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Appunti di un pianista
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Appunti di un pianista

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Una masterclass in un libro: Boris Berman, indiscusso protagonista della scena pianistica internazionale, distilla la sua esperienza concertistica, discografica e didattica offrendola a studenti, professionisti e amanti del pianoforte con un linguaggio semplice e chiaro.

Dai fondamenti della tecnica, come il suono, il tocco e l’uso del pedale, alla scelta delle edizioni, delle diteggiature, dei metodi più efficaci per lo studio e la memorizzazione, fino alla psicologia dell’interpretazione e dell’insegnamento: un compendio di riflessioni, discussioni ed esperienze che appassiona il lettore e accompagna il pianista nelle tappe più importanti della sua formazione e carriera.

"Un libro istruttivo, visionario e stimolante, che dimostra quanto profondamente Boris Berman conosca il suo strumento". (Radu Lupu)
LanguageItaliano
Release dateMar 25, 2022
ISBN9788863953930
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    Appunti di un pianista - Boris Berman

    PARTE I.

    IN AULA

    CAPITOLO 1. SUONO E TOCCO

    Molti aspetti sono importanti per sviluppare le abilità di un pianista: la tecnica, il ritmo, la memorizzazione e il repertorio sono tra questi, e verranno tutti discussi in questo libro. Preferisco iniziare, tuttavia, con un tema spesso ignorato o sottovalutato dagli insegnanti e dagli studenti: il suono.

    In musica, trascurare il suono equivale a trascurare il colore nelle arti figurative, o il movimento del corpo nella recitazione. La produzione del suono dovrebbe essere considerata parte della tecnica in senso lato, perché la tecnica è molto più del saper suonare le note rapidamente ed egualmente.

    Nei rari casi in cui si parla della produzione del suono, il tutto spesso si riduce ad affermazioni come dovresti avere un bel suono, canta! o cambia il colore. Gli insegnanti danno raramente consigli su come ottenere il bel suono, su cosa fare con le mani o con il braccio per far cantare il pianoforte, o cosa si debba fare fisicamente per creare la sensazione di cambiare il colore. Credo che il docente dovrebbe essere molto specifico nel soddisfare le esigenze degli studenti che aspirano a una guida più pragmatica su questi aspetti. Nel corso degli anni, ho sviluppato un mio modo di approcciare questo problema. Prima di presentarlo qui, vorrei però fare alcune precisazioni:

    Sebbene io trovi abbastanza semplice insegnare la base della produzione del suono, queste abilità di solito non sono compatibili con chi è indifferente alla qualità del suono pianistico, o con uno studente le cui orecchie non desiderino già un particolare tipo di suono. In sintesi, non è possibile raffinare il proprio tocco senza raffinare il proprio orecchio. Mi riferisco a due tipi di orecchio. Il primo è soggettivo: l’immagine (nella mente del pianista) del tipo di suono che si vorrebbe produrre. Più l’immagine è specifica e precisa, migliore sarà il risultato. L’altro tipo di orecchio è oggettivo e si riferisce all’abilità del pianista di monitorare il suono effettivamente prodotto dalle sue dita. L’ascolto oggettivo è sempre un obiettivo, una battaglia che dura tutta la vita, giacché un musicista tenta costantemente di ascoltare oggettivamente la sua esecuzione, ma non vi riesce mai completamente. Il pianista non può fare un lavoro significativo, senza imparare prima ad ascoltare attentamente e instancabilmente ogni suono che produce al pianoforte (ne parleremo meglio nel capitolo sullo studio).

    Spesso è sottovalutata la necessità di studiare su uno strumento che risponda sufficientemente alle sfumature del tocco (nessuna tastiera elettronica è in grado di farlo, temo). Chopin doveva avere questa opinione poiché, secondo il suo allievo Karol Mikuli, i suoi studenti «suonavano sempre un magnifico gran coda da concerto, ed era loro dovere studiare solo sugli strumenti di qualità migliore»¹. Come afferma il pianista e scrittore russo Grigory Kogan: «Il pianista dovrebbe essere capace di suonare su ogni tipo di pianoforte, ma deve studiare solo su un buono strumento»².

