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La voce del silenzio (Ode all’amore)
La voce del silenzio (Ode all’amore)
La voce del silenzio (Ode all’amore)
E-book353 pagine4 ore

La voce del silenzio (Ode all’amore)

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Info su questo ebook

Di fronte agli occhi di un giovane uomo si dispiega la realtà atroce che è costretto a sperimentare in prima persona quando, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, dalla sua Sardegna sarà deportato nel campo di sterminio di Dachau, in Germania. Da qui si dipana una vicenda umana cesellata con oro ed empatia, in cui l’esperienza di un singolo si tramuta nell’emblema della storia della collettività. La voce del silenzio dà effettivamente voce, quasi fosse un amplificatore, alle sofferenze e ai lutti che hanno segnato nel profondo i tanti uomini e le molte donne che hanno vissuto le atrocità partorite dal nazismo.
Emozioni forti, sofferenza e amore sapientemente raccontate con maestria dalla penna incantata di uno scrittore semplicemente autentico.
Eventi e personaggi, pagina dopo pagina coinvolgeranno completamente il lettore portandolo a profonde riflessioni.


Salvatore Mocci è nato a Cagliari l’11 giugno 1958, vive a Gonnosfanadiga, paese a cinquanta chilometri da Cagliari.
Non ancora maggiorenne, dopo aver interrotto gli studi nell’istituto superiore, conseguita una qualifica professionale come saldatore, emigra in Germania dove trascorre un triennio. Lì trova un ottimo lavoro, grazie al suo carattere estroverso e al gioco del calcio che pratica sin da bambino. Il richiamo della propria terra, però, è tanto forte da diventare insostenibile, per cui il rientro in Sardegna è inevitabile. Qui svolge vari lavori, anche se prevalentemente segue l’azienda di famiglia.
Nel 1984 vince un concorso indetto dal Comune di Gonnosfanadiga, dove lavora in qualità di operaio sino all’anno 2000. Successivamente, cambiando mansione, viene impiegato e integrato tra il personale ausiliario della scuola primaria. È sposato e ha due figli.
Appassionato di lettura e d’arte, a tempo perso si diletta con la pittura, la scultura e la scrittura.
La voce del silenzio è il suo primo romanzo. È in fase di ultimazione una raccolta di “poesie non poesie” dal titolo Introspezione.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2022
ISBN9788830658325
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    Anteprima del libro

    La voce del silenzio (Ode all’amore) - Salvatore Mocci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    La voce del silenzio. È un titolo estremamente enigmatico, ricco di significati che il lettore scopre in una continua gradualità.

    Il silenzio degli oppressi, il silenzio imposto con la violenza senza parole alternata a quella urlata, il silenzio assunto per scelta obbligata. Il silenzio desiderato, impossibile da barattare.

    Il lettore, appena inoltrato in quest’opera, può essere indotto a considerarla quale tassello di una nuova già sfruttata narrazione della storia nefasta generata dalla Seconda guerra mondiale. No. L’autore, prendendo spunto da fatti realmente accaduti, si incammina su un filone diverso che gli consente, sì, di dare costante caratterizzazione esclusiva a luoghi, persone e fatti, ma anche di attenersi alla cruda realtà determinata dagli scenari bellici. Egli in questo modo imprime rilievo alle sofferenze e ai lutti che hanno segnato nel più intimo gli uomini testimoni diretti delle atrocità partorite dal nazismo. A più riprese le sue riflessioni esprimono contenuti che nella loro nobiltà giammai sfiorano la retorica.

    Al lettore viene chiesto di impegnarsi in un’interpretazione personale emotiva che lo rende complice idealmente, trascinato com’è nell’infausta realtà. I fatti narrati trovano un’immediata rispondenza nel suo animo.

    È assolutamente assente l’aridità del racconto nell’esposizione degli avvenimenti. Di fatto l’autore imprime alla narrazione empatia così da chiedere al lettore costanti scoperte.

    Il libro assume il significato aggiunto di documento umano nella sua più ampia accezione.

    Le emozioni più profonde che queste pagine esprimono scaturiscono da evidenti momenti di sofferenza, dalla quale in alcune situazioni l’uomo ricava qualche esperienza positiva, mentre più spesso ne è travolto, subendo uno strazio che gli sconvolge l’esistenza.

