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I cinici
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I cinici

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La crescente complessità del mondo a cui assistiamo implica un altrettanto sviluppo di responsabilità, che matura a sua volta attraverso l'interrogarsi sulla direzione morale di fondo che diamo alle nostre azioni e credenze.

L'autore problematizza tali questioni, constatando come nella modernità, invece di accrescere gli interrogativi morali a cui sottoporci, li abbiamo progressivamente rimossi affidando il futuro alla sola tecnica e alla competizione che essa genera. Terreno tristemente ideale per il fiorire di lacerazioni ciniche. Infatti, la complessità incontrollata ci disarma e ci rende vittime ma anche carnefici, aprendoci alla dissociazione tra il piano ideale e quello reale. Se invece intendiamo lo sviluppo umano una questione di emancipazione dobbiamo riconoscere la necessità di una svolta, di passare dal paradigma meritocratico "dell'intelligenza" del "saper fare le cose" a quello morale "della coscienza" del "sapere cosa volere".
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 2, 2022
ISBN9791220393683
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    I cinici - Fabio Luffarelli

    PREMESSA

    Questo libro nasce con l’intento, intimo, di riconciliare una dissociazione di cittadino di inizio del XXI secolo tra la sua sfera morale, con una visione del mondo, delle speranze e aspirazioni; e le sfide che la realtà sociale pone a quella sfera. L’unica forma di riconciliazione in questa lacerazione, tra ideale e reale, è rielaborare una vecchia forma di cinismo quale forma di resistenza interna.

    Si può lottare ad armi impari con ciò che ci circonda, ma si può restare delusi dalla lotta. Si può assecondare la realtà, facendo tacere la voce morale che è in noi. Per chi ci riesce è una strada indolore ma con un costo alto, come un’anestesia che progressivamente ci annienta. Oppure si può osservare e criticare ciò che vediamo, incessantemente, minuziosamente. Una critica che può prendere molte forme ma che ha lo stesso intento e spirito di fondo. È il riconoscere che il mondo rischia di cambiarci più di quanto noi possiamo cambiarlo, senza far per questo tacere l’inevitabile voce morale che sgorga in noi. Una critica che non è esente da contraddizioni e imbarazzi, ma che vale la pena di essere mantenuta in vita e approfondita. Gettare luce sul cinismo, in fondo, non è che fare metacritica, facoltà di cui è meglio essere dotati oggi come oggi.

    Vivere è un esercitarsi a morire (come Platone fa dire a Socrate nel Fedone). Se così è, il vivere (esercizio di pienezza, perché di distacco dal particolare in vista del generale) si contrappone al sopravvivere, ovvero all’imporsi degli uni sugli altri, rinunciando a comprendere, egoisticamente, l’unità delle cose. Ora, questa considerazione può apparire di natura meramente filosofica o teologica, ma ha inevitabili e profonde conseguenze sulla politica e la forma che assume la nostra dimensione dell’essere sociale, lo stare nel mondo. A una visione di distacco si contrappone una di imposizione perché di attaccamento. A una visione di disinteresse personale per l’interesse generale, legata alla dimensione intrinseca del bene e della verità, si contrappone una visione strumentale e interessata delle cose, su cui si cerca di dominare per esercitare potere. Il cinismo (antico) è quindi, di conseguenza, una forma di distacco nel distacco. Un distacco critico a un sopravvivere per il potere (rappresentato dal cinico moderno), rispetto all’ideale del vivere per il distacco. Alimentando la lacerazione di cui si parlava, ciò è particolarmente vero oggi, dove la vita attiva non lascia più il minimo spazio alla vita contemplativa, dove la moltitudine parcellizzata dell’informazione ha preso il sopravvento sul sapere e la sapienza. La diretta conseguenza è una sproporzionata attenzione verso tutto ciò che porta al sopravvivere, all’attaccamento, a vicende e obiettivi particolari. Anche qui, non stupisce se si parla di individualismo non solo come frutto di certe dottrine politiche illuministe, ma anche e soprattutto sotto il punto di vista egoista di mero interesse verso di sé. Tutto ciò è diretta conseguenza di un progressivo allontanarsi dalla riflessione sulla verità, infatti lì dove non c’è più alcuna ricerca (che distacca perché è distacco, in quanto oggettivizza) non c’è più bisogno di contemplazione e non ci rimane che fare, cioè trasformare il mondo a nostra immagine e somiglianza: a partire e grazie alla tecnica; anche se, la libertà di poter fare indefinitamente è la stessa libertà di poter distruggere. Se il mondo è espressione dialettica di forze opposte, la libertà di creare, sostituendoci al creato, è quella di distruggere uno stato d’essere preesistente: in fisica si chiama entropia. Attraverso l’azione tecnica in quanto creatività, e la sua progressiva irruenza fisica, stiamo semplicemente accelerando tale fenomeno, disvelando l’essere per la morte, per dirla con Heidegger.