    Il pianista può essere tentato di cercare un suono di assoluta bellezza, che sia adatto ad ogni occasione. Anche io dico spesso ai miei studenti che non esiste il bel suono in sé, ma c’è un suono appropriato ad un determinato stile, brano o passaggio (a dire il vero, esiste però il suono brutto, e il pianista dovrebbe sapere come evitare di produrlo). Il suono adatto a Rachmaninov sarebbe completamente fuori luogo in Mozart, e viceversa. Effettivamente, il suono dovrebbe essere usato come uno strumento per la definizione dello stile. La consapevolezza stilistica, che si esprime nella scelta del tempo, o del ritmo, del fraseggio e dell’articolazione che il musicista ritiene appropriato allo stile dell’opera, dovrebbe essere incorporata nella nozione di suono corretto.

    Anche un bambino di due anni è in grado di produrre il suono giusto occasionalmente, ma in tal caso si tratterà di un suono, una singola nota. Solo un pianista professionale può produrre un secondo suono che corrisponda perfettamente alla qualità del primo. È importantissimo per i pianisti avere la capacità di mantenere un certo tipo di suono per la lunghezza di un passaggio o una frase, e di cambiarlo a piacimento.

    Quando i pianisti parlano di bel suono, essi intendono solitamente un suono cantabile e lungo, che lasci percepire il meno possibile la natura percussiva del pianoforte. Anche nei casi relativamente rari in cui i compositori evidenziano la percussività dello strumento (si pensi al Primo Concerto di Bartók e a Les Noces di Stravinsky), il pianista non dovrebbe restare indifferente alla qualità del suono; dovrebbe aspirare a emulare la risonanza di un gong o la potente combinazione di asciuttezza e profondità dei tamburi africani, piuttosto che un rumore di pentole da cucina.

    Ogni pianista professionista ha passato (o avrebbe dovuto passare) lunghe e frustranti ore a studiare, cercando autonomamente di produrre questo bel suono durevole. Siamo tutti diversi fisicamente, e per questa ragione ogni pianista sviluppa la sua propria strategia. La moltitudine degli approcci e delle loro combinazioni, comunque, può essere ridotta a due tipologie generiche. Il mio compianto insegnante, il grande pianista e pedagogo Lev Oborin, definiva la polarità di questi approcci con i termini sostenuto e leggero. Io preferisco usare le parole inglesi in (in dentro) e out (in fuori). Entrambi questi modi di suonare, come vedremo, condividono un medesimo obiettivo: mascherare il momento più infido e pericolosamente rivelatore, quello dell’attacco effettivo del suono, quando il martello colpisce la corda.

    È stato usato un immaginario eloquente per descrivere il primo tipo di produzione del suono (in dentro). Rachmaninov parlava di radici che crescevano dalle dita nella tastiera. Joseph Hoffmann diceva che il suono dovrebbe essere prodotto come se ci fosse una fragola molto matura sul tasto, e bisognasse abbassare il tasto facendo pressione su di essa. Queste immagini implicano due importanti caratteristiche del tipo in dentro. La prima è la velocità controllata del processo: il ritmo lento con cui crescono le radici e l’affondo graduale con cui il dito deve premere sulla fragola, per evitare che si spappoli sulla tastiera. L’altra caratteristica è la continuità del movimento; le radici crescono senza fermarsi, infatti. Il tipo di attacco in dentro è basato su un lento affondare nella tastiera: le azioni continuano anche quando il suono è stato prodotto, come se venisse ignorato il momento dell’attacco. Il peso che si trasferisce sui tasti rimane su di essi: non viene rilasciato, e, anzi, si sposta sulla nota successiva della frase.

    L’attacco in fuori potrebbe essere descritto come l’opposto del precedente. Il suono è prodotto tramite un colpo veloce, come se il dito lasciasse il tasto ancora prima che il suono possa essere udito. Ovviamente, se la nota deve essere tenuta o connessa alla successiva, il dito non lascia il tasto. Ma la maggior parte del peso va via; ne rimane solo una piccola parte, sufficiente a tenere il tasto abbassato.

    Questo tipo di azione è simile al suonare l’arpa (il pianoforte non è d’altronde essenzialmente un’arpa posizionata orizzontalmente?). L’arpista pizzica e poi lascia le corde, quasi prima che le note vengano prodotte, altrimenti il suono sarebbe smorzato dalle dita. Oppure, si pensi al modo in cui il percussionista suona il tam-tam: egli non lascia mai la mazzuola premuta sullo strumento. Subito dopo aver colpito il tam-tam, allontana la mazzuola, permettendo allo strumento di risuonare senza essere ostruito.