    In questo contesto è profonda l’analisi della mente umana, del pensiero, dei sentimenti, in particolare del rispetto, della sfera affettiva, del sentimento religioso. Per conseguire questi obiettivi l’autore procede con una continua introspezione dei personaggi, e mette in evidenza la diversità riscontrabile tra un essere umano e un altro, da una parte gli oppressi da un’altra gli oppressori.

    Tra le righe, talvolta in modo esplicito, il lettore vede emergere il concetto di imprevedibilità delle vicende che rendono protagoniste le persone. Gli avvenimenti descritti assumono in modo repentino nuove svolte che divergono dai prevedibili sviluppi.

    Il romanzo, al di là della ripartizione in capitoli, presenta un’evoluzione che determina un naturale cambio di scenari nei quali, tuttavia, gli attori protagonisti continuano a essere presenti pur in un avvicendamento che nel complesso consente di caratterizzarsi per alcuni aspetti comuni.

    Negli accadimenti, amore e violenza si cedono reciprocamente il passo, così che pessimismo, ottimismo e illusione si invertono rapidamente in un vortice creato dalla nostalgia per il passato e la speranza nel futuro.

    Nella prima parte i decadimenti mentale e fisico diventano il filo conduttore della malvagia crudeltà che raggiunge una disumana perfidia difficilmente riscontrabile nella storia dell’uomo.

    Nella seconda parte trova ampio spazio un ricco resoconto di vita agreste oggi sorpassata, per molti versi persa e difficilmente ripetibile e per questo motivo più apprezzabile, rappresentata con descrizione minuziosa di ambienti e persone, figli di un’esistenza grama, spesso dolorosa e travagliata, ma vissuta con orgogliosa dignità.

    Il ritratto che se ne ricava diventa una miniera di informazioni sul rapporto dell’uomo con la natura in una condizione sociale difficile e non raramente ostile.

    Il lettore scopre nel testo riflessioni profonde, mai realmente banali che conducono alla conferma dei grandi valori, anche quando, per assurdo, questi vengono atrocemente calpestati.

    Per altro verso, il sentimento dell’amore occupa un ruolo primario nel continuo progredire degli eventi: dapprima nel corso dei fatti di guerra, successivamente nella realtà quotidiana. È l’amore riservato agli esseri umani, agli animali, alla natura, rivolto cioè verso tutte le essenze portatrici di vita. Tale sentimento, che pure è inalienabile, viene troncato solo dal tradimento di altri uomini che si appropriano della libertà altrui.

    A più riprese l’autore si esprime con un’apprezzabile saggia e misurata mescolanza servendosi della lingua ufficiale con influenze dialettali, non tanto nella forma quanto nell’ispirazione, dalle quali ricava vivacità di immagini e situazioni. Per ottenere questo risultato fa ricorso a molteplici figure retoriche che rendono il testo dinamico. Da esse la narrazione ricava scorrevole esuberanza che dà al lettore ulteriore prossimità con i fatti raccontati.

    Ritengo che coloro i quali si siano dilungati nella lettura di quest’opera, giungendo alla conclusione, ne abbiano tratto un forte appagamento: l’autore ha messo insieme molteplici aspetti che riconducono a riflessioni su concetti fondamentali presenti nella convivenza umana.

    Prof. Raimondo Putzolu

    Introduzione

    In nessuna cartina geografica della Sardegna troverete citato il paese di Gorlos. Ma Gorlos è esistito, o forse ancora esiste in una qualsivoglia parte dell’Italia, con un altro nome che a noi non è dato di sapere. Con un altro nome, ma partecipe della stessa efferatezza e in qualche caso con maggiori brutalità con le quali si perpetuarono i fatti nefandi dell’occupazione nazista.

    Ogni località dell’epoca ha una storia diversa ma le pene del dolore procuravano sofferenza in concorso, spesso in modo molto simile se non uguale.

    Il dolore accompagna ancora oggi i pochi superstiti che hanno subito il danno della deportazione; il tatuaggio che riporta il numero di matricola e che molti di loro hanno ben visibile sul braccio sinistro resiste nel loro animo sino alla fine dei giorni loro concessi, e anzi non morirà con loro, perché, inconsapevolmente e immancabilmente, e non certo per loro volere, come un virus contagia di tristezza la vita dei loro cari. Mariti, mogli, figli, fratelli e sorelle sono le persone più profondamente colpite da questo segno. A niente sarà servito lo sforzo immenso, malcelato e percepibile, che hanno dovuto produrre i poveri deportati per cercare di apparire agli occhi del prossimo persone normali. Indelebilmente la sequenza delle immagini dei turpi trattamenti a cui i prigionieri sono stati obbligati ad assistere e spesso a subire resterà per sempre insieme a loro.

