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Papà stories: Voci quotidiane di (in)credibili paternità
Papà stories: Voci quotidiane di (in)credibili paternità
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Ebook127 pages1 hour

Papà stories: Voci quotidiane di (in)credibili paternità

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Cosa significa essere padri al giorno d’oggi? Quello dei genitori non è mai stato un ruolo facile, lo sappiamo; bellissimo ed emozionante, senza dubbio, ma non facile. E forse lo è ancor meno in un mondo in continuo mutamento come il nostro, tra nuove tecnologie, vecchi stereotipi da superare e condizioni - familiari, professionali, sociali - un tempo inimmaginabili. Attraverso le voci di alcuni dei conduttori di Radio 24, questo libro ci racconta proprio gioie e dolori della paternità. Storie buffe, divertenti, toccanti o drammatiche di genitorialità quotidiana. Tutte uniche, ma accomunate dalla medesima meraviglia: quella del rapporto con i figli.
"Occorre andare oltre la quotidianità, e capire come il ruolo di padre,
può essere considerato un tassello fondamentale
nella costruzione di una società migliore.
"
dalla prefazione di Fabio Tamburini TEST 2
LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateMar 10, 2022
ISBN9788863459722
Papà stories: Voci quotidiane di (in)credibili paternità

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    Papà stories - Fabio Tamburini e i papà di Radio24

    Cosa abbiamo imparato dai nostri figli

    di Sebastiano Barisoni

    Non ho mai amato la Festa del papà, ma non perché abbia qualcosa di particolare contro la ricorrenza, ci mancherebbe. Né ho qualcosa contro i papà, sarei quantomeno autolesionistico.

    No, non l’ho mai amata perché la ritengo riduttiva rispetto al valore stesso della paternità (vale ovviamente anche per la maternità) e pur capendone il simbolismo e la necessità che si concretizzi in una data, ritengo impossibile sintetizzare in una giornata l’esperienza di una vita, perché piaccia o non piaccia padri si resta per sempre. Fino alla fine.

    Che poi, la paternità non è mica un’esperienza statica, la fotografia di un momento che cristallizza un rapporto, ma casomai un insieme di tanti fotogrammi diversi che messi in sequenza riproducono un film fatto di finali incerti, colpi di scena improvvisi, sorprese amare, dolori inattesi, gioie indicibili, delusioni cocenti, entusiasmi incontrollati, paure irrazionali.

    E, soprattutto, il film dell’esperienza continua, del divenire direbbero i filosofi, che un figlio, una figlia, i figli, riescono a generare e di cui alla fine, anche senza accorgertene, resti permeato. Certo ogni paternità è un film scritto per un unico spettatore e fa testo a sé. Per questo non mi soffermerò su alcun elemento autobiografico.

    Ma, come in una seduta di psicanalisi, vorrei ricordare a me e quindi a chi legge cosa può accumunare noi singoli attori di film diversi. E non tanto per quello che come padri abbiamo insegnato (?) ai nostri figli, quanto per quello che, volenti o nolenti, abbiamo imparato da loro, tracciando alcuni comuni denominatori, un poker di categorie dello spirito che la paternità ti obbliga ad affrontare, anche se magari ce ne eravamo tenuti a debita distanza fino a quel momento della nostra vita.

    La scelta come obbligo, l’errore come conseguenza.

    Essere genitori ti obbliga ogni giorno a fare scelte. Ovvero, scusate il gioco di parole, la scelta non è più una scelta.

    Se fino a quel momento una generazione come la mia, spesso tacciata del complesso di Peter Pan, poteva usare il procrastinare le scelte come regola di vita, come tentativo di ritardare l’ingresso nell’età dove devi assumerti le tue responsabilità, e la sospensione delle decisioni diventava un limbo protetto e rassicurante in cui avvolgersi come una coperta di Linus, dall’istante successivo alla paternità tutto questo crolla come un castello di carte e lo specchio di Alice si rompe per sempre.

    Non mi riferisco solo alle scelte obbligate di grande portata: la scuola a cui iscriverlo, le viste mediche a cui sottoporlo, gli amici e la socialità a cui esporlo. No, mi riferisco anche alle scelte quotidiane, alle microdecisioni che un genitore ogni giorno, quasi inconsapevolmente, deve prendere per qualunque dettaglio della vita dei propri figli. Figli che a fronte di una loro richiesta vorrebbero solo risposte positive, possono digerire quelle negative ma mai accetteranno la non risposta, la non scelta, il «Non so».