    Suonando in questo modo, il pianista non dovrebbe dirigere il movimento verso il basso. Piuttosto, il dito dovrebbe percorrere una traiettoria circolare (tangenziale), come se attraversasse il tasto ma non vi si fermasse. Ancora una volta, l’azione è simile al movimento circolare usato per pizzicare l’arpa, per percuotere il tam-tam, o per suonare i piatti o giocare a baseball o tennis. Nell’analogia sportiva, la racchetta da tennis e la mazza da baseball superano il punto in cui colpiscono la palla, continuando con il movimento circolare. Il pianista dirige il movimento verso se stesso come se stesse afferrando il suono dalla tastiera e tirandolo fuori³.

    (Alcuni pianisti preferiscono spostare la mano in avanti, piuttosto che verso se stessi. Konrad Wolff descrive così il modo di suonare di Artur Schnabel⁴. Schnabel potrebbe averlo appreso a sua volta da Theodor Leschetizky, la moglie del quale – altra leggendaria pianista e insegnante russa –, Anna Esipova, raccomandava: «Appoggia la mano sui tasti corrispondenti all’accordo e sposta la mano come se spingessi un cassetto in una scrivania»⁵. L’importante, per me, è che i due movimenti non percuotano il tasto perpendicolarmente ma obliquamente. Entrambi possono essere descritti come carezzevoli, in quanto permettono al dito di scivolare lungo il tasto⁶. Trovo più pratico spostare le mani verso di me, invece che in direzione opposta, perché in quest’ultimo caso il copritastiera del pianoforte limita il movimento. C’è invece più spazio tra la tastiera e il pianista.)

    Questi due tipi di produzione sonora, in dentro e in fuori, non appaiono quasi mai nella loro forma pura; piuttosto, sono possibili innumerevoli combinazioni dei due.

    Diverse scuole nazionali hanno dimostrato preferenze per l’uno o l’altro: i pianisti della scuola russa preferivano l’attacco in dentro, mentre quelli di discendenza musicale francese o tedesca sembravano prediligere l’attacco in fuori (uso il tempo imperfetto qui, perché l’attuale espansione delle tradizioni non ha lasciato praticamente nessuna scuola nazionale priva di altre influenze).

    Per me è importante utilizzare diversi tipi di suono per diversi tipi di musica. Un’opera di carattere introverso, come l’Intermezzo op. 119 n. 1 di Brahms (Es. 1.1), può beneficiare di un attacco in dentro, mentre musica più esplicita ed estroversa, come l’inizio del Notturno in do minore di Chopin (Es. 1.2), richiede l’attacco in fuori. Molti pezzi possono essere presentati in modo ugualmente convincente usando uno o l’altro dei due approcci, come, ad esempio, il Notturno in fa diesis maggiore di Chopin (Es. 1.3). Il pianista che ha familiarità con entrambi gli approcci può scegliere quello che gli sembra più appropriato.

    Es. 1.1. Brahms: Intermezzo in si minore, op. 119 n. 1

    Es. 1.2. Chopin: Notturno in do minore, op. 48 n. 1

    Es. 1.3. Chopin: Notturno in fa diesis maggiore, op. 15 n. 2

    Può capitare che il pianista voglia imitare il suono di altri strumenti, specialmente quando si trova di fronte ad una trascrizione pianistica di un brano per orchestra. Il suono arioso del corno, come all’inizio della parte orchestrale del Concerto n. 2 in si bemolle maggiore di Brahms (Es. 1.4), sarà reso meglio dal tocco in fuori. Il calore del suono degli archi nell’estratto del Primo Concerto di Liszt (Es. 1.5), d’altra parte, richiede l’approccio in dentro.

    Es. 1.4. Brahms: Concerto n. 2 in si bemolle maggiore, op. 83, primo movimento

    Es. 1.5. Liszt: Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore

    Finora abbiamo analizzato i modi per produrre il suono a proposito di passaggi in piano. Temo tuttavia che l’approccio in dentro, se si vuole suonare forte, quasi mai possa funzionare bene. Immaginiamo un lungo crescendo: aumentando la velocità di abbassamento del tasto per produrre il suono più forte, la distanza temporale tra il momento dell’attacco e il punto di arrivo immaginario del movimento diventa sempre più breve, finché i due coincidono del tutto. Di conseguenza, invece di mascherare il momento dell’attacco, lo stiamo sottolineando: il suono diventa spiacevolmente duro e aspro, e quello che dovrebbe essere un affondo morbido diventa un suono di spinta.