    I fatti raccontati in questo libro sono realmente accaduti nel lager e il sottoscritto ha ascoltato il racconto dalla viva voce del protagonista. Fatti esternati con un filo di voce, ricco di lunghe pause, come se la mente, pur nella sua totale lucidità, facesse fatica a svolgere il nastro dei ricordi. Sicuramente era un dolore insopportabile il rivivere quei ricordi; calde lacrime contornavano il viso di chi raccontava, dai suoi occhi scendevano copiose. Tanto da spingere il sottoscritto a non discorrere più su certi argomenti e a non porre più domande. Non volevo più vedere mio padre piangere.

    Considerando che questo libro è un romanzo, seppur incastonato tra mille tristi verità in uno dei periodi più lugubri della nostra storia, chiedo venia al lettore se faccio iniziare il racconto diversamente dalla realtà nel novembre del ’44. Sia considerato un errore storico voluto l’aver evitato di anteporre nel tempo i fatti, quando i tedeschi erano ancora presenti nel territorio dell’isola.

    In questo modo, ho evitato di dilungarmi oltremodo sui campi di concentramento, per non essere noioso e ripetitivo. Sarebbe stato più semplice ambientare i fatti in altro luogo, ma era mia fervida volontà che si svolgessero anche nella terra natia del protagonista, inoltre non era mia intenzione scrivere un libro che trattasse solo dei campi di concentramento, ma anche e soprattutto dei danni che la deportazione ha causato nei prigionieri, che venivano accomunati in un orrendo destino.

    Un giorno ho conosciuto una poetessa, molto brava e famosa, che scriveva per lo più di cose tristi. Avvertii nel profondo dell’animo che la sua penna era pienamente intrisa dell’inchiostro della sofferenza, perché probabilmente, pensai, in vita molta doveva averne provata.

    Quella sera ero uno dei tanti convenuti per assistere alla presentazione di un suo libro e in quel periodo io ero a metà della stesura di quest’opera.

    Quando quasi tutti i presenti nella sala se ne furono andati, ebbi modo di parlare un po’ con lei e tra le altre cose, in modo forse un po’ irriverente, le dissi: «Le chiedo scusa ancor prima di parlare. Se vuole può non rispondermi, per via della domanda forse un po’ troppo personale, ma io ho bisogno di capire. Le è mai capitato che scrivendo le sia scesa qualche lacrima?».

    Lei ristette un attimo, mi guardò negli occhi, mi mise una mano sulla spalla, che io interpretai come un segno confidenziale, e rispose: «Mi è capitato… Mi è capitato. Più volte!».

    La salutai ringraziandola con il sorriso più radioso di cui disposi. Un sorriso non privo di emozione e di gratitudine, per avermi fatto capire con quella risposta molte cose.

    Non ero l’unico che si emozionava scrivendo. Non per presunzione, ma è la stessa emotività che mi auguro di suscitare in te, lettore o lettrice di questo mio scritto.

    Se solo una pagina di questo mio libro ti ruberà un sorriso o la mestizia sincera di una lacrima, sarà per me il ringraziamento più grande e io nel mio immaginario, guardando i tuoi occhi, capirò che, scrivendo questo libro, non ho sprecato il mio tempo.

    GRAZIE.

    L’Autore

    A mia moglie,

    ai miei figli,

    il più bel regalo

    ricevuto da Dio.

    A una rondine

    bellissima e festante,

    che vola nel cielo,

    e che si chiama

    LIBERTÀ.

    A tutte le vittime

    della guerra.

    Esseri innocenti,

    che di quella rondine

    ne sono i figli.

    I provocatori, i soverchiatori,

    tutti coloro che in qualunque modo,

    fanno torto altrui, sono rei,

    non solo del male che commettono,

    ma del pervertimento ancora,

    a cui portano l’animo degli offesi.

    A. Manzoni

    Ci vuole poco per sconvolgere la monotonia dei giorni della vita di un piccolo paese o di una nazione intera.

    A volte… basta una guerra.