    Dietro a tutto ciò rimane solo una grande pietà verso un errore di fondo innanzitutto di metodo e in seguito di sostanza. Ovvero, la dissoluzione della riflessione sulla verità è stata sempre di più vista come rimedio alle lotte che la presunzione di quella nozione comportava. Con il Rinascimento e poi l’Illuminismo, il dogmatismo è stato progressivamente visto come strumento e fonte di conflitto, oltre che di cecità verso il progresso, sotto ogni punto di vista. L’agnosticismo epistemico che tutto ciò ha comportato si è quindi designato come tutore e premessa della pace sociale. La verità diventa plurale, si atomizza, non c’è verità che non sia mia, relativa nello spaziotempo e non può essere collettiva, altrimenti genera pretese conflittuali fondamentaliste che sono da impedimento verso l’incessante sviluppo delle cose. L’impossibilità di discutere la verità, attraverso e grazie alla tecnica che al contempo si sviluppa e la commissiona, ha dimostrato che forse è perfino inutile pensarla collettivamente. Oltre che indesiderabile e impossibile diventa di conseguenza inutile, visto che, tolto questo impaccio, la macchina del progresso va più veloce. Tuttavia, certe azioni portano frutti lenti e progressivi sui quali, se non si analizza la storia, non si ha più consapevolezza. In particolare, un conto è demolire il dogmatismo insito nella presunzione che ogni verità ha in sé, un altro è incentivare la sua riflessione come strumento del conosci te stesso a partire dal so di non sapere. La presunzione che la nozione di verità dimostra di avere non è un problema a prescindere, che si risolve eliminandola con il relativismo, è semmai un problema se non è pensata filosoficamente, se non è rimessa in discussione con metodo. Potremmo quindi semplificare dicendo che la nozione di verità se lasciata a se stessa è presuntuosa e autoritaria, quanto riflessiva e aperta nel momento in cui si pone in una dimensione filosofica, cioè dialettica. La questione è che grazie all’efficienza della tecnica, tutto ciò che non era riconducibile a quest’ultima è venuto meno relegandosi in dibattiti accademici lontani dalla vita reale. L’efficacia e l’efficienza hanno riempito di fare tutto il panorama dell’azione, trasformando ciò che c’era di umanistico in scientifico. In ciò la deriva forse più plateale è quella dell’economia che, dai suoi presupposti di filosofia morale e di scienza sociale, piega verso la matematica, perdendo il senso delle nozioni che le stanno alla base, come quelle di felicità e bene comune.

    L’obiettivo di questo lavoro è dunque quello di tematizzare l’intrecciarsi di tali questioni, a partire dai problemi generati dalla mancanza di una direzione morale in un modo che si fa sempre più complesso. Complessità che ci disarma e di cui siamo vittime ma che ci rende anche carnefici, aprendoci alla dissociazione di cui si parlava tra l’ideale e il reale, punto di partenza e di arrivo.

    OLTRE L’INQUIETUDINE

    Il mondo non è solo pazzo. È insieme pazzo e razionale.

    (Adorno)

    Alasdair MacIntyre nel celebre titolo di filosofia morale Dopo la virtù (1981) avanzava le sue riflessioni a partire da un’ipotesi inquietante: io faccio mia quell’ipotesi e inizio a vivere profondamente i frutti dell’inquietudine che quella tesi comportava. Tale inquietudine nel tempo, constatata l’immensità e l’impossibilità di farvi fronte (anzi è piuttosto essa che fa fronte a noi), genera una certa rassegnazione cinica, ossia di lucidità di impotenza più che volontà di potenza. Quello che fa dire a Morin: Laddove si vedevano dei fuochi di paglia, io vedevo delle eruzioni, capaci di rivelare le fratture profonde presenti nel nucleo culturale delle nostre società (Lo Spirito del Tempo, 2002).