    La mia soluzione per evitare la durezza del suono è quella di passare al modo in fuori usando un approccio hit-and-run (colpisci e fuggi). Più forte è il livello dinamico, più veloce dovrebbe essere il movimento. Gli accordi nell’Es. 1.6, per esempio, vengono suonati come se fossero strappati via dalla tastiera (naturalmente, il pedale prolungherà la durata e migliorerà la risonanza). Se le note devono essere tenute, le dita non possono lasciare i tasti, ma il peso va utilizzato solo per l’attacco, dopo il quale le mani non dovranno affondare sui tasti neanche per un momento. Un buon esempio di questo approccio è il primo tema del Quarto Concerto di Beethoven (primo movimento) quando appare in forte all’inizio della ripresa (Es. 1.7).

    Es. 1.6. Liszt: Concerto n. 2 in la maggiore

    Es. 1.7. Beethoven: Concerto n. 4 in sol maggiore, op. 58, primo movimento

    Prima ho accennato a come il pianista abbia bisogno di possedere una sua immaginazione timbrica: il cosiddetto orecchio soggettivo. Questo non è sufficiente, comunque, in quanto l’interprete deve anche avere la capacità tecnica di realizzare le sonorità che ha in mente. Il pianista deve sapere quali azioni fisiche influenzano il suono, e in che modo. Ci sono molti parametri variabili che vengono usati sia nell’attacco in dentro sia in quello in fuori. Alcuni riguardano anche altri aspetti del suonare, come l’articolazione o la velocità (del resto, la vera vita di un pianista che studia non può essere semplicemente divisa in compartimenti). Ma prima vorrei parlare di una condizione fisica indispensabile per produrre un suono ricco ed espressivo: la flessibilità del polso. Josef Lhévinne paragonava il ruolo del polso agli ammortizzatori delle macchine⁷. Il polso elastico ammortizza il suono e assorbe la forza in eccesso (il pianista usa spesso anche il gomito come ammortizzatore, come verrà descritto nel capitolo successivo).

    Il peso. Più peso applichiamo al tasto, più il suono sarà pieno (e/o forte). Il pianista ha bisogno di saper utilizzare tutto il peso delle dita, della mano, dell’avambraccio e del braccio. È ugualmente importante sapere come non usare il peso quando è necessaria una sonorità più leggera. Chiedo spesso ai miei studenti di sperimentare come appesantire le dita lasciandovi versare il peso delle giunture più grandi (da non confondere con il suonare di spinta), per poi ritirare gradualmente il peso per tornare ad un tocco leggero (per quest’ultimo, si immagini un’aspirapolvere che, a partire dalla spalla, aspiri via il peso dalla mano: questa immagine può risultare particolarmente utile per i pianisti di grande stazza che hanno difficoltà ad evitare l’uso del peso delle loro braccia nel suonare passaggi che richiedono un tocco leggero). Questi esperimenti sono importanti per imparare una delle abilità più essenziali per un pianista: dosare precisamente il peso necessario per un passaggio specifico. I pianisti che hanno un fisico esile potrebbero a volte sentire di non avere abbastanza peso per suonare un passaggio forte. Così cercano di compensare questa mancanza esercitando una pressione di spinta sui tasti con il tocco in dentro, che però non è consigliabile per il forte, come detto. L’attacco di spinta produce un suono duro e aggressivo. In questi casi raccomando fortemente che il pianista resista alla tentazione di suonare di spinta, utilizzando invece un tipo di movimento in fuori e aumentando la velocità di attacco.

