da un romanzo di Paul Auster, uno scrittore americano che insiste spesso sul ruolo del caso nella vita della gente.

    Ero a Bari – la mia città – in un assolato pomeriggio primaverile del 1994, e stavo passeggiando per le vie del centro quando, fermo a un semaforo, vidi un signore vestito con sobria eleganza, in parte contraddetta da un paio di vistosi calzini rossi. In spalla uno zaino nero, grande, anche quello un po’ dissonante rispetto allo stile dell’abito. Forse perché incrociai il suo sguardo, o forse soltanto perché doveva succedere, si avvicinò per chiedermi un’indicazione e scoprii così che eravamo entrambi diretti alla sede dell’associazione musicale Il Coretto. Parlava un buon italiano con forte accento americano, e pensai fosse un turista appassionato di musica, magari in cerca di qualche concerto da ascoltare; mi sbagliavo: il pianista era proprio lui! E adesso doveva studiare un po’, dal momento che quella sera avrebbe tenuto un recital in una piccola sala della città vecchia.

    Non ricordo il luogo esatto ma, per curiosità, decisi di andarci. Fu una buona idea: quel giorno eravamo davvero in pochi, nel pubblico; il concerto era stato pubblicizzato male, e so quanto sia desolante esibirsi per dieci persone. In quei casi anche un solo spettatore in più, specie se plaudente, fa la differenza. Joel Hoffman – ecco il suo nome – proponeva musiche sue e di altri compositori statunitensi, che io per la maggior parte ignoravo. È stato così che ho scoperto la musica americana, ma non fu un colpo di fulmine: giusto il primo approccio con un mondo che immaginavo vagamente e di cui mi sfuggiva ancora la reale portata.

    Con Joel Hoffman (a destra) a Cincinnati (1998)

    Alla fine del concerto, mi parve naturale invitare a cena il bizzarro signore dai calzini rossi. Io e Joel andammo in una di quelle trattorie un po’ scalcinate della città vecchia che tanto affascinano i turisti, e nelle quali si può mangiare bene. Parlammo a lungo della musica contemporanea, e provo un certo imbarazzo nell’immaginare – me ne rendo conto, adesso – la pazienza che Joel deve aver avuto nel confrontarsi con me, musicista curioso ma ignaro della vastità di un’America che, nella mia ingenua presunzione, credevo ridursi ai nomi di Ives, Varése, Copland, Barber, Cage, Glass, Reich, oltre, naturalmente, a Gershwin e Bernstein. Beh, conoscevo anche la musica di Frederic Rzewski, e poco di più. Lui fu molto gentile e – complice la cucina barese e un po’ di vino – si aprì a considerazioni stimolanti sul futuro della musica e sul pianoforte.

    Quello che proprio non avevo supposto, e che cominciò a disvelarsi già durante il concerto, è che dietro questo signore dinoccolato e perennemente distratto, con l’aria di uno che si è appena svegliato da un sonno agitato, ci fosse un musicista di prim’ordine, un maestro riconosciuto, e per giunta l’ennesimo esponente di una famiglia di musicisti affermati⁰¹. Con la musica Joel intrattiene, dunque, un rapporto privo di ogni retorica o divorante ambizione personale. Essa è piuttosto come l’aria che respira, un elemento naturale, né buono né cattivo, semplicemente inevitabile.

    Restammo in contatto e fu così che ricevetti da lui un disco, Cubist Blues, che segnò il vero inizio del mio rapporto con la sua musica. Si tratta di un lavoro per pianoforte, violino e violoncello, in quattro movimenti: quattro blues (forse sul modello dei Four Blues di Copland) in cui – come avrei scoperto più tardi – riprende, elabora o anticipa materiale di altre sue composizioni, in particolare il ciclo per pianoforte Each for Himself e la suite orchestrale Millenium Dances, che del primo è una sorta di sviluppo. Lo stile è intriso di jazz, ma un jazz educato, o meglio mediato: non quello di Ornette Coleman o Anthony Braxton, insomma, piuttosto quello di Leonard Bernstein e André Previn. Devo molto all’emozione di questo brano, perché è certamente una delle pagine che mi hanno fatto entrare nel mood della musica americana. Riuscii a organizzare, qualche tempo dopo, un’esecuzione del trio a Bari, in una piccola biblioteca del centro che per me aveva un valore importante visto che, da ragazzino appena quindicenne, vi avevo ascoltato una conferenza di Luigi Nono. Tutta un’altra storia, naturalmente, e tutta un’altra musica.

    Tra i compositori americani, Joel Hoffman è stato il primo con cui ho stretto amicizia. Ma c’è un altro motivo per cui questo viaggio deve iniziare con lui. Al tempo del nostro incontro, Joel stava già pensando a un piccolo festival dedicato alla musica americana, una di quelle manifestazioni che si tengono nelle università, specie d’estate, quando le lezioni sono terminate e c’è più spazio per altre attività. Quando me ne parlò, durante quella prima cena nella Bari vecchia, sembrava un’idea astratta, una di quelle cose di cui si chiacchiera e che raramente si concretizzano.