    Vale la pena riportare nel dettaglio lo scenario preoccupante da cui prende le mosse il filosofo scozzese:

    Immaginate che le scienze naturali debbano subire le conseguenze di una catastrofe. L’opinione pubblica incolpa gli scienziati di una serie di disastri ambientali. Accadono sommosse su vasta scala. Laboratori vengono incendiati, fisici linciati, libri e strumenti distrutti. Infine un movimento politico a favore dell’ignoranza prende il potere, e riesce ad abolire l’insegnamento scientifico nelle scuole e nelle università, imprigionando e giustiziando gli scienziati superstiti. Più tardi ancora c’è una reazione contro questo movimento distruttivo, e persone illuminate cercano di riportare in vita la scienza, pur avendo in larga misura dimenticato che cosa fosse. Non possiedono altro che frammenti: una conoscenza di esperimenti separata da qualsiasi conoscenza del contesto teoretico che conferiva loro un significato; parti di teorie senza legami né con gli altri pezzetti di teoria che essi possiedono, né con gli esperimenti; strumenti il cui uso è stato dimenticato; mezzi capitoli di libri, singole pagine di articoli, non sempre del tutto leggibili perché stracciate e bruciacchiate. Ciononostante, tutti questi frammenti vengono nuovamente composti in un insieme di pratiche che vanno sotto i nomi riesumati di fisica, chimica e biologia. Gli adulti discutono fra loro sui meriti rispettivi delle teorie della relatività, dell’evoluzione e del flogisto, pur avendo di ciascuna soltanto una conoscenza molto parziale. I bambini imparano a memoria le parti superstiti della tavola periodica degli elementi e recitano come formule magiche alcuni teoremi di Euclide. Nessuno, o quasi nessuno, si rende conto che ciò che stanno facendo non è affatto scienza naturale in qualsiasi accezione legittima del termine. Infatti tutto quello che fanno e che dicono è conforme a certi canoni di coerenza e consistenza, e i contesti che sarebbero stati necessari per conferirgli un senso sono stati smarriti, forse per sempre.

    In una cultura del genere gli uomini userebbero espressioni come neutrino, massa, peso specifico, peso atomico, in modi sistematici e spesso interconnessi che somiglierebbero più o meno ai modi in cui tali espressioni erano state usate nelle epoche anteriori, prima che la conoscenza scientifica fosse andata perduta in così larga misura. Ma molte delle credenze che l’uso di queste espressioni presuppone sarebbero state smarrite, e nella loro applicazione sembrerebbe esserci un elemento di arbitrarietà e persino di libera scelta che a noi apparirebbe molto sorprendente. […]

    Ma a che scopo costruire questo mondo immaginario abitato da fittizi pseudoscienziati e da una filosofia reale e genuina? L’ipotesi che voglio sostenere è che nel mondo effettuale in cui viviamo il linguaggio della morale sia nello stesso stato di grave disordine in cui si trova il linguaggio della scienza naturale nel mondo immaginario che ho descritto. Ciò che possediamo, se questa tesi è vera, sono i frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato. Abbiamo, è vero, dei simulacri di morale, continuiamo ad usare molte delle espressioni fondamentali. Ma abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica, della morale.

    Fuor di metafora, MacIntyre, riferendosi allo sfondo storico del pensiero morale e al suo schema, rintraccia:

    una struttura che richiedeva tre elementi: la natura umana spontanea, l’uomo come potrebbe essere se realizzasse il proprio telos, e i precetti morali che gli consentono di passare da uno stato all’altro. Ma l’effetto congiunto del rifiuto secolare della teologia sia protestante sia cattolica e del rifiuto scientifico e filosofico dell’aristotelismo condusse alla eliminazione di qualsiasi concetto dell’uomo come potrebbe essere se realizzasse il proprio telos. Poiché lo scopo dell’etica, come disciplina sia teoretica sia pratica, era esclusivamente di mettere l’uomo in condizione di passare dal suo stato presente al suo vero fine, l’eliminazione di qualsiasi concetto di una natura umana essenziale, e con esso l’abbandono di qualsiasi concetto di un telos, lascia dietro di sé uno schema composto dei due elementi restanti, la cui relazione diventa abbastanza confusa. Da una parte abbiamo un certo contenuto della morale: un insieme di ingiunzioni private del loro contesto teleologico. Dall’altra abbiamo una certa visione della natura umana spontanea, così com’è. Siccome originariamente le ingiunzioni morali avevano il loro luogo naturale in uno schema in cui il loro intento era di correggere, migliorare ed educare la natura umana, è evidente che esse non sono tali da poter essere dedotte da proposizioni vere sulla natura umana, o da poter essere giustificate in qualche altro modo facendo appello alle sue caratteristiche. È verosimile che le ingiunzioni della morale, così intese, siano di una specie cui la natura umana, così intesa, ha forti tendenze a disobbedire. Quindi i filosofi morali del diciottesimo secolo si sono impegnati in quello che era un progetto necessariamente fallimentare; essi infatti tentarono davvero di trovare un fondamento razionale per le loro credenze morali in una particolare comprensione della natura umana, e tuttavia avevano ereditato un insieme di ingiunzioni morali da un lato e una concezione della natura umana dall’altro che erano state progettate espressamente in modo da risultare discordanti l’uno rispetto all’altra.