    Capitolo 1

    A Gorlos è un tiepido pomeriggio, come tanti. Il sole ha appena iniziato la discesa che lo porterà a nascondersi dietro alla montagna, recando con sé luce e calore. Dalla finestra aperta una brezzolina leggera, sottile come il filo di una ragnatela, raggiunge a fatica la stanza: profuma di rose.

    Nel giardino sottostante, in aiuole adiacenti i muri laterali del nostro cortile, ci sono tante rose; molte sono ancora dei boccioli, altre invece hanno già perso i loro petali: restano solo steli e corolle disadorne. Il loro ciclo vitale è finito e tra qualche giorno sarà così anche per i restanti boccioli. La magia della fioritura, nel mese di maggio, è qualcosa che allieta l’anima.

    Nell’aria fluttua il profumo intenso dei fiori, pervadendomi le narici, le inonda e, come se mi trapassasse le membra, mi arriva fino al cervello. Chiudo gli occhi e, pur non vedendo l’espressione del mio viso, mi accorgo che sto sorridendo.

    Il sorriso dura un attimo. Penso che quei fiori sono troppo belli, non dovrebbero morire mai! Le cose belle dovrebbero persistere per sempre. Invece sono proprio quelle ad avere vita breve. Spesso solamente il tempo di un’illusione.

    Questa è la casa dei miei genitori, dove sin dalla nascita mi sono sentito desiderato e circondato da tanto amore. E questa, dove mi trovo adesso, è la mia stanza, l’ambiente dove forse ho passato più tempo della mia vita. Se non fosse che una stanza è fatta solo di muri, pareti e soffitto inanimati, direi che io la sento viva, che mi dà calore, e che, quasi avesse sembianze umane, mi vuole bene.

    È la stanza nella quale, ancor io bambino, mia madre, rimboccandomi le coperte, dandomi un bacio sulla fronte mi diceva: «Fai bei sogni, piccolo mio. Buonanotte!». E io pensavo che tutte le mamme del mondo facessero così con i loro figli. Eh sì, che di momenti belli o anche periodi che meritano di essere ricordati ne ho vissuti! Ma se dovessi mettere separatamente sui due piatti della bilancia della vita anche quelli bui, tristi e di sofferenza, penso che quest’ultimo piatto andrebbe giù più velocemente, perché più pesante. In ogni senso.

    Io sono Nino, un ragazzone di ventinove anni, robusto, sano. Di sana e robusta costituzione, così scrive il mio medico di famiglia quando ho bisogno di un certificato.

    Il buon Dio mi ha fatto la grazia di essere sano. A parte un leggero soffio al cuore, che non mi ha mai creato problemi, permettendomi anche di fare sport sin da piccolo, e una bronchite patita da bambino all’età di dieci anni, sono sempre stato bene di salute. Sono sempre stato sano come un pesce: un pesce forte.

    Ho nelle mani una foto del nonno. Mi guarda, è triste. È sempre stato triste mio nonno. Pover’uomo, ne aveva tutte le ragioni. Attraverso il corridoio ed entro nella stanza di fronte alla mia, che un tempo è stata di mio fratello maggiore, Giorgio. Tutto nella sua stanza è rimasto al suo posto, in ordine. Tutto come nel giorno in cui se n’è andato; come se le sue cose aspettassero un suo ritorno.

    Mia madre sporadicamente entra nella stanza di Giorgio per fare pulizia. Mia madre spolvera, lava e… piange. Mi spezza il cuore vederla in quello stato, ma… come la capisco. Anch’io continuo a vedere mio fratello… sdraiato sul letto, seduto sulla sedia davanti alla sua scrivania, affacciato alla finestra mentre saluta qualcuno.

    Ah, se si potesse fermare il tempo, se fosse possibile riportare indietro le lancette dei giorni, degli anni, quanti errori si eviterebbero, e potremmo infine deviare gli eventi infausti del fato. Mera illusione. Dovremmo abbracciare, invece, il nostro carico di dolore che l’invisibile burattinaio tira, come i fili che il nostro destino ci riserva.

    Giorgio aveva tre anni più di me. Ci ha lasciato una sera di novembre di due anni fa. Stava arando un nostro terreno maledetto, un terreno in collina, scosceso; una grossa pietra maledetta, nascosta dall’erba, fece rovesciare quel trattore maledetto, in quella sera maledetta. Dove tutto era maledetto. Giorgio finì sotto al trattore che, col suo peso, gli schiacciò la cassa toracica, maciullando gli organi in essa contenuti. Lo trovò Massenzio, un vicino di podere, che, non riuscendo a trovare il coraggio per informarci dell’accaduto, andò a casa di mio zio Beppe, il quale, subito come giunse, traendomi in disparte mi disse che Giorgio aveva avuto un incidente.

