Pijan Paša
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La scrittura segue le dinamiche del racconto, con un periodare semplice e chiaro, che nell’intreccio rivela la supremazia titanica della storia sugli uomini e sulle loro scelte.
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Pijan Paša - Vincenzo Pastore
Vincenzo Pastore
PIJAN PAŠA
La kafana della famiglia Marković
AbelBooks
© 2022 AbelBooks
Tutti i diritti sono riservati
www.abelbooks.net
ISBN 9788867522798
I fatti narrati in questa storia sono fittizi.
La kafana Pijan Paša non è mai esistita.
La famiglia Marković è frutto dell’invenzione letteraria dell’autore.
Belgrado e la sua storia in sequenza cronologica fanno parte del vero.
Tutta la vicenda è finzione su uno sfondo di verità, ma sappiate che la realtà sa essere ben più imprevedibile dell’artificio letterario.
"Eh, gente, ieri sera per poco non sono perito! – disse Janko Veselinović alla compagnia riunita nella kafana.
– Sapete, come sembra misera la stanza dove vivo, cadente, rovinata, il soffitto fradicio … E ieri, dopo quella pioggia torrenziale, una trave marcia ha ceduto e, frantumandosi, è caduta proprio sul mio letto.
– Per Dio, come sei rimasto in vita? Janko rispose sorridendo: – Questo è avvenuto prima della mezzanotte … E io, come sapete, allora non stavo a casa. Stavo con voi nella kafana"
Cirić S., Kafana l’anima di Belgrado
LJUBOMIR MARKOVIĆ (*1837 –+1914)
DINASTIJA (Dinastia)
I
Mia madre, considerando gli accadimenti della sua vita complessa e rocambolesca, con una certa vena filosofica spesso soleva ripetermi: «benché gli uomini si affannino nell’indirizzare le proprie esistenze secondo desideri e aspirazioni dettati dalla propria indole e dai mezzi concessi dal Padre eterno, essi non possono sfuggire alle pastoie del destino e delle traversie della storia. Se ad alcuni non resta che piegare il capo e sottomettersi all’inevitabile, altri riescono a sfruttarne scaltramente ogni minima occasione, altri ancora dopo aver goduto della buona faccia della fortuna, assaporano il gusto amaro della malasorte».
A veder bene, tutta la vicenda umana della mia famiglia – i Marković, glorioso lignaggio di ristoratori – si è dispiegata secondo l’influenza degli eventi storici, ora funesti, ora fortunosi, che hanno interessato la nostra città, Belgrado, capitale di uno stato dalle molteplici forme e dalle mille vite, che da piccolo borgo ridotto a rudere a più riprese, sarebbe diventata una grande città, tante volte dominata (e distrutta), poche volte dominatrice.
Lo scenario su cui i fatti si sono svolti fu quello della kafana Pijan Paša, sorta in una delle arterie principali della città, una venatura oggi abbellita da alberi e cadenzante di negozi di ogni tipo, che danno al pedone un certo piacere nell’incedere e che attualmente si chiama Makedonska Ulica; un locale che nel giro di pochi decenni è divenuto un punto di riferimento per gran parte dei belgradesi. Non sono chiare le sue origini: ad una versione ufficiale trasmessa oralmente dal fondatore, si contrappone una narrazione sottobanco e volutamente taciuta che parla di inganno e scaltrezza.
Tutto ebbe inizio il 18 aprile del 1867, quando presso Kalemegdan (N. d. A fortezza di Belgrado) Ali-Riza consegnò simbolicamente le chiavi della città a Knez Mihailo e i turchi lasciarono definitivamente Belgrado, dopo trecentoquarantasei anni di occupazione e di sofferenza per la popolazione. Avveniva che proprio a ridosso del luogo in cui sarebbe sorta la kafana, alla porta di Stambol, molti serbi venivano impalati con quella tecnica tutta turca di infilzare i malcapitati senza ledere gli organi interni, umiliandoli con una lunga e atroce agonia, ma rendendoli simboli della resistenza serba contro gli ottomani. A quel tempo già esistevano molte kafane che perseguivano una tradizione plurisecolare, iniziata quando a Dorćol (N. d. A. quartiere di Belgrado) nel 1522 fu aperto il primo locale pubblico che portava il nome di kafana. Col tempo le kafane sarebbero diventate per la città, e lo sono ancora oggi, ciò che per il corpo è l’anima.