    E per la mia generazione, che le scelte era abituata spesso a delegare, a ritardare, a lasciare in sospeso, si tratta di un cambio di passo definitivo e irreversibile. E il bello, o il brutto, è che devi scegliere anche in assenza di informazioni complete, anche se le alternative presentano tutte alcuni vantaggi e svantaggi, senza che nessuno te le abbia imposte, senza che nessuno sappia realmente consigliarti e quindi diventandone tu l’unico responsabile.

    Il tutto, nell’ultimo decennio, anche aggravato dall’incertezza che il «nuovo mondo» porta con sé: genitori sbarcati in terre sconosciute, dove di nativi ci sono solo i loro figli, devono comunque scegliere anche in assenza dei vecchi punti cardinali e scegliendo sanno già che ogni tanto sbaglieranno. Ma errare porta sempre a un possibile errore e, in un Paese in cui il fallimento è sempre una lettera scarlatta, un marchio di ignominia, accettare che scegliendo puoi sbagliare, che solo chi tenta erra, è quasi rivoluzionario. Ma non vi sono alternative, il libretto di istruzioni su come essere un padre che sceglie sempre bene non lo hanno ancora pubblicato e allora non ti resta che tentare, ogni tanto sbagliare e poi riprovare. Non ti resta che scegliere.

    Il dubbio come pratica

    Viaggia di pari passo all’obbligo di dover sempre e comunque fare una scelta, il dover convivere con il dubbio, una convivenza forzata e di cui avremmo fatto forse volentieri a meno. Noi non amiamo il dubbio, il dubbio genera incertezza che a sua volta è una brutta bestia. La psicologia sociale ci ha raccontato in maniera molto estesa la differenza tra rischio e incertezza: in breve il rischio è in qualche modo stimabile, calcolabile, e la valutazione dei rischi che prendiamo è una pratica quotidiana che ha anche una connotazione positiva. Stimare un rischio ci porta, infatti, a prendere delle precauzioni, a ponderare e valutare le nostre azioni sulla base del rischio ipotizzato. L’incertezza, al contrario, non produce nessuna stima o calcolo delle probabilità ma solo paralisi, ti blocca e rischia di limitare il tuo agire.

    In sostanza, come ricordano gli psicologi, è la stessa differenza che si pone tra paura e angoscia: la paura ci fa essere prudenti, l’angoscia ci lascia smarriti. Pensate a un bambino piccolo che non conosce il senso del rischio e del pericolo (e infatti tende a esporsi a pericoli mortali) ma che se lasciato solo in una stanza al buio piangerà disperato: non è la paura di un pericolo specifico che lo fa piangere, ma il senso di smarrimento, di angoscia per non avere punti di riferimento, che lo fa piombare nell’incertezza più totale. Ecco perché anche da adulti noi allontaniamo quanto possibile l’incertezza e il dubbio che ne consegue. Peccato, però, che questa pratica non sia più possibile una volta che diventi genitore. L’obbligo di dover sempre e comunque scegliere porta con sé il dubbio e l’incertezza per quanto fatto, senza che altre alternative possano cancellarli.

    Prendiamo ad esempio la dicotomia più classica per un genitore: sono iperprotettivo con i mie figli o sono incosciente. Sfido ognuno di noi padri ad avere operato una scelta sicuro di non essere incorso in uno dei due estremi. E se anche tu decidessi la volta successiva di essere meno protettivo oppure meno «irresponsabile» il dubbio sarebbe sempre lì, a insinuare insicurezza e mai a garantirti alcuna certezza.

    Ma tutto questo non può essere visto come un imprevisto della paternità, un effetto collaterale negativo: in realtà è la vita stessa che implica un tasso di incertezza e dubbio e, se ce lo fossimo dimenticati anestetizzandolo negli anni precedenti, l’arrivo della paternità torna a ricordarcelo. O, forse, a insegnarcelo per la prima volta.

    Il sacrificio rende sacro

    Vale la pena chiarire subito che il sacrificio in questione non è quello che chiediamo ai nostri figli o che, si spera, cerchiamo di insegnare loro come valore. No, il sacrificio in questione è quello che viene chiesto a noi ogni giorno, e che spesso nel dialogo comune viene usato quasi come tratto caratterizzante la paternità o la genitorialità tout court. Quante volte, nel raccontare o raccontarci cosa è cambiato nella nostra vita tra il «prima» e il «dopo», la narrazione assomiglia a un lungo elenco di rinunce, un amarcord di un’età e periodo della vita in cui tutto era possibile mentre ora non lo è più perché limitati dai figli, un’età dell’oro che si contrappone all’attuale fatta di vincoli e limitazioni, fatta di sacrifici. Ed è innegabile che sia così, ma soprattutto è giusto che sia così.

    Perché il sacrificio non è il male, non è «una sfiga», è l’esatto opposto. Certo la generazione dei boomers e anche quelle successive sono cresciