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La Nobilissima
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La Nobilissima

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LA GRANDE STORIA DI GALLA PLACIDIA.

Nobilissima. È un titolo che farebbe gola a chiunque. Assicura potere, autorità e il sacro diritto a regnare su un mondo di uomini. È il 392 d.C. e Galla Placidia, principessa di stirpe romana, entra ancora in fasce nei raffinati giochi di palazzo del tempo. L’Impero romano è già a pezzi, e la notte è vicina.

Figlia di Teodosio il Grande, imperatore d’Oriente e d’Occidente, nasce in una Costantinopoli fitta di complotti e intrighi, passioni nere e battaglie, mentre Roma inizia a cadere sotto la spinta dei goti, che da est marciano sull’Impero saccheggiando, devastando, reclamando un posto nel teatro della Storia.

Fiera come nessun’altra prima di lei, Galla Placidia visse da nomade e da regina, da schiava e da guerriera, battendosi contro i generali che volevano schiacciarla. Fu prigioniera del Nobile Lupo, il re visigoto Ataulfo, ma seppe rubarne il cuore e la mente portando i goti a un passo dal trono dei Cesari: fino quasi a essere la prima Madre d’Europa, se solo il fato non avesse congiurato contro di lei…

Tra battaglie e tradimenti, cospirazioni ed eserciti in marcia, tiranni decapitati e auguste imperatrici strangolate, la sua è una storia che sembra provenire dalle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin – una vera Daenerys Targaryen che, prima prigioniera e poi padrona del mondo, svetta nei terribili e sanguinari anni delle invasioni barbariche.

Luca Azzolini racconta la vita incredibile di un’eroina costretta ad affrontare il declino del più grande impero fondato dall’uomo con uno stile che appassiona e travolge, ricostruendo la realtà storica con assoluta minuzia e rigore. La nobilissima è un’opera dal respiro epico, che regala alla leggendaria figura di Galla Placidia, geniale e tenace donna del suo tempo, tutta la grandezza che merita.

Luca Azzolini è nato a Ostiglia (Mantova) il 21 maggio 1983 e si è laureato con lode in Storia dell’Arte a Verona. Ha iniziato a scrivere fin da giovanissimo e lavora come scrittore e editor. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche ed è autore di numerosi romanzi per ragazzi che sono stati tradotti in diversi Paesi. Per HarperCollins ha pubblicato i romanzi tratti dalla serie Sky Romulus.

LanguageItaliano
Release dateMay 19, 2022
ISBN9788830538887
La Nobilissima

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    La Nobilissima - Luca Azzolini

    Copertina: Luca Azzolini - La Nobilissima - La storia di GALLA PLACIDIA l'ultima grande donna di Roma - HarperCollins

    Dello stesso autore

    nelle edizioni HarperCollins

    ROMULUS

    Libro I: Il sangue della lupa

    Libro II: La regina delle battaglie

    Libro III: La città dei lupi

    LUCA

    AZZOLINI

    LA

    NOBILISSIMA

    La storia di GALLA PLACIDIA

    HarperCollins

    © 2022 Luca Azzolini

    Pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN: 978-88-3053-888-7

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

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    Roma, immensa,

    s’abbuia a poco a poco,

    sfiorata di rintocchi.

    Antonia Pozzi, Terrazza al Pincio

    (Roma, 27 luglio 1929)

    PRIMA PARTE

    FIGLIA DI IMPERATORE

    (392 d.C. – 408 d.C.)

    NOBILISSIMA VOCE

    Roma, Curia Iulia. Settembre 408 d.C.

    Roma è un’idea che percorro in punta di piedi. Un’idea perduta. Di quelle sognate troppo a lungo. Mentre l’attraverso, tengo gli occhi bassi e mi stringo nella stola di seta finissima che mi vela il capo. Invano cerco di tenere fuori le grida e le ingiurie che m’inseguono. È la prima volta che lascio il palazzo e la domus augustana, sul Palatino, è tutto ciò che conosco. Ma Roma mi ha chiamata e io ho risposto.