La sera prima della partenza turca, in una cantinola collocata a Skadarlija, un bugigattolo asfittico per conformazione e sovraffollato perlopiù da anime perse e disperate, due galli si affrontavano al centro di una sala polverosa e incrostata dallo sterco degli uccelli. Il gallo bianco, bello a vedersi, con delle cosce toniche e ruspanti, adornato di striature nere sulla coda, si faceva preferire per la rapidità degli attacchi e per la vivacità al suo avversario, un gallo nero, sornione e guardingo, all’apparenza imballato e sgraziato nei movimenti, che aspettava il cedimento del suo rivale che già lasciava intravedere la stanchezza per lo sforzo compiuto. Il gallo nero colse nel suo contendente il momento di annebbiamento, e con un gran balzo, che diede ai suoi artigli la forza necessaria per provocare ferite importanti, lo colpì fatalmente, lasciandolo esangue sul pavimento lercio. Il padrone del gallo striato schiumò rabbia, iniziò a prenderlo a calci e, non soddisfatto, gli spezzò il collo, mettendo fine alla sua collera e alla sofferenza della bestia. Il gallo nero, ancora imbattuto, che all’atto pratico significava essersela svignata ancora una volta dall’appuntamento con la morte, veniva portato in trionfo dal suo padrone, un turco schivo e ramingo, soldato della guarnigione che stazionava nei pressi di Kalemegdan, e che grazie alla sua bestiola aveva accumulato col tempo una discreta fortuna. Prima di uscire da quella baraonda di allibratori, degni di un cerchio dell’inferno dantesco, seguendo il suo personalissimo cerimoniale, prese il gallo, lo baciò e andò a incassare il premio copioso da un uomo barbuto e puzzolente.
«Bravo Fef, il tuo paparino ti preparerà una buona pappa. Vita lunga al mio galletto e soldi in tasca per me» esclamava giubilante l’ottomano che con bonaria avidità accarezzava il sacchetto di dinari.
Uscendo dal locale, con fare baldanzoso, pensò che bisognasse celebrare nel primo posto utile. «Ho voglia di festeggiare. Allah, può chiudere un occhio stasera» biascicava tra i denti mentre ordinava rakija (N. d. A bevanda alcolica comune nei Balcani) a profusione, trovandosi ben presto al limite tra l’alticcio e l’ubriaco. Mentre il turco continuava a bere con fatica, perdendo lucidità, un uomo sulla trentina, un seljak (N. d. A. alla lettera abitante del villaggio, contadino) dall’aspetto trasandato, sorseggiava la solita e povera šljivovica (N. d. A. acquavite di prugne), umile rituale della sua faticosa giornata. Il suo occhio cadde senza fatica sulla sacca di soldi, che imprudentemente l’ottomano ostentava sul tavolo. Mosso da un improvviso ed imprevedibile desiderio, l’uomo sottecchi iniziò a studiare i movimenti del turco, sedato dall’alcol ingollato. Quando arrivò il momento di rincasare, il militare uscì dal locale barcollando e facendo passi incerti, e si diresse verso la sua residenza, ignaro dell’inseguitore, che nel silenzio della notte, si muoveva come un fantasma. Entrato in casa, una modesta abitazione poco fuori il centro della città, il turco non serrò la porta e si gettò intontito sul letto, emettendo piccoli rutti che sembravano preludere ad una scarica di vomito. Il ladro girò la maniglia della porta e iniziò a muoversi nella quiete notturna, mentre il padrone di casa scivolava in un sonno profondo. Come un fioco proiettore, il chiarore della luna accarezzava il volto del dormiente, rilevando i leggeri movimenti che la sua bocca faceva nel russare, ed illuminava la zona vicino al letto laddove il bottino giaceva, insieme ad altre sacche di dinari simili a quella che il turco aveva racimolato nel corso della sua scommessa serale, posizionato in un pertugio tra il comodino e il letto. L’intruso prese quel che poteva e avanzando sulle punte si portò verso l’uscita. Nel silente procedere, inciampò tra gli indumenti lasciati svogliatamente sul pavimento, e per poco non cadde con la faccia a terra. Allertato dall’improvvisa accelerazione