Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina
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Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina - Guido da Verona
Guido da Verona
Mata Hari
La danza davanti alla ghigliottina
SAGA Egmont
Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1926, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728157688
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
Capitolo LVII.
La danza davanti alla ghigliottina.
La scena era nascosta da un velario di pesante velluto rosso. Esso incominciò a gonfiarsi, a sbattere, a vorticare, a cadere, a dilaniarsi, come se una tempesta di vento infuocato lo agitasse — viva materia destinata a divenire fiamma.
Era il Simoûn, fuoco e polvere del deserto, bufera di sole, rosso ciclone di sabbia scatenato nell’immensità purpurea. La stoffa bruciava salendo in rapidi vortici fiammeggianti. Nelle sue volute, ne’ suoi strappi, si vedeva passare il Simoûn, nuvola paurosa di atomi incandescenti, oceano di polvere incendiata, rogo volante.
Ombre nere: il vento nel vento. La fiamma sale, turbina, cade, si contorce, si spezza. È mille fiamme. Una, più rossa fra tutte: la Croce del Sud.
Non si vede più nulla; migliaia di lampi, migliaia di fontane fosforescenti; è una pazzia di cristalli che bruciano; un folle rogo di splendore che si contorce in ispasimi di accecamento; è il sole, il sole, il sole… a perdita d’occhio, nell’immenso infinito, più in là, più in là, terribile flagello dei deserti e delle jungle: il sole.
L’orchestra è pazza; le note degli ottoni bruciano; il delirio della sonorità accompagna il delirio della luce. Tutto è fuoco, tutto è urlo; le note cadono come farfalle dalle ali fosforescenti nel gorgo della fiamma; divengono simili a turbini di anelli d’oro, vertiginosi, che roteano, si urtano, si spezzano, cadono in frantumi di sonorità nel divampante vortice della consumazione.
D’un tratto, il teatro piomba nella più nera oscurità. Il fuoco è morto. La bufera di polvere e di stelle si è spenta nella vacuità perpetua della tenebra.
Ora nasce un suono. È alto, è pallido; sembra che la musica intessa la forma d’un giglio. Contiene la rugiada del mattino. Ride, scherza, col profumo dell’aurora e della natività. Riga del suo tremore l’ombra; vi disegna un chiarore di note, che tralucono come la nebbia argentata d’un ruscello, sotto il nascere dell’alba.
Mata Hari, la luce dell’alba, l’occhio del primo giorno, la natività del mattino.
Si vede un fiume. È lontano. Passa. La sua acqua lenta si muove con una specie di dolosità serpeggiante. Le sue rive sono sparse di pagode e di templi. È il sacro Gange, il misterioso generatore di tutte le stirpi umane; l’enorme serpe argenteo che traversa l’India millenaria: quegli che diede la potenza agli uomini; poi li annientò.
Passa. Tutto passa. Il fiume e l’uomo. L’amore e la morte. L’eternità e l’istante.
L’onda va. Ora è sola. Traversa i campi degli uomini. Lambisce le case degli uomini. Ride nelle finestre dei loro templi. Travolge le ossa infrante che brulicano dai loro cimiteri.
Non c’è più nulla. Una landa sterminata, sopra uno sfondo di tramonto. Si alza uno scheletro che ride, poi danza, e cerca invano di abbracciare il sole. Tende le braccia al disco rossastro, che vorrebbe afferrare co’ suoi metacarpi vuoti di carne; ina non riesce a svellere i piedi affondati nella terra che lo tiene prigioniero. Allora si volge; ride spaventosamente; agita le braccia che non seppero impadronirsi del sole; ed ecco, dalla terra si alzano altri scheletri; sono centinaia, sono migliaia, si trascinano carponi, confusa battaglia di cadaveri che maledicono l’astro della vita.
E ora tutto ciò dorme, sepolto sotto la terra riparatrice.
Si vede l’ara d’un tempio. Il marmo polito sfavilla come se fosse tempestato di pietre preziose. Gli idoli mostruosi ridono, seduti a gambe aperte, in semicerchio, per adorare il dio Visnù. Il tripode fuma. La bacchetta di mirra brucia, consumata sino in fondo. Om mane padme om…
Dio mostruoso, vuoi ancora saziarti di verginità sanguinante?