    Due ali di legionari mi scortano lungo il Foro Romano, fra donne e uomini cenciosi che invocano giustizia, fino all’edificio da dove sento arrivare le voci soffocate dei senatori. È un brusio affilato. «A morte! Uccidetela!» riesco a udire prima che gli altissimi battenti di bronzo si aprano. Mi fermo sotto il portico colonnato e non oso fare un altro passo.

    Mi volto a guardare la città. Il cielo è in fiamme e dense nubi nere sorvolano le mura aureliane, i palazzi, i monumenti. Quello che mi accoglie è un luogo preso d’assedio, ma è ancora Roma. È una città in rovina avvolta da miasmi velenosi, ma è sempre Roma. È l’antica capitale pronta a cadere, ma rimane Roma. Mi tremano le mani. Le stringo in grembo e prendo un respiro che mi resta inchiodato in gola. Ne sarò veramente capace? Saprò compiere il gesto che tutti si aspettano da me? Saprò farlo senza rischiare di impazzire? «Aelia Galla Placidia» mi esorta il praefectus urbi. «Venite pure avanti, nobilissima. Entrate, vi prego.»

    Non posso più sottrarmi al mio destino. Prendo coraggio e m’incammino a testa alta: un’aquila non teme le mosche.

    Se io voglio vivere, lei deve morire.

    I

    PRIGIONIERA DEL MONDO

    Costantinopoli, Sacro palazzo. Gennaio 392 d.C.

    L’alba aveva lo stesso colore del sangue che colava fra le gambe dell’imperatrice madre, a fiotti densi ma mai scuri. È un buon segno. Va tutto bene. Va ancora tutto bene… La nutrice e balia di corte, Elpidia, voleva convincersi che questa volta niente sarebbe andato per il verso sbagliato. Questo bambino nascerà, pensò al margine della notte, mentre con una pezza di lino tergeva il sudore dalla fronte della sua signora.

    «State andando bene. Fatevi forza» la incoraggiò. Poi scambiò una rapida occhiata con il medico di corte. Oribasio, un uomo grigio e silenzioso, era troppo provato per infonderle anche quel poco di coraggio; difatti, riuscì soltanto ad annuire. All’ennesimo singhiozzo soffocato di un’ancella, Elpidia sentì la rabbia montarle selvaggia nel petto.

    Artigliò la ragazza per un braccio e la trascinò via dal giaciglio, fino ai giardini esterni, fuori dal sacro cubicolo. Folgorandola con occhi scuri come pietre, la fece piegare contro il bordo di una fontana quadrangolare rivestita di mosaici. «Se tutto ciò che riesci a fare è piangere» esordì, feroce, «è meglio che tu te ne vada subito. Ma assicurati di farlo per sempre, Drusilla. Mi hai capita bene?» L’altra mugugnò qualcosa d’indecifrabile – forse una scusa o una preghiera – inchiodata a quelle iridi che sembravano colare della corposa pece.

    Elpidia incuteva timore a tutte le ancelle della sua signora. Vestiva solo di nero, larghe tuniche e veli che le fasciavano il corpo filiforme restituendole un’età vaga, spesso indefinita: giovanissima o vecchissima secondo le necessità. Nel colossale palazzo degli imperatori, c’era chi sussurrava che indossasse quelle vesti perché votata a qualche recente ordine monastico. Forse per via del suo volto sottile ed emaciato, o per la pelle pallida da anacoreta o da mistica; ma erano soltanto sciocchezze. La verità era un’altra, che però si guardava bene dal rivelare a orecchie indiscrete.

    «Elpidia… Elpidia!» L’imperatrice madre si contorceva sul giaciglio fradicio di sudore e sangue. Il medico, per alleviarle il dolore, l’aveva costretta a girarsi su un fianco in modo da applicarle un cataplasma di silfio, oppio e spina bianca. Galla era fuori di sé e delirava. «Voglio vedere mio figlio, dov’è? Voglio il mio bambino… Voglio Graziano, dove…»

    Elpidia lasciò andare Drusilla e tornò da lei: sembrava così piccola tra quelle lenzuola bianche. Le bambine non dovrebbero avere altri bambini, e di certo non dovrebbero partorire. Nondimeno l’imperatrice madre – diciotto anni da poco – aveva già perso un figlio qualche stagione prima: sedici estati erano bastate per avere una morte atroce alle spalle.

    L’avevano salvata per miracolo, ma quel fatto l’aveva segnata. Galla si era spenta. Si era fatta fragile e insicura; sciocca, persino, agli occhi della sua nutrice. Era rimasta una bambina intrappolata nel corpo di una donna. Elpidia l’aveva disprezzata per questo, perché le fatalità accadono e ci pongono davanti a una scelta: rinascere più forti o decidere di morire, sta solo a noi. L’imperatrice madre aveva scelto la seconda via ed Elpidia non glielo aveva mai perdonato.

    «Sono qui, mia signora.»

    «Elpidia, ti prego… ti scongiuro» ansimò.

    «Non lo dite nemmeno.»

    «Fa’ finire tutto.»

    «Dovete essere forte» la esortò, tenendole una mano.

    «Non so se ci riesco…»

    «Ora non è il momento di arrendersi.»

    «Mio figlio, Graziano…»

    «Tacete, per carità.»

    «Graziano!»

    È morto, come quel giorno l’attraversò quel pensiero doloroso e crudele. Sì, avrebbe tanto voluto gridarglielo in faccia. Il corpicino esanime fra le sue mani. Spento. Inerte. Elpidia invece sospirò. «Concentratevi su questo bambino, capito?»

    L’imperatrice mugolò qualcosa; i capelli castani incollati alla fronte e il collo scavato dal sudore. Elpidia cercò il volto di Oribasio. Il medico di corte annuì ancora una volta, poi ci fu una contrazione più dolorosa delle altre.

    La vide inarcare la schiena e tirare i tendini del collo fino ad aprirsi in un grido brutale. Il corpo si schiuse a quel male feroce. Le ancelle fuggirono terrorizzate alla vista del sangue che sembrava vino versato da un otre. Corsero per il giardino fino al camminamento che dava sul canale del Bosforo, da cui giungeva odore di mare e sartiame. Elpidia giurò che le avrebbe fatte frustare… Poi, sopra il grido dei cormorani e l’ultimo lamento dell’imperatrice, si levò un pianto.

    Oribasio teneva un piccolo fagotto insanguinato in una mano e nell’altra scalpello e forcipe, che aveva usato per separare dalla madre la creaturina che ora agitava i pugni in aria.

    Elpidia ci mise meno di un istante a capire. Quindi gliela strappò dalle braccia e la tenne sospesa nella luce incerta di quell’alba infuocata. I lucernari faticavano a rischiarare le stanze, ma i mosaici alle pareti e i marmi del pavimento vibravano. «Elpidia…» la pregò Galla, stremata dal parto. Tese una mano ma lei non parve udirla. «Elpidia, parla!»

    La stava fissando. Occhi spalancati sul mondo.

    Smisurati. Innocenti. Vivi.

    «Elpidia, come sta il bambino?» gemette l’imperatrice madre provando a girarsi sul letto, mentre Oribasio continuava ad accudirla. «È una bambina.» Elpidia disse soltanto questo, perché non riusciva a staccare lo sguardo da quegli occhi magnetici.

    La bambina la fissava con un’intensità tale, già adulta e consapevole, da levarle il fiato. Hai un’anima antica, pensò la nutrice, commossa. Tornata in questo mondo dopo un lungo viaggio…

    Sentì pizzicare una vecchia cicatrice mai del tutto rimarginata. Era un ricordo che credeva di aver seppellito tanti anni prima. Invece tese una mano – proprio quella con le tre falangi amputate, che incuteva tanto timore nelle ancelle della sua signora quando la levava in aria come un terribile monito o una concreta minaccia – e posò una carezza confusa sul viso arrossato della neonata. Le sorrise e non ebbe più bisogno d’altro. In quel preciso istante Elpidia seppe ogni cosa; le furono rivelate ogni verità e ogni falsità.