    Dopo le pratiche legali che si protrassero fino a tarda notte, toccò a me, a zio Beppe e a mio cugino Marco togliere il corpo straziato da sotto al trattore. Le ossa di due costole spezzate fuoriuscivano dal ventre; l’erba e il terreno dove si trovava la schiena erano intrisi del suo sangue che dal rosso vivo ora era diventato marrone scuro e nei bordi sembrava essersi solidificato. Tutto il suo corpo era un solo unico livido.

    In quei momenti, con la morte nel cuore e le lacrime agli occhi, sperai che non avesse sofferto molto e che il trapasso fosse stato istantaneo. Così pensai per consolarmi un po’, aggrappandomi a quella convinzione, per lenire il dolore che avevo dentro. Mi augurai fortemente che fosse andata solo e soltanto così. Ricordo ancora le parole del maresciallo dei carabinieri, venuto per il sopralluogo: «Povero Giorgio, che brutta fine! Certo non la meritava. Era un gran lavoratore e un bravo ragazzo. Che Dio l’abbia in gloria».

    Da quel terribile giorno, partitosene Giorgio, venne ad abitare con noi una compagna che non ci avrebbe più abbandonato: la tristezza.

    Da allora tutte le ricorrenze festive, comprese quelle che in genere portano un po’ di felicità e di serenità, non facevano che acuire il nostro dolore. Specialmente quello dei miei genitori. Non che io non soffrissi, anzi, ma cercavo di dare una giustificazione ai fatti. In fondo sono cose che nella vita possono succedere, e questa volta il destino crudele aveva scelto la mia famiglia. Per me era difficile da accettare, per i miei genitori impossibile.

    La morte di un figlio è per i genitori una condanna atroce. Una condanna di dolore che ammazza, pur lasciando vivi. Non è nell’ordine delle cose ed è contro natura che un figlio muoia prima dei genitori. Per i miei, che ci hanno sempre voluto un bene dell’anima, questo era un fardello troppo pesante da portare.

    Siamo contadini da generazioni, lo siamo da sempre. Lo erano i miei nonni, lo sono i miei genitori, io e mio fratello stavamo continuando la tradizione. Ora che lui non c’è più, oltre alla devastazione psicologica che mi porto dentro, tutto il lavoro ricade su di me… e non è facile, mi sento stanco. Ultimamente mio padre Salvo non mi è stato di grande aiuto: non sta bene di salute!

    Nei vari periodi dell’anno ariamo i campi, seminiamo e, quando l’annata è buona, raccogliamo. Se l’annata è cattiva riusciamo a malapena a recuperare le spese. Fortunatamente queste annate negative capitano di rado e quasi sempre riusciamo col nostro lavoro a creare l’utile per andare avanti.

    Quand’ero piccolo avevo sentito spesso dire da mio nonno Nicola questa frase: «A fare i contadini non si diventa ricchi, ma non si muore di fame». A non morire di fame ci aiutano gli animali della fattoria che dista qualche chilometro dal paese. Un paio di mucche, un cavallo, quattro caprette, una ventina di galline che razzolano intorno al cortile impedendo alle erbacce di crescere.

    L’animale cavallo c’è sempre stato nella fattoria. Prima dell’avvento dei trattori era col cavallo che si facevano tutti i lavori. Mio nonno quando era giovane ne aveva due contemporaneamente: per poter fare i lavori nei campi li impiegava a giorni alterni, in modo che uno potesse riposare mentre l’altro lavorava.

    Quando c’era molto lavoro da fare mio nonno, contravvenendo al terzo comandamento, lavorava anche la domenica. Mio nonno non era un uomo di chiesa; diceva sempre che i preti predicano bene ma razzolano male. Da quando in paese era arrivato don Michele, un prete ancora giovane e piacente, diceva che anche i preti dovrebbero sposarsi per regolarizzare il loro comportamento, visto che diverse vedove e non solo andavano a farsi consolare da lui tra una confessione, un lavoro in canonica e una pulizia di cappella.