del suo battito cardiaco, ruzzolò fuori in fretta e furia, mentre l’ottomano, come investito da una secchiata d’acqua gelida, scattava di soprassalto dal letto, cercando invano di braccare il ladruncolo, che ormai si era dileguato velocemente tra i vicoli stretti e tenebrosi della città. Arrivato a casa, il seljak frugò le strade a destra e a manca, assicurandosi che nessuno l’avesse visto, si barricò e iniziò a contare il frutto di quella fortunosa battuta di caccia. Non poté nemmeno immaginare una così grande fortuna! Da ladro occasionale si sentì in colpa per quello che aveva fatto, ma, consapevole di non poter tornare indietro, cercò di relegare la sua colpa in un angolo remoto della coscienza e iniziò a ragionare sul da farsi. La paura di tenere quella somma di denaro in casa lo turbava, pertanto aveva pensato di investire le sue monete in mattoni. Prima però si preoccupò di mettere al sicuro il bottino, che andò a depositare nella vasca del letame. Per certo nessuno avrebbe mai immaginato di scandagliare quella melma fecale. Nei giorni successivi tornò in città per incontrare un uomo anziano, un falegname di sua conoscenza, che da tempo aveva deciso di vendere la sua bottega, situata in Skendemberga Ulica.
«Mi sento più prossimo alla morte che alla pensione» diceva il litanico bottegaio al suo compratore, mentre finalizzava l’accordo che non ebbe particolari problemi ad andare a buon fine. Comprato l’immobile per una cifra non molto alta, il seljak decise, dopo tanto tormentarsi, di aprire una kafana, seppur non fosse mai stato un ristoratore, se non un buon e assiduo bevitore di alcolici a basso costo.
Secondo tale dinamica di fatti, sottaciuta dal proprietario, nel 1867, Ljubomir Marković, un allevatore e pastore che viveva fuori dalla città, in una delle campagne in cui si respirava la povertà e il puzzo di animali, aprì questo locale, vanto e benedizione per tutti i cittadini.
Inizialmente questo ambiente era costituito da una camera ampia e da una stanzetta interna, inutilizzabile ai fini dell’attività, in cui campeggiavano due tavoli massicci in legno, fattura dell’ex proprietario che li utilizzava per il suo umile lavoro, e un bancone vecchio, acquistato da un’altra kafana che si stava rinnovando, che mal si abbinava con il resto del mobilio. Il locale aveva i muri colorati di verde e rosso carminio, in una soluzione che oscurava un ambiente già poco illuminato da due candele flebili. Particolare era il soffitto, così basso da non consentire agli avventori di poter bere restando in piedi, costringendoli a sedere su panchine e sgabelli di fortuna, sgangherati e intarlati dagli anni. Un pitale, posto in un angolo a malapena privato, faceva da toeletta. Si beveva soltanto. La casa offriva šljivovica, adorata da Ljubomir, e birra del Birrificio del Duca, che in quegli anni poneva il suo monopolio sul territorio. Per non destare dubbi su quell’improvviso investimento, Ljubomir vendette il suo allevamento di galline e di pecore, e la modesta casa con tutti i mobili. Una piccola parte del guadagno di quella vendita servì per comperarsi un letto e un mobilio minimo che mise nella stanzetta. La parte restante fu nascosta scientemente dal proprietario, come fondo di riserva. A chi chiedeva ragione dell’apertura dell’attività, curiosi che improvvisamente si ritrovavano l’ennesima kafana e che esitavano nel varcare quell’ignota soglia, Ljubomir raccontava che avendo passato l’intera vita, seppur ancora giovane, tra gli animali e la terra, e che ne sentiva già tutto il peso e la stanchezza, aveva venduto i suoi averi per coronare il sogno di una kafana tutta sua, conscio tuttavia del rischio di una tale impresa. Questa sua versione fasulla, che propinava con parole così persuasive e convincenti, che manteneva coerente e inalterata, ad un certo punto, mandata più fiate a memoria, parve convincerlo e fargli dimenticare la reale dinamica dei fatti. Potere delle bugie.
Ma la kafana faceva fatica ad emergere tra i tanti locali che sorgevano e pullulavano a Belgrado. In quegli anni molte kafane – l’autore fin qui ha volutamente esitato nel definire tale parola, si potrebbe tradurre con taverne anche se il termine kafana, alla lettera, sarebbe casa del caffè
– godevano di una certa fama, come ad esempio quelle di Skadarlija o il famoso Crni Orao (N. d. A. l’Aquila Nera) di asburgica memoria, e la celeberrima Znak Pitanja, che ancora oggi si trova nei pressi della Metropolia Ortodossa ed è forse il locale più noto della capitale balcanica. Soltanto nella strada della kafana di Ljubomir si trovavano diciassette locali che avevano i loro fidati clienti. A quei tempi in città circolava questo detto: "Un uomo può permettersi ogni sorta di tradimento, può finanche tradire la propria moglie, ma soltanto in due casi non potrà essere assolto: tradire il proprio parrucchiere e tradire la propria kafana".
A tal motivo la kafana di Ljubomir sarebbe stata alla mercé di gente di fortuna, delinquenti, dame bianche e chiromanti; uomini e donne che casualmente sarebbero passati e che forse non erano nemmeno avvezzi a tal mondo. Ma anche costoro preferivano luoghi più noti e fidati. E così Ljubomir passò giorni e giorni ad aspettare il suo primo cliente. Più passava il tempo, e più malediceva il momento in cui aveva deciso di comprare quel locale. A molte riprese fu sul punto di chiuderlo e di ricomprarsi capre e buoi per tornare al suo vecchio mestiere di allevatore. Una sera, al termine di una giornata vuota, come la bottiglia di rakija che si era tracannato, mentre si rimboccava le coperte per dormire, un tale bussò con una certa veemenza alla porta.
«Aprite, signore, Aprite!» gridava un accento orientale con insistenza.
Aperta la porta Ljubomir fu sul punto di svenire. Era il turco. Erano passate settimane e, nonostante la sua compagnia di soldati avesse lasciato la città già cinque giorni dopo il 18 aprile, questi, per un motivo non ancora noto, si aggirava perennemente ubriaco, come un’anima in pena, per le vie del centro in cerca di giustizia e nel vano tentativo di scovare il ladro.
Mantenne la calma.
Il turco non diede l’impressione di averlo riconosciuto.
«Entrate, buon uomo, entrate. Volete qualcosa da bere?»
«Šljivovica, grazie! Ah … vedo che non avete nemmeno molto altro da offrire …» disse sarcasticamente il turco, animandosi di un espressione torva e corrucciata.
Ljubomir serviva in silenzio la bevanda, atrofizzato dalla paura. Finito il primo cicchetto, ne chiese un altro, e dopo ancora un altro. Il turco, dopo una buona mezz’ora di silenzio, a motivo della sua voracità alcolica da smaltire, attaccò digrignando i denti e schiumando per la rabbia: «voi … voi …» si troncò drammaticamente, guardando negli occhi Ljubomir che iniziò in cuor suo a temere. Senza staccare gli occhi dal serbo, nel tentativo di estorcere una qualche dichiarazione, riprese con un mezzo sorriso sadico: «sapete, voi serbi siete dei grandi mascalzoni. Avete una gran faccia tosta, proprio dei gran bastardi!»
Ljubomir taceva, tutte le sue vene pulsavano nevroticamente.