    «Elpidia, fammi vedere la bambina…»

    Non lo avrebbe fatto, non subito. Avrebbe dedicato l’intera esistenza a quella piccolina e non avrebbe permesso a sua madre di rovinarla. In quegli occhi, Elpidia era certa di aver riconosciuto lo spirito vivo del loro tempo, un’anima che si sarebbe fatta grande; e la piccina meritava di più, di meglio, rispetto a ciò che il destino aveva in serbo per lei.

    Meritava di essere cresciuta al riparo da quel mondo ostile che già le si stava chiudendo sopra. Presto Costantinopoli l’avrebbe reclamata, proprio come accadeva di continuo a tutte le figlie degli imperatori. Elpidia lo aveva già visto capitare con Galla, che era stata ceduta come un oggetto costoso al primo uomo pronto a esigerla come sua proprietà. Questo, però, non sarebbe più dovuto accadere.

    Non a lei, non a quella bambina su cui stava riversando già tanto amore. Elpidia strinse a sé la neonata, indifferente ai richiami della sua signora. Lei e la piccola si osservarono in mezzo a quell’alba purpurea, fra l’odore salmastro del vento e con sottofondo il frastuono delle onde contro le rive del Bosforo.

    Le fece una promessa.

    «Tu mai sarai prigioniera di questo mondo.»

    Suonò quasi come una profezia.

    II

    LA NOBILISSIMA

    Costantinopoli, Sacro palazzo. Gennaio 392 d.C.

    «Aelia. Galla. Placidia.» L’imperatore Teodosio prese in braccio sua figlia e, compiaciuto, la mostrò all’intera corte riunita. Lavata e ben stretta in fasce di lino dorato, aveva riconosciuto la bambina con un malcelato orgoglio. Non aveva importanza se non era nato il tanto desiderato figlio maschio: la piccola sfiorava la perfezione e incarnava il suo sogno.

    La corte, affacciata sul Bosforo già buio al tramonto, la accolse con un applauso nella vasta sala delle udienze del sacro palazzo. Fra i grandi mosaici dalle tessere dorate e i tendaggi fragranti d’incenso, esplosero le danze festose al suono dei cembali. Le matrone patrizie, le ancelle e le serve della Magnaura coronarono i propri capi con graziose ghirlande di roselline. Il tintinnio di centinaia di coppe d’argento risuonò insieme alle risate, immerso nell’odore dei cibi speziati e dei vini.

    Teodosio annuì soddisfatto. La piccola era un altro dei suoi personali trionfi e il suo più grande orgoglio; non importava il sesso. Cercò di convincersene, o almeno di farlo credere alla corte. Di maschi ne aveva già avuti due dal primo matrimonio, ma in entrambi i casi si erano rivelati delle autentiche delusioni; la bambina, però, non lo sarebbe stata di certo.

    «Tu mi renderai sempre fiero. Non è forse così, Placidia?» Lei ciangottò qualcosa, ignara del destino che stava prendendo forma nei sogni del padre. Teodosio la guardò studiandola con attenzione. Non si assomigliavano, no. Lui era sempre stato alto e biondo fin da bambino, con un naso aquilino e le ossa grandi; la pelle chiara nonostante fosse nato in Hispania, a Italica, una terra di pianori arsi dal sole.

    Placidia era invece scura di pelle proprio come i nonni, ma aveva gli occhi ambrati della madre e nelle vene le scorreva il sangue dei più fieri imperatori romani. Figlia d’imperatori e nipote d’imperatori, rifletté Teodosio, cercando nel visino arrossato traccia di quei nobili natali. In te convergono già tutte le più antiche dinastie della Roma patrizia. Quelle dei teodosiani e dei valentiniani. Non potrai mai deludermi, figlia mia.

    Per rendere onore alla neonata, era giunta a palazzo anche una folta delegazione dalla corte d’Occidente, inviata dall’imperatore Valentiniano II – l’amato fratello di Galla e ora zio di Placidia – con dei pregiati doni provenienti da ogni angolo dell’Impero: vesti di porpora, gioielli con perle, fibule, una grande culla d’argento massiccio e poi casse colme di solidi d’oro.

    Teodosio tenne la piccola in braccio nel tremulo chiarore delle lucerne che incendiava le tessere dei mosaici e le statue di marmo. Accettò di buon grado ogni omaggio, incurante degli sguardi imbronciati dei suoi due figli. Non erano serviti a niente funamboli e danzatori, aedi e musici, nemmeno i cibi più pregiati d’Africa riuscivano a rallegrarli. Arcadio, il maggiore, e Onorio, il più piccolo, si erano sottratti anche al più banale dei doveri previsti dal cerimoniale: rendere omaggio alla madre adottiva, riconoscendo così la neonata come una vera sorella. Teodosio cercò sua moglie, ma lei gli sorrise appena.

    Galla sedeva sul trono dallo schienale d’avorio alle sue spalle, troppo provata dal parto per curarsene sul serio. Oribasio li aveva messi in guardia: «Un’altra gravidanza è da sconsigliarsi, mio signore». L’imperatore aveva assentito, più per rispetto del ruolo che il vecchio medico ricopriva a corte che per altro. Quando fosse stata l’occasione, lui e Galla avrebbero trovato un modo. Per ora, in ogni caso, l’imperatrice non aveva nemmeno le forze per badare agli ospiti, ai festeggiamenti, o alle mancanze dei suoi due figli adottivi.

    Si erano rivelati solo per ciò che erano, deboli e inetti. Ma posso veramente fargliene una colpa? Teodosio scosse la testa e sospirò, schiacciato dal rimorso. Quello era il risultato di una corte piena d’intriganti e di molli faccendieri, di laide matrone arroganti e d’infimi eunuchi pronti a tutto pur di far valere il proprio potere sugli altri. Certo, probabilmente era stata anche colpa sua se Arcadio e Onorio erano diventati una tale delusione. Li aveva costretti ad accettare una madre adottiva troppo presto. Una ragazzina come loro, in fin dei conti. Non aveva dimenticato di aver preso Galla in sposa a tredici anni, ma si era sempre detto che era necessario. Era ciò che gli chiedeva il Senato. Ciò che gli domandava la suocera, Giustina. Ciò che era corretto fare per il bene dell’Impero. Tutto questo lo aveva condotto a guerre infinite; gli scontri si erano susseguiti a ogni usurpatore che aveva osato alzare la testa e dichiararsi padrone di un territorio che invece apparteneva solo all’Impero e al suo predominio. In fin dei conti, li aveva sempre lasciati soli, i suoi ragazzi, in balia del loro destino. Posso seriamente incolparli di tutto questo? Un padre non dovrebbe essere qualcosa di più che un’effige su una moneta?

    Dopo la morte della madre – la devota Flaccilla – il palazzo sacro li aveva iniziati ai suoi concupiscenti segreti. Arcadio, a quindici anni, era l’ombra dell’uomo che avrebbe dovuto essere: un giovane molle e sregolato più interessato al buon cibo, ai piaceri della carne e ai divertimenti che alla politica e all’esercizio del potere. Era un incapace a detta di molti, a partire proprio dai suoi consiglieri. Forse, però, Onorio lo preoccupava persino di più.

    Teodosio lo cercò in mezzo alla folla, fra i decurioni e i duumviri, i senatori e i nobiles accorsi ai festeggiamenti. Lo trovò dove stava di solito: attaccato alle grigie sottane del capo degli eunuchi di corte, l’intrigante Eutropio, l’uomo che a palazzo sembrava essere il suo più caro e fedele confidente. Che cosa ci trovasse in lui, solo Onorio poteva saperlo. A Teodosio dava i brividi. A otto anni suo figlio appariva disinteressato alla vita e a ciò che gli accadeva intorno. Non era propriamente un ragazzino apatico, ma era chiuso e taciturno.

    Ed è così guardingo, ragionò suo padre, osservando da lontano quegli occhi neri tanto simili ai suoi. Sembrava vivere in un mondo tutto suo, fatto di lotte fra galli nell’enorme voliera che la madre Flaccilla aveva fatto erigere nei giardini del sacro cubicolo. Di lui non sapeva altro.

