Le Strade
By Félix Grande
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Book preview
Le Strade - Félix Grande
Collana
Itaca Itaca
diretta da Mauro F. Minervino
Félix Grande
Le strade
Traduzione di
marino magliani
Postfazione di
Alberto Gómez Vaquero
LPE.jpgTitolo dell’edizione originale:
Las calles
L’Editore ringrazia per la collaborazione nella cura del testo Alessandro Gianetti e Riccardo Ferrazzi per la revisione.
Proprietà letteraria riservata
© by Luigi Pellegrini Editore srl – Cosenza – Italy
su concessione degli eredi di Félix Grande
Stampato in Italia nell’anno 2022 per conto di Luigi Pellegrini Editore srl
Via Luigi Pellegrini editore, 41 – 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 – Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Potevi osservarli per mezz’ora: non c’era un solo volto che non fosse contorto, piangente,
rosso di collera, pallido di paura.
Ray Bradbury
Per la strada, la tristezza di un pomeriggio d’inverno con la luce funerea di un cielo rannuvolato, e l’andatura timorosa della gente, che procedeva riparando la testa dalla pioggia e i piedi dal fango, una moltitudine che produce un suono caratteristico il cui unico termine di paragone è l’avvio di una sommossa.
Silverio Lanza
Questo libro è stato tradotto con l’aiuto
del Ministero della Cultura e dello Sport della Spagna
ministero_spagna.jpgLe strade
1
A quei tempi, quaranta pesetas davano diritto a cinque pacchetti di sigarette Bisonte
o a due biglietti per un cinema di seconda visione. Era una cifra insufficiente per un pasto in un ristorante di secondo livello. Una bottiglietta di birra da un terzo di litro, al banco, costava cinque pesetas. Per dieci o quindici pesetas si poteva dormire in una stanza con due o tre letti, ma era un prezzo che si poteva trovare solo andando a cercare una pensione in periferia, o in una delle strade più buie del centro, in una di quelle vecchie case che resistono ancora, con difficoltà, dal secolo scorso. Un impiegato con mansioni di aiuto in amministrazione non poteva pagarsi una camera con un po’ di luce; per lui, dormire era un’attività la cui meccanica somigliava a quella di una visita al bordello: pagare, soddisfare rapidamente un bisogno, e sparire; non ne derivava la minima tenerezza, neppure l’ombra di quell’affetto per una camera che si manifesta appendendo delle locandine o, semplicemente, vivendoci: si trattava di dormire, nient’altro, e poi andarsene. Si può dire che in quel periodo, nel quale dovetti vendere la mia vita per otto ore al giorno in cambio di quaranta pesetas, la sfortuna e la delusione furono un’assidua compagnia.
Oggi ho l’abitudine di dire ai miei amici che amo questa città. Ancora non so se è la città in cui voglio morire, ma è fuor di dubbio che l’amo. A volte, quando esco dall’ufficio, passo qualche ora camminando per le strade del centro, nei boulevards più interni, o nei viali freschi e alberati della Città Universitaria e, preso da un sentimento di gratitudine, un miscuglio di ozio, libertà e quel benessere fisico propiziato dal tono accattivante del pomeriggio, sento che mi ci vorrebbe molto tempo per fare a meno di queste strade, di questa città che conosco così bene e che ormai per me è come una complice delle mie solitarie passeggiate. Spesso vado a passare un’oretta in qualche stazione ferroviaria. Per le tre pesetas che costa il biglietto d’accesso alla banchina si può assistere a un bello spettacolo, un’autentica estemporanea rappresentazione messa in scena dalla cittadinanza. Vedo treni che partono e arrivano, con i locomotori che emettono quel suono famoso che a volte ci sembra il suono della libertà. Gente di ogni età che riceve o saluta le persone amate. Qua e là, dei viaggiatori solitari. Facce, facce di ogni genere, storie di ogni genere, ogni genere di paure, ogni genere di effetti dell’avventura della vita, su quelle facce molteplici, eterogenee, unite per un solo istante dal collante di una stazione. Gente che ha fretta, gente che ha sonno. Teste dietro ai vetri di uno scompartimento, come emozioni incorniciate. Famiglie che discutono animatamente passando veloci davanti ai chioschi dei giornali. Corse, grida, spintoni, e qualche curioso che viene di lontano, come me, e rallenta involontariamente la corsa dei facchini, o la fretta di qualche familiare che troppo a lungo si è emozionato. In nessun altro luogo come qui, alla stazione, puoi vedere il senso ebbro, disperato e felice degli abbracci fra esseri umani. Venditori che offrono cuscini, coppie che trascinano una valigia, ragazze in pantaloni attillati e camicie frivole con i volti animati dalla patina del viaggio…
Esco dalla stazione pensando che la città è come una madre enorme che assiste tranquilla e indifferente alla fretta della gente, all’attività congestionata, alla formazione del destino. E allora sento per questa città un insieme di gratitudine, desiderio e insicurezza che mi spinge ancora a percorrere le sue strade, come se le baciassi un braccio (per dirle che mi è mancata). Poche sigarette sono così rilassanti come quelle che in questi momenti ho la fortuna di spargere nei miei bronchi.
Ma ai miei amici voglio dire qualcos’altro. Non soltanto amo questa città. Ricordo anche l’astio che mi ha suscitato. Astio e spavento. Devo dire che adesso amo questa città perché sono capace di amarla. Ma quando non ne ero in grado l’ho odiata, totalmente e laboriosamente. Perché, così come è vero che al di sotto di una certa quantità di calorie anche l’anima si sente messa in questione, è altrettanto vero che un essere disperato non può amare la città in