Quante fanciulle vuoi, dorate, fulve, scure, coi denti strofinati dalla foglia di béthel, coi polsi più sottili del nodo che forma la canna del bambù, il grembo levigato e liscio come la pietra di luna, quella che si mette nella bocca dei morti?
Dio mortifero come il papavero nero, vuoi la più bella, quella che tutte soverchia, la perfetta, la delirante, la ubbriacante, la sola che tra le donne è donna, tra le perle è perla, tra i fiori è fiore?… Eccola, viene.
Om mane padme om…
Om mane padme om…
Apparvero due preti vestiti di bianco, i quali portavano sul capo le insegne del Dio solare.
Portavano anche, su le braccia ischeletrite dalla penitenza, la donna bella, tutta nuda, tutta pura, senza un velo, senza una colpa, senza una gemma, senza un fiore.
Om mane padme om…
La deposero a terra, sul marmo levigato, splendente. I suoi occhi erano suggellati ed il suo corpo rigido, come nel sonno ipnotico. Aveva bevuta la droga dell’assiderazione, quella che fa divenire tersa e fredda la materia come un cristallo. Le sue braccia più belle dell’alba erano distese lungo i fianchi. I suoi ginocchi erano congiunti. Le piante uguali de’ suoi piedi eran come due filigrane d’argento, la cui forma fosse stata disegnata da un artefice divino. Le sue spalle posate sul marmo gelido sembravano più dolci che il contorno della luna di gennaio, quando si alza. Il suo volto era l’immortalità, il sogno dei dispersi nelle musiche del dio Oppio; la stella che precede il giorno; lo splendore della riviera di gemme che contorna la fronte dell’imperatrice. Il suo grembo era una coppa di madreperla rovesciata, ove gli arcobaleni del mare e dello spazio tremano perpetui nella carne ferma.
Om mane padme om…
E quegli astinenti, quei magri, quei pazzi, quei murati vivi nel desiderio che non può saziarsi, ora guardavano con occhi di fiamma la vergine supina, il pane per la fame del Dio, il grembo che diverrebbe sanguinante nelle braccia del mostruoso fecondatore.…
Om mane padme om…
Ora gli astinenti si moltiplicavano. Erano sei, poi altri sei; poi dieci. Uscivano dalle muraglie, dai colonnati del tempio. Guardavano con occhi brucianti di turpitudine la donna imposseduta. Le loro mani adunche si tendevano a lei, senza toccarla. Il delirio della carne contrita, pesta, mortificata, scavava nei lor terribili volti l’incisione della follìa erotica. Si strappavano le vesti, si ferivano, si graffiavano, buttandosi carponi ad annusare la nudità agghiadata.
Om mane padme om…
Sotto l’alito caldo di quei monaci, la donna si svegliò; sorse. Il suo fulgore li respingeva, la sua nudità perfetta innalzava una barriera di divieto infrangibile fra sè e loro. Solo il Dio poteva possederla, il Dio aureo ed obeso per il quale avrebbe danzato.
Egli era là, fermo e carnoso, con in fronte la mitria dei nove poteri, sul trono tempestato di gemme favolose, con la faccia immobilizzata in un ghigno di feroce ebetudine, ventroso e ripugnante, con un fiore d’oro deposto davanti a sè, sovra un cuscino purpureo.
Questa leggenda si chiamava per l’appunto La danza del fiore d’oro.
Ed ecco, una fanfara di flauti e di tiorbe si scatenò nel golfo sonoro del tempio, accompagnata dalla nenia voluttuosa degli strumenti indo-malesi, antichi ed eterni come la razza umana, come i libri del Rig Veda e come la Regola d’amore di Vatsayana.