    Onorio gli era estraneo, ma questo non doveva accadere anche con la piccolina. No, lei avrebbe avuto ben altro destino. L’imperatore d’Oriente fece un altro sorriso a Placidia, che si agitò dentro i lini pregiati in cui Elpidia l’aveva avvolta. Prima di restituirla alla sua nutrice, però, Teodosio prese un’ultima decisione. Sapeva bene cosa avrebbe scatenato, ma era intenzionato comunque a farlo. Doveva prontamente mettere in chiaro le cose con tutti i presenti.

    Quindi fece un cenno ai musici e lasciò che i cembali zittissero. Gli ospiti si voltarono a osservarlo nel tintinnio di nuovi brindisi a quella nascita, fra le risate, l’aroma dei cibi speziati e il fiato di Costantinopoli oltre le mura.

    Teodosio – il grande uomo della provvidenza che aveva salvato l’Impero romano dalla rovina; colui che aveva garantito l’esistenza delle due pars, l’Occidente e l’Oriente; il generale che aveva salvato le legioni imperiali, travolte dalla violenza dei visigoti, dalla disfatta di Adrianopoli – forte di tutto ciò, sollevò la figlia per elevarla al di sopra dell’intera corte.

    «Nobilissima» scandì nello sbigottimento generale.

    Le aveva appena donato il più alto dei titoli.

    Quello che le avrebbe garantito il potere.

    E forse anche il trono.

    III

    SANGUE DEL MIO SANGUE

    Costantinopoli, Sacro palazzo. Gennaio 392 d.C.

    Poco dopo quell’annuncio, proprio nell’istante di silenzio sconcertato, Elpidia prese la piccola fra le braccia. Aveva visto che negli occhi dei presenti si accendevano fugaci l’interesse, il pettegolezzo e persino il desiderio.

    Nobilissima… farebbe gola a chiunque un titolo come questo, rifletté. Era un appellativo grandioso per una bambina di appena pochi giorni di vita. Le erano appena stati garantiti gli stessi diritti dei figli maschi di Teodosio; e i suoi nipoti, in un futuro ancora troppo lontano e nebuloso da riuscire a intravedere, celato dalle livide ali del fato, avrebbero potuto ereditare l’Impero. Era una parola sola; ma un gesto enorme.

    Placidia si agitò disturbata dall’applauso e dai tanti mormorii che seguirono; dal cozzare delle coppe di vino e dalle grasse risate compiaciute. Elpidia si affrettò a cullarla infilandole un dito in bocca, appena intinto in un vasetto di miele. «Ora sta buona, piccolina. Va tutto bene, sai? Non è niente.»

    Mentiva. Quell’onorificenza cambiava le cose, perché elevava il destino della bambina verso vette inimmaginabili. Elpidia si assicurò persino che la madre non la volesse per sé, in un momento tanto importante. Galla però era solo stanca, e indifferente a ogni cosa. Era come se tutte le energie vitali della donna si fossero riversate di colpo dentro la figlia, e di lei non fosse rimasto altro che un vuoto involucro di marmo appena abbozzato.

    Meglio così. È un ostacolo in meno sulla strada accidentata della piccina. Placidia… Elpidia avrebbe tanto voluto ridere. Non esisteva nome più sciocco da imporle. L’aveva vista bene, suo padre? L’aveva guardata a lungo negli occhi, come aveva fatto lei? Non c’era nulla di placido in quelle iridi attraversate dal fuoco vivo del sole; non c’era niente di calmo o sereno nella forza dirompente che le ardeva sotto la pelle.

    «Tu sarai molto di più» sussurrò senza farsi udire. «E sarai tutto ciò che vorrai perché saprò insegnartelo io.» Se solo il mondo non glielo avesse impedito. Di certo, fuori da quella sala i mormorii avrebbero ben presto raggiunto l’intero popolo della Nuova Roma, nella Costantinopoli in cui vivevano lanaioli, caligari, battellieri e argentari, che di quell’incredibile giorno avrebbero commentato solo quel gesto.

    Elpidia riusciva già a immaginarseli ai crocicchi delle strade, fra le cento vie di pietra e marmo, fra le nasse e le gerle ricolme di merci, giù al porto, a darsi di gomito. In fin dei conti, non avevano fatto da altro da quando era stata annunciata la gravidanza. Le voci che la piccola non fosse nemmeno figlia di Teodosio – lontano a combattere un usurpatore – ma bensì di Arcadio erano state zittite a fatica.