    Nonno Nicola non era mai stato per carattere un allegrone. Aveva sul viso un’ombra di collera e una lunga cicatrice che si procurò da giovane cadendo dal cavallo e che lo faceva sembrare ancora più turpe. La fatica, il sudore e il dolore di una vita sofferta avevano spento e mandato il suo sorriso lontano da lui, chissà dove, con un biglietto di sola andata.

    La sua poca felicità svanì del tutto in quella lontana sera del 12 di novembre del 1944.

    Nell’ora in cui la lepre esce dal covo e la beccaccia dal bosco, tornando a casa dopo un lungo giorno di lavoro non trovò nessuno, né sua moglie Adelina, né i suoi due figli, Salvo e Maria.

    All’ingresso del cortile del casolare il nonno ebbe uno strano presentimento non vedendo la luce della candela a carburo accesa in cucina. Di solito, quando lui tornava a quell’ora tarda dalla campagna, trovava il resto della famiglia ad aspettarlo. Quella sera non fu così. C’era qualcosa di strano nell’aria e anche Moretto, il suo cavallo, quella sera sembrava più nervoso del solito. Mentre attraversava il cortile, dopo esser sceso dalla carretta, una civetta volò via lenta dal ramo spoglio di un albero di noci su cui si era posata.

    Aprì la porta d’ingresso, entrò in cucina: silenzio. Uno strano silenzio avvolgeva la casa e la campagna.

    Esistono molti tipi di silenzio. Il silenzio a volte parla più di un oratore in piazza. Il silenzio di quella sera parlava di sventura, di disgrazia, di malasorte.

    Subito dopo aver varcato la soglia della stanza, avanzando nel buio, mio nonno inciampò in una sedia rovesciata che non avrebbe dovuto essere dove si trovava; non era al suo posto. Accese un fiammifero con il quale avvicinò la fiamma allo stoppino della candela di cera, che stava al centro del grande tavolo in rovere, dove erano soliti consumare il pasto quotidiano lui e i suoi congiunti.

    Il fuoco era spento, una finestra era stata sfondata, i vetri per terra; altre sedie erano rovesciate. Le ante dell’armadio della cucina erano aperte, una era stata divelta e giaceva in piano sul pavimento come un soldato caduto in battaglia. Più avanti nonno Nicola notò il fiaschetto in terracotta in mezzo all’acqua che prima esso conteneva, lo vide in mille pezzi. L’acqua del fiaschetto aveva bagnato ormai mezza stanza, arrivando a inumidire i lembi dello scialle nero in lana che era buttato lì per terra, come se nonna Adelina non avesse avuto il tempo di prenderlo. Il nonno sapeva bene che sua moglie nei mesi freddi non usciva mai fuori di casa senza avere lo scialle sulle spalle. La piattaia, quella che in un tempo recente era appesa alla parete e conteneva il servizio buono, anche quella per terra: i piatti non c’erano più, erano diventati cocci.

    Il nonno ebbe un violento sussulto quando la luce della candela illuminò Feroce, il gatto di casa. Era un siamese molto bello, sembrava un leone in miniatura. Il suo nome derivava dal fatto che con i ratti era veramente feroce: non se ne faceva scappare uno. Feroce giaceva immobile. Sembrava riposare, pancia a terra, aveva la testa reclinata appena tra le due zampe anteriori; gli occhi semichiusi quasi stesse dormendo. In mezzo agli occhi un foro, piccolo, dal quale era scesa una riga rossa verticale come a formare un punto esclamativo rovesciato. Feroce non avrebbe mai più catturato alcun ratto.

    L’uomo, in genere, si dispera quando non sa dare spiegazioni logiche a fatti accaduti. Mio nonno quella sera era un uomo disperato. Una disperazione difficile, se non impossibile, da dissipare. Una disperazione mai provata prima, almeno mai in tal misura. Era una disperazione che toglieva il respiro e gli faceva battere forte il cuore. Provò la sensazione come se il suo cuore volesse uscire dal suo petto.

    Nonno Nicola era sempre stato un uomo semplice e normale, che viveva della sua normalità. Quella sera, sebbene fosse un uomo coraggioso, lui conobbe la paura. La paura di quel che era successo, di quel che sarebbe potuto accadere in futuro e dell’ignoto.

    Corse al piano di sopra dove c’erano le camere da letto: anche lì c’era disordine dappertutto. Quel disordine cattivo creato da chi cerca qualcosa e non si cura dei

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