    La massa. Questo parametro variabile dipende dalla parte del nostro corpo che usiamo per la produzione del suono. Il suono può essere prodotto da un solo dito, dal dito col supporto della mano, dal dito assieme alla mano e all’avambraccio, oppure da tutti questi insieme al braccio. Più è lunga la leva che partecipa – ovvero, maggiore è la massa – e più pieno sarà il suono. Quando vogliamo aumentare il volume, allora attiviamo le leve più lunghe. Quando invece vogliamo restare allo stesso livello dinamico e al contempo ottenere un suono pieno, cerchiamo il supporto delle leve più lunghe, senza la loro partecipazione totale. Per aiutare i miei studenti a tal proposito, accenno spesso al fatto che dovrebbero sviluppare la sensazione di avere un dito lungo come tutto il braccio, o immaginare che tutta la carne del braccio confluisca nelle dita. Un’altra immagine utile è quella di un collo lungo per percepire il flusso muscolare ininterrotto, che parte da dietro l’orecchio e che attraversa il collo e la parte superiore del braccio fino alla punta delle dita (da confrontare con il principio di estensione di cui discuteremo nel prossimo capitolo)⁸.

    Quando il pianista percepisce la necessità di dare più aria al proprio suono, che sente come troppo sottile e ossuto, un gomito flessibile potrebbe essere d’aiuto: può essere utile immaginare un paracadute attaccato al gomito. È importante distinguere tra massa e peso. Si può utilizzare l’intero braccio e comunque produrre un suono leggero, o usare invece solo il dito che tuttavia può avere su di sé il peso delle giunture più grandi.

    La velocità. Quella con la quale le dita colpiscono i tasti comporta dei cambiamenti non solo nel volume del suono, ma anche nell’articolazione. La fisica elementare ci insegna che la velocità può essere ottenuta solo da una certa distanza. Questo significa che un dito ha bisogno di cadere da una certa altezza, a meno che non vogliamo suonare molto piano. Se il pianista prova a suonare forte rimanendo con le dita appiccicate alla superficie dei tasti, tutto quello che riuscirà a fare sarà premere il tasto producendo un suono molto pressato. Più è grande la velocità che vogliamo ottenere, più deve essere alta la posizione del dito. A un certo punto, comunque, il pianista non può più contare solo sull’energia di caduta del dito, e deve coinvolgere anche la mano (questo sarà discusso anche nel prossimo capitolo sulla tecnica). Nella mia discussione sul tipo di tocco in fuori ho affermato che il suo movimento deve essere veloce. Eppure, i gradi di velocità possono apportare grande varietà a questo tipo di tocco, e nelle mie lezioni utilizzo diverse metafore per sottolineare le differenze di velocità nello stesso tocco. Parlo, ad esempio, di prendere il suono dal pianoforte piuttosto che di tirarlo, o, nell’altro estremo dello spettro, strapparlo fuori in opposizione a pizzicarlo. La velocità non solo può compensare un peso insufficiente, ma può anche essere interscambiabile con la massa. Un livello di dinamica simile può essere raggiunto usando una leva più grande con meno velocità di attacco, o con una leva piccola ma con un attacco più veloce. La decisione su quale azione intraprendere dipende da quale sia il suono più adatto o più appropriato stilisticamente per un particolare brano, secondo il pianista. Un cantabile in mezzo forte in Mozart, per esempio, può richiedere l’uso del movimento delle dita per un attacco rapido del tasto, probabilmente con il supporto della mano, e possibilmente con un parziale coinvolgimento dell’avambraccio. Al contrario, un livello dinamico dello stesso tipo in un pezzo di Rachmaninov sarà prodotto al meglio portando il peso del braccio sul tasto con una velocità relativamente lenta. Il suono sottile appropriato per Mozart è molto diverso dal suono pieno di Rachmaninov.

    Spesso, avendo a che fare con un pianoforte poco sonoro, i pianisti iniziano a forzare e pestare. Il suono è teso, sgradevole, e ciò può provocare una tendinite. L’approccio corretto in questi casi è quello di adottare un attacco veloce e leggero. Al contrario, se il pianoforte è molto brillante, una velocità di attacco più lenta e un tocco molto leggero eviteranno il rischio di un suono brutto.

    La percezione dell’affondo del tasto. Più che per le altre variabili, questa dipende dall’immaginario del pianista, poiché la effettiva profondità della corsa dei tasti non offre grandi possibilità di essere variata. Eppure, ogni pianista che sia davvero ben formato è capace di sentire la differenza tra un tocco profondo e uno superficiale. Normalmente si suona in profondità per ottenere un suono cantabile (tuttavia questo suonare in profondità non dovrebbe essere esasperato, perché altrimenti comporta un suono forzato e sgolato. Ho visto pianisti che suonavano come se volessero bucare la superficie della tastiera).

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