Erano i lamenti carnali della dilruba, violoncello asiatico dalla voce umana, il fremito lussurioso della vina, il pianto melodico dello yukaleli, i saltellanti contorcimenti della tabla, i rimbombi sonori dei cémbali e dei timpani, le note guerresche dei tamburi e dei plettri, le furie dei sonagli, le ansie rauche, ma rotonde e profonde, delle cornamuse di Honolulu, il suono falso ed attraente come la voce di un androgino dei flauti afgani, qualche nota chiara e stellata delle guzle persiane ed arabe, che ricordano le chitarre andaluse: il tutto scandito sovra una specie di frenesia orchestrale punteggiata di pause un po’ simili ad una coltellata inferta in una gola che canta, e col ritorno dei temi ripetuti fino all’esasperazione, allacciati, intrecciati, aggrovigliati, con minime variazioni di tono, ignote nella musica europea.
La baiadera di Kânda, nuda come il peccato mortale, scuoteva la sua carne dorata per incantare l’immobile Dio. Per lui torceva le sue braccia allacciarci, le sue spalle convulse, che assumevano gli splendori della pietra di luna; per lui muoveva le sue anche, tenaglie formidabili della voluttà, e rovesciava la gola convessa inghiottendo il fiotto gorgogliante del suo trattenuto urlo.
Bruciante gioiello di carne, ella si contorceva con frenesia, simulando tutti i giuochi del piacere, tutte le furie prénsili e tórtili della mimica sessuale, davanti a quell’idolo stralucente che la guatava col suo riso ébete. Meravigliosa etera, dalla carne ageminata di trepidazioni fulve, spremeva in sè stessa la forza del Dio immobile, estorcendogli con tutto il suo corpo la calda aspersione del nettare fecondatore.
E mentre l’orgia si scatenava su la scena invasa da una turba di maschi e di femmine deliranti, il pingue Dio si muoveva dal suo letargo scintillante, per vestire le sembianze umane del sacerdote sacrificatore; un velo di fumo si alzava dai trípodi gonfi di résine scricchiolanti, e la « vanavasi » delirante cadeva nelle braccia del semidio fecondatore.,,.
— Mon cherrr!… — diceva durante l’intermezzo lo smilzo Omar Pascià, appendendosi al braccio del marchese di Campo di Fiore, — c’est écrasant! c’est fou! c’est épouvantable! A-t-on jamais vu rien de pareil? Ces Berlinois, à les voir de près, sont tout ce qu’il y a de plus bath!…
— Veux-tu en finir, sacré Omar? Ne vois-tu pas que les gens se retournent? Un peu de mesure, s’il te plait.
— Est-ce qu’ils en ont, eux, de la mesure?
— Bien, oui; à leur manière ils en ont.
— Tu rigoles, hein? Non d’une salopette! Dans le pays du bon roi Dagobert, où le nu a tout-de-même ses droits, nous n’avons pas encore vu se b… sur la scène! Ta bayadère!… ah, la splendide gueuse!… Elle m’a mis dans le sang un feu satanique! Je brûle, j’étouffe. Je vois une miriade de petits cercles miroitants tournoyer aux fond de mes prunelles.
— Sacré Omar! si tu y ajoutes encore du Sekt, verre sur verre, tu risqueras de sauter en l’air comme une poudrière.
— Oui, tu as beau me narguer, toi qui passes tes nuits dans les bras de la bayadère!… Quant au pauvre Omar, pas une backfisch qui veuille de lui. J’ai une dent contre ces blondes matrones qui ne m’ont pas encore envoyé des billets doux. Tiens: voilà von K., un des amants de Mata Hari. Tu l’as fait cocu: tu peux en être fier. Et voilà, dans un cercle de dames de la Croix Rouge, monsieur Préfet de Police, autre amant de la bayadère, qui s’évertue à leur expliquer pourquoi et comment le nu sacré n’offense en rien la morale.
— On prétend que La fleur d’or n’est que du chichi à coté du prochain mimodrame qui sera le clou de la soirée.
— La danse devant la guillotine?
— Oui; une danse créée tout exprès pour éblouir la Ville Lumière, qui n’est plus, paraît-il, Paris, mais Berlin.
— Paris, c’est tout ce qu’il y a de plus vieux jeu, de plus moche, de plus province. Au fond il est démontré que la république tue les arts, l’esprit, l’envol de toutes choses. En dépit de leurs éfforts pour être des esprits hélléniques, ces gros bonnets républicains sentent toujours cet homus novus