    Quindi, tutto il fraintendimento morale contemporaneo risiede nel venir meno di un pensiero finalistico che possa immaginare, collettivamente: l’uomo, il bene e il male in relazione a se stessi e agli altri. Manca il dibattito su una dimensione prescrittiva dal punto di vista morale che sappia essere da legame tra la facoltà umana di cercare un senso (la natura umana spontanea, l’uomo così com’è) e la necessità di agire e fare attraverso degli scopi contingenti. Senza un pensiero teleologico intermedio, capace di significato, le ingiunzioni morali non hanno (e di conseguenza non sono) guida all’azione ma, all’opposto, più spesso servono a legittimare a posteriori le proprie scelte e, nel migliore dei casi, a garantire il rispetto delle regole attraverso un mero esercizio del dovere piuttosto che dell’essere. Venendo meno il principio esistenziale, logico e causale per cui: cerco un senso, trovo un significato, agisco per degli scopi, questi ultimi si legittimano come senso. Ma, la volontà e capacità di raggiungere degli obiettivi cos’è e cosa rappresenta se è privata dell’altrettanta capacità di saper pensare quei fini? Se tale riflessione è assente la tecnica si impossessa di tutto, perciò il pensiero economico utilitarista sviluppatosi a partire dall’illuminismo non è che un’estensione del dominio della tecnica in campo morale.

    In questa arena individualista non stupisce se i piani meramente fattuali come la tecnica e l’utilitarismo siano diventati i fini ultimi: quelli che in una prospettiva significante erano dei mezzi qui sono divenuti degli scopi. In questo liberalismo di ampio respiro, l’imperativo di cercare ciò che è bene per me e per gli altri (azione vista ormai come troppo coercitiva) si tramuta nel dovere delle regole che bisogna rispettare. In questo modo, la normatività morale cessa di guidare all’immagine dell’uomo ideale (educandolo), piuttosto si trasforma in un impaccio che limita. Lo slittamento è fondamentale: il bisogno di sviluppare l’uomo si contrappone alla necessità di circoscriverne le azioni con la percezione di vincolarlo. Evidentemente quando ciò accade manca il nesso, filosofico e dialettico, della comprensione e quindi si rispettano le regole perché occorre farlo anziché come manifestazione di ciò che è giusto per sé e per gli altri.

    Sempre con MacIntyre:

    Nel mondo antico, dunque, e in quello medievale, l’egoista è sempre qualcuno che ha commesso un errore fondamentale riguardo al luogo dove cercare il suo stesso bene personale, e qualcuno che in questo modo e in questa misura si è escluso da solo dai rapporti umani.

    Per molti pensatori seicenteschi e settecenteschi, invece, l’idea di un bene comune a tutti gli uomini è una chimera aristotelica: ciascun uomo, per natura, cerca di soddisfare i propri desideri individuali.

    Si è passati così, da un punto di vista morale, dall’essere al dovere, così come si è passati, da un punto di vista fattuale, dall’essere all’avere. Frutto dell’inversione e della perversione per cui i mezzi diventano scopi.

    A partire dalla diagnosi di MacIntyre, il cinismo di cui qui parlo si fonda sul fatto che siamo stretti nel paradosso tra l’essere posti in un contesto sociale segnato dal liberalismo utilitarista, e i principi di negazione sociale (individualisti e egoisti) su cui quella stessa appartenenza si basa. Per notare come e quanto stride il principio di socialità versus quello egoista su cui riposa

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