    C’era voluto parecchio tempo. Ci aveva pensato lei, comprando il silenzio e le parole di parecchi. Ne andava dell’onore della sua signora. Galla era una sciocca, una giovane semplice, sì – e il primogenito di Teodosio era quasi suo coetaneo – ma non era stupida fino a quel punto.

    A ogni modo, un’altra voce ora avrebbe soppiantato quel futile pettegolezzo. Lungo la Mese, la strada dei trionfi, non si sarebbe parlato d’altro per giorni o per settimane. Sulle sponde del Corno d’Oro avrebbero risuonato solo quelle chiacchiere e quei bisbigli. Dall’ippodromo al Forum Tauri, dalla Porta Aurea al Forum Constantini, fin sotto la statua dell’imperatore Costantino che aveva edificato la nuova capitale. Elpidia poteva già avvertire le dita nere di uomini e donne pronte a chiudersi sopra la sua piccolina.

    Stava quasi per riporre la bambina dentro la culla, quando una mano in effetti artigliò il braccio di Elpidia. «Speriamo soltanto non prenda da sua nonna Giustina.» La donna che aveva parlato sorrise con cauta condiscendenza, guardando prima l’imperatore e poi la nutrice. «Sarebbe un vero peccato, no? Piccola e curva. Senza un minimo di fascino. Terribile! Tuttavia, a vederla così, non si direbbe proprio.»

    «Serena, nipote mia.» Teodosio la strinse in un tenero abbraccio. «Giustina è stata soprattutto un’imperatrice di carattere. Quanto all’avvenenza» disse con un’occhiata alla moglie Galla, «l’ha offerta tutta alla più giovane delle sue figlie.»

    «Caro zio, quant’è vero.» Serena, figlia adottiva dell’imperatore, si staccò da quell’abbraccio con un morbido sorriso di circostanza. Era una donna robusta e attraente, identica a Teodosio. Anche lei era bionda e possente, con un naso leggermente aquilino che sul suo viso non stonava per niente, rendendola solo più autorevole.

    Teodosio le mostrò la neonata, e a Elpidia non sfuggì lo sguardo sprezzante che Serena le riservò. Lesse fastidio, in quegli occhi azzurri, mentre l’imperatore trascinava la nipote verso la piccola Placidia. «Si deve a mia suocera Giustina la salvezza dell’Impero romano.»

    «E il tuo secondo matrimonio» ricordò la nipote.

    «È così.»

    «Che donna stupefacente» ammise Serena, mentre studiava con interesse la neonata. «Congratulazioni» disse poi rivolta alla madre, ma senza staccare gli occhi da Placidia. «Così adesso ho una nobilissima cugina, me ne rallegro.»

    Teodosio rise. «Sei molto più di una cugina, Serena.»

    Lei sospirò affranta. «Zio, devo forse crederti?»

    «Ti ho mai dato motivi per non farlo?»

    «No. È vero.»

    «Quindi?»

    «Temo solo di essere un po’ gelosa, sai?»

    «Anche se a volte mi dimentico di dirtelo, per me sei come una figlia.» Teodosio aveva per la nipote una vera e propria venerazione. Le ricordava il fratello morto anni prima e, da allora, dai tempi di Italica, l’aveva cresciuta come fosse figlia sua. «Sarai sempre parte di me, Serena. Sangue del mio sangue, non te lo scordare. Questo non cambierà mai.»

    «Lo so, zio, e te ne sono grata. Se ho una famiglia, lo devo unicamente a te.» Soltanto allora Elpidia scorse le due bambine aggrappate alla tunica di seta dorata di Serena. Piccole miniature bionde della madre che sparivano fra le pieghe della veste preziosa. Un terzo, un maschietto, stava in braccio all’uomo in foggia militare in piedi alle loro spalle; il mantello fermato da una fibula d’oro, la corazza a scaglie.

    Stilicone, il fiero generale che Teodosio aveva fatto sposare alla figlia adottiva

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