    E invece questo festival si è realizzato, rappresentando per me la chiave d’accesso a un mondo con il quale – per quelle imprevedibili alchimie che segnano le nostre esistenze – ho intrapreso un rapporto che avrebbe impresso al mio essere musicista una svolta decisiva. In breve, posso dire che il mio viaggio nei sentieri della musica americana non è nato da soggiorni di studio nelle università statunitensi o altre esperienze del genere, ma da una banale indicazione stradale chiestami da un signore per le vie della mia città.

    Nel corso della mia esperienza oltreoceano, mi sono reso conto che spesso le cose più importanti hanno dinamiche semplici e discrete, specie se la vita musicale non è intesa come una collezione di concerti e di medaglie da esibire, ma piuttosto di incontri e storie da raccontare.

    Joel Hoffman, Cubist Blues

    [Gasparo Records]

    Joel Hoffman, Each for Himself

    [CD Americans, Emanuele Arciuli (pianoforte), Stradivarius]

    Joel Hoffman, Violin Concerto n. 2

    [Cho-Liang Lin (violino), Taipei Orchestra, Li-Pin Cheng (direttore), Naxos Records]

    CINCINNATI, OHIO

    IL FESTIVAL MUSIC X

    Quando, all’inizio del 1998, Joel Hoffman mi scrisse per invitarmi al neonato festival Music X, non immaginavo ancora che l’America sarebbe diventata una destinazione così importante e consueta, per me. La prima cosa che pensai fu di approfittare del mio primo viaggio intercontinentale per visitare New York: chissà quando mi sarebbe ricapitato!

    Del festival sapevo poco, e in fondo ne sapeva poco anche Joel, visto che il progetto aveva appena preso forma. Ma c’erano già alcuni punti fermi, che poi avrebbero dato spessore e continuità alla manifestazione negli anni a venire. Innanzitutto la presenza, come ospiti, di tre compositori prestigiosi. Poi la partecipazione di tantissimi giovani compositori provenienti da tutti gli Stati Uniti, e in qualche caso anche da Messico e America del Sud. A loro si univa un buon numero di asiatici, europei e australiani, giunti negli States per studiare con insegnanti di prestigiose università, e lo sparuto drappello degli esecutori in residence, fra i quali c’ero anch’io. Il mio compito, oltre al recital che avrei tenuto nei giorni seguenti, era ascoltare i lavori dei giovani autori, specie quelli con pianoforte, e fare da coach, dispensando consigli ai compositori e soprattutto agli interpreti, quasi tutti studenti del College Conservatory of Music, la scuola di musica dell’Università, in vista dell’esecuzione pubblica. A ciò si aggiungeva una masterclass da tenere per gli studenti di pianoforte (e a Cincinnati insegnavano maestri del calibro dei coniugi Pridonoff e di James Tocco). Il tutto per circa dieci giorni.

    Conscio del mio inglese – oggi mediocre, ma allora terrificante – cercai di correre ai ripari frequentando un corso intensivo il mese prima della partenza, ma era tardi: avevo basi troppo fragili per rimediare in poche settimane. Partii col dizionario tascabile che, per anni, fu il mio fido assistente; gli smartphone con traduttori elettronici non esistevano ancora.

    Arrivai a Cincinnati in condizioni penose, stanchissimo e disorientato, dopo un viaggio da Roma, con scalo ad Amsterdam, di quindici ore complessive, i canonici tempi di attesa aeroportuali e cibo di qualità scadente; la compagnia era la belga Sabena, il volo piuttosto economico. C’era proprio Joel Hoffman ad accogliermi in aeroporto, e – non appena ebbi depositato il bagaglio in albergo – pensò bene di condurmi all’Università per il primo coaching. Dico: il giorno stesso del mio arrivo, dopo un viaggio intercontinentale! Mi sembrò un atto di puro sadismo, ma Joel – continuamente in giro per il mondo e impermeabile al jet lag – lo fece col suo consueto candore: dimenticando che per me fosse un battesimo, e che forse avrei avuto bisogno di un po’ di tempo in più. Terminata l’ora di lezione, che avevo trascorso in stato di catalessi (il giovane compositore deve aver pensato di trovarsi di fronte a un imbecille), Joel mi diede appuntamento per il concerto serale, non prima di avermi suggerito una pizzeria di fronte all’Università. Si chiamava Pomodori’s, un luogo che mi sarebbe diventato familiare e nel quale sperimentai per la prima volta la pizza americana (che è, più o meno, come un kebab norvegese o un’amatriciana bulgara). Mi sedetti a un grande tavolo assieme ad alcuni studenti del Conservatorio, tra cui una giovane flautista molto cordiale, Nina Perlove. Immagino che in lei si fosse generato un senso di protezione nei confronti di un giovane pianista italiano che mette piede in America per la prima volta, non sa come muoversi e gli mancano pure le parole per dirlo; fatto sta che Nina ed io ci recammo assieme al concerto, protagonista un duo pianistico (Sally Pinkas e Evan Hirsch) alle prese con un lungo brano di George Rochberg, Circles of Fire, composto per loro.

    Non sapevo nulla di Pinkas e Hirsch, ma nemmeno di Rochberg, uno dei tre compositori ospiti del festival. E cominciai ad avvertire la distanza enorme fra noi e l’America, che è davvero un altro mondo, perché Rochberg, in termini assoluti, è un compositore importante che non si può trascurare, ma da noi continua a esser sconosciuto quasi del tutto. Per intenderci, fra i brani che alla fine degli anni Sessanta segnarono il fiorire di quel citazionismo postmoderno che Berio realizzò con Sinfonia, e che di fatto prelude a un cambio di passo nell’esperienza dell’avanguardia, Music for a Magic Theater di Rochberg occupa un ruolo di primissimo piano.

    Circles of Fire, nonostante i colpi di sonno da jet lag, mi impressionò, e cominciai a scoprire il pragmatismo di certa musica americana, che riesce miracolosamente a tenersi in bilico fra coerenza costruttiva e capacità di comunicare, senza rinunciare alla poesia. C’era inoltre una grande quantità di citazioni brahmsiane, dirette ed esplicite, disseminate nella partitura – non frammenti così mimetizzati da risultare comprensibili solo dopo un’attenta analisi della partitura, tipici della musica europea, ma ampie sezioni del tutto riconoscibili. Vi è mai capitato di imbattervi in un compositore del Vecchio Continente (italiano, tedesco, o peggio francese) che dichiara la sua passione, che so, per i Beatles o per Jimi Hendrix, e di ascoltare poi un suo omaggio al venerato beniamino, con presunte citazioni di Yellow Submarine o magari di Foxy Lady, che somigliano all’originale come una linea retta a Marilyn Monroe? Ecco, certa musica americana è un po’ diversa: lì la citazione si sente; sarà poco chic, ma si sente.

    Dopo il concerto, verso le dieci, Joel, i due pianisti, Rochberg ed io ci recammo al diner Sycamore, un luogo storico della Cincinnati downtown. Sembrava di essere sul set di Fuori Orario di Scorsese, uno dei miei film preferiti, o in un quadro di Hopper. I diner americani possiedono un fascino unico, e la loro progressiva sparizione minaccia di cancellare un repertorio di memorie che andrebbe preservato. Rochberg parlava un po’ di italiano, certamente migliore del mio inglese di allora, e scoprii che aveva studiato in Italia, con Luigi Dallapiccola, soggiornandovi per un certo periodo.

    A quel tempo ero impegnato a studiare il Concerto op. 42 di Schönberg, e ne accennai a tavola. Rochberg, che possedeva un’eleganza alla David Niven (era un signore molto anziano ma di grande fascino, alto, longilineo e con un piglio aristocratico e un po’ snob), non amava per nulla quel lavoro, ma lo conosceva bene e me ne cantò il tema dodecafonico; poi, di fronte alle mie timide rimostranze (dell’op. 42 ero, e tuttora sono, un fan), reagì con paternalistica ironia.

    Quell’anno, gli ospiti del festival erano, insieme a lui, Augusta Read Thomas e Paul Lansky. Quest’ultimo utilizzava una sorta di player piano alla Conlon Nancarrow, ma con caratteristiche differenti da un punto di vista stilistico. Ricordo un concerto di sue musiche, che si svolse praticamente al buio. Eravamo poche decine di persone, in un Corbett Auditorium che avrebbe potuto contenerne oltre un migliaio. Ma l’effetto di quei suoni diffusi da potenti altoparlanti, che riempivano lo spazio senza esecutori umani eppure carichi di emozione, fu notevole. Mi ambientai presto a Cincinnati, dove ebbi modo di ascoltare tanta musica e scoprire persone e luoghi preziosi⁰¹.

    Venne il momento del mio concerto, cioè del mio debutto americano. Si trattava di un festival universitario, niente di particolarmente prestigioso, ma per me era un appuntamento fondamentale, per il quale la notte prima, in preda a una certa agitazione, non dormii. Suonai qualcosa della seconda scuola di Vienna (l’op. 27 di Webern, l’op. 1 di Berg, i Sechs Kleine Klavierstücke op. 19 di Schönberg), un paio di brani italiani (Cadenze di Ivan Fedele e Proiezioni Sonore di Franco Evangelisti, studiati per l’occasione), una composizione di Debussy e Winnsboro Cotton Mill Blues di Rzewski. Non ero del tutto soddisfatto della mia esecuzione, per qualche piccolo pasticcio qui e là, ma l’accoglienza del Corbett Auditorium fu molto cordiale.

    Il cuore del festival era però il lavoro con i compositori e con gli interpreti, che si rivelò entusiasmante e istruttivo. Mi confrontavo con una serie di problemi nuovi e di culture differenti dalla mia. In America, infatti, ci si rende conto presto che il melting pot non è un luogo comune ma una realtà incontrovertibile, e non è semplice sintonizzarsi con questa moltitudine di approcci. Io non potevo che restare me stesso, decisamente un po’ naïf, ma sincero. Festeggiai il mio trentatreesimo compleanno a Cincinnati, e gli studenti mi

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