La vita dopo la morte
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Info su questo ebook
Cristina è nata a Torrefiorita, in provincia di Messina, in una civiltà arcaica, contadina e maschilista. Il suo percorso, in quanto femmina, è già tracciato: anche se ama studiare, ha un’intelligenza invidiabile e sogna di diventare una pediatra, le tocca imparare a svolgere impeccabilmente i lavori domestici e, neanche maggiorenne, sposare un uomo molto più grande di età che la sua famiglia ha scelto per lei. Ma Cristina, colta, coraggiosa e rivoluzionaria, organizza nel dettaglio il suo sorprendente piano di fuga.
L’autrice dà vita a una storia coinvolgente, a una protagonista che si lascia amare per l’arguzia, la sensibilità e un pizzico di sana follia che la contraddistinguono.
Del Ninno Margherita è originaria di Benevento ma residente a Spoleto, dove ha lavorato nella pubblica amministrazione fino al 2020, quando è stata posta in pensione.
Laureata in Ingegneria Civile e Ambientale scrive il suo primo libro “Amore negato”, un romanzo che narra la storia di una donna ormai adulta che per evadere da una fanciullezza triste e senza amore decide di sposarsi molto giovane con un uomo che non ama e che si rivela per lei il più grande errore della sua vita.
Partecipa al Salone Internazionale del Libro di Torino a maggio 2019.
Partecipa al concorso letterario per scrittori umbri “Fulgineamente” entrando poi a far parte della stessa associazione quale giurata tecnica per i concorsi 2020-2021; partecipa anche al concorso letterario “Premio Dario Galli” per romanzi inediti.
Scrive un articolo: “I monti sibillini” sul magazine Valnerina: tra storia e natura.
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Anteprima del libro
La vita dopo la morte - Margherita Del Ninno
© 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN
I edizione dicembre 2021
La vita dopo la morte
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Agli amori della mia vita:
Giovanni, Nicole, Raffaele, Melissa e Francesco
I CAPITOLO
LA VITA DOPO LA MORTE
L’AMORE, COME LA MORTE, CAMBIA TUTTO
(KHALIL GIBRAN)
THE END
Abitualmente indica la fine di un film o di un libro.
È il mio epitaffio.
Cristina Marino
* 24/7/1953 X 16/7/1979
È vissuta solo per amore
Ma, se per ogni fine c’è un nuovo inizio, allora quella data fu l’inizio della mia nuova vita.
Strano. C’era... non so cosa che mi frullava in testa. Ah, sì. Il mio amore per la storia: l’impiccagione di Cesare Battisti.
In un libro avevo letto dell’episodio narrato dal Dottor Pompeo Zanin e poi pubblicato sull’Unità di Firenze il 17/7/1919, sessant’anni prima del mio gesto.
Cesare Battisti, alpino con il grado di tenente appartenente al Regio Esercito Italiano era un patriota, un giornalista, geografo, politico socialista e irredentista italiano insieme ad altre importanti figure quali Guglielmo Oberdan e Nazario Sauro.
Catturato dall’esercito austriaco fu processato e impiccato per tradimento in quanto membro della Camera dei Deputati d’Austria. Le cronache riportano che il boia Josef Lang, fatto arrivare da Vienna prima ancora che iniziasse il processo, avesse portato con sé due corde, una più sottile, che si spezzò subito e quella buona
con l’intento, quindi, già deciso a priori, di ripetere il supplizio.
Avevo sempre avuto una predisposizione nel ricordare la storia, le date. Nulla, dunque, in comune con me? No. Non proprio.
Cesare Battisti era stato impiccato come traditore ma in realtà era stato un eroe. Lui, nato a Trento ma italiano dentro, dopo che la città era stata annessa all’Austria, tradito dai suoi stessi commilitoni, umiliato anche nel non permettergli di morire mediante fucilazione per non oltraggiare la divisa che indossava.
Io, invece, ero stata una vigliacca. Ero stanca di lottare contro i mulini a vento, stanca dei non ricordi.
Il non ricordo di un San Valentino, se non quello del regalo inaspettato del mio primo amore, Fabio, quando avevo solo 14 anni.
Il non ricordo di un momento di gioia nel dare alla luce un figlio.
Il non ricordo di un attimo di tenerezza qualsiasi, gratuito e dolce. Mentre invece, nella mia mente, è stampato il ricordo della tenerezza del mio primo amore, una sera che lo avevo visto a Piazza Roma, con la ex del tempo, Carolina. Ma, del resto, anche quella fu finzione, visto poi come la lasciò e rovinò per sempre quella ragazza, dopo aver raggiunto il suo scopo: essere il primo uomo ad averla, vergine logicamente.
Credo che anche questa sia genetica: la facilità nel procurare sofferenza a una persona che ti dà affetto, stima, fiducia assoluta in modo del tutto naturale.
Tutto, dunque, in una sola parola: RICORDO.
Ricordo di un amore materno inesistente.
Ricordo delle violenze e degli abusi subìti da uomini.
Ricordo delle cattiverie gratuite di familiari.
Ricordo del tentativo di un matrimonio imposto per un uomo non amato, per di più brutto e vecchio.
Avevo detto basta. Il cuore sembrava non reggere più al dolore, aprire gli occhi ogni mattina era l’alba di un altro giorno di vita senza senso, senza futuro, nell’attesa soltanto delle prime luci della sera, quando l’animo si rasserenava pensando che di lì a poco avrebbe richiuso gli occhi e dormito senza pensare più a nulla.
Era quello infatti che volevo quel maggio del 1973, quando avevo deciso di non nutrirmi più continuando a prendere gocce per poter dormire sempre e non sentire stimoli di fame, di sete o comunque pensieri, ricordi, dolore.
Non avevo più nulla ormai, nulla e nessuno per cui lottare e avevo deciso, di nuovo, di dire basta.
La prima volta scappando, ancora da vigliacca, la seconda per completare l’opera e magari vendicandomi nel provocare, a qualcuno almeno dei miei carnefici, il rimorso a vita per avermi ammazzata, contribuendo ognuno con la propria parte.
Niente gocce, stavolta, occorreva qualcosa di sicuro. Impiccagione.
In tempi remoti, come quello di Cesare Battisti, si chiamava anche forca e la sua origine storica risale al medioevo. La morte sopravviene presto con la rottura delle ossa del collo e la conseguente asfissia.
Mi ero documentata: avevo optato per una variante largamente diffusa nei casi di suicidio, detta alla Condé
, nella quale la posizione delle gambe, distese in avanti, permette il raggiungimento del risultato anche da una postazione bassa. Avevo solo uno sgabello di plastica in casa, con due scalini, comprato al negozio dei cinesi. Non avevo altro da utilizzare, dopo una rovinosa caduta da una scala che mi aveva procurato un trauma cranico aperto e una leggera commozione cerebrale. 48 ore per sciogliere la prognosi e 7 punti di sutura sulla parte occipitale, che avevo battuto sul marmo della penisola
in granito della cucina.
Certo che quella caduta non mi lasciò solo una cicatrice dato che, dopo qualche tempo, avevo cominciato ad avere delle crisi di assenza
. In pratica, per qualche minuto, mi accorgevo di non poter articolare il pensiero e la parola e, se mi capitava mentre guidavo, mi rendevo conto di sentirmi come un automa, senza più sapere dove stessi andando.
Dopo due anni mi hanno diagnosticato una delle 150 forme diverse di epilessia: epilessia parziale complessa. Nessuno se ne accorse mai, se non me stessa, all’inizio con una sorta di terrore e soprattutto con l’ansia che gli altri se ne accorgessero. Poi avevo imparato a gestire le mie crisi ricorrendo a espedienti diversi.
Ma torniamo a quella calda sera d’estate.
Avevo deciso di farlo di notte, quando tutti dormivano, così che al buio nessuno si sarebbe accorto di nulla e magari se, presa da un ripensamento da paura, avessi voluto chiedere aiuto, nessuno mi avrebbe comunque sentita. Avevo portato la mia dolcissima Neve, la mia maremmana, nella pensione dove l’avevo fatta addestrare poiché, presa in un canile, aveva grandi turbe comportamentali, in seguito a maltrattamenti subiti da colui che non chiamerei né uomo, né animale, per rispetto proprio agli animali. La compagna del mio addestratore, che adorava Neve e l’aveva coccolata e amata come me stessa ogni volta che l’avevo lasciata in pensione da loro, mi aveva fatto introdurre nelle mie disposizioni testamentarie che, in caso mi fosse capitato qualcosa, Neve sarebbe stata donata a lei. Io così introdussi nelle mie volontà testamentarie una busta a parte con il libretto sanitario di Neve e tutti i dati della futura padroncina, Cristiana.
Per un attimo pensai a lei, che di nuovo sarebbe stata abbandonata, ma sapevo che Mario e Cristiana l’amavano davvero e la lasciavo in buone mani. Non avrei potuto compiere il mio gesto con lei presente, o forse lei stessa non lo avrebbe permesso. Troppo legata a me e troppo intelligente. Avevo ricevuto più amore e riconoscenza da lei che dal genere umano, in tutta la mia vita.
Un pomeriggio d’estate, ero nella casa di Foligno che non mi era mai piaciuta poiché troppo rumorosa sia per me che per Neve, siccome davanti al cancello d’ingresso c’era un cavalcavia con un traffico intenso a tutte le ore, mentre sul dietro della casa, a soli tre metri dal muro di contenimento, si collocava la ferrovia con i rispettivi treni che quando passavano facevano tintinnare le tazze nella credenza, di notte poi l’Eurostar mi svegliava come il boato di un terremoto.
Stavo sistemando i panni sullo stendino sotto il pergolato, davanti al portoncino d’ingresso, quando all’improvviso Neve nel suo recinto cominciò ad abbaiare come impazzita, tanto che pensai a una scossa di terremoto prossima, dato che mi avevano parlato dell’istinto dei cani particolarmente sviluppato in questi casi. Spaventata, chiamai Mario che mi consigliò di aprirle il recinto e farla uscire.
Così feci. Neve corse verso di me con la sua mole pesante e il candore del suo pelo bianco e con il muso che mi arrivava dietro la schiena prese a spingermi dentro casa. Impiegò una forza tale che caddi lunga distesa in cucina davanti al frigorifero.
Fu un attimo, Neve si era parata dal di dentro del portone d’ingresso in modo che non sarei potuta uscire e io non capivo. Se si fosse trattato di un terremoto imminente sarei dovuta scappare fuori, non il contrario.
All’improvviso avvertì un botto spaventoso.
La pensilina sopra il portoncino era venuta giù schiantandosi sullo stendino e un grosso pezzo di vetro doppio almeno due centimetri, a forma di triangolo e con la punta all’ingiù, aveva reciso a metà lo stendino in resina.
Neve, tranquillizzatasi all’improvviso, se ne uscì tranquillamente in giardino mentre io, con gli occhi sbarrati, incredula, guardavo quel pezzo di vetro che mi avrebbe spaccato la testa a metà come accaduto allo stendino.
La mia dolcissima Neve mi aveva salvato la vita.
Avevo lasciato la casa tutta in ordine: chiuso il gas, l’acqua, disposto sul tavolo in cucina la busta con le indicazioni per il mio interro, di cui avevo parlato alla mia amica Caterina, da me nominata mia esecutrice testamentaria. Avevo fatto la doccia e indossato il vestito preferito, quello di Luisa Spagnoli, comprato in occasione del matrimonio di un’amica.
Vado come in trance in giardino con la cintura dell’accappatoio e lo sgabello. Al buio non riesco a vedere bene il ramo del ciliegio, quello più alto tra gli alberi a disposizione, mi lego la corda al collo con il nodo stretto sulla giugulare, come avevo letto, poi do un calcio allo sgabello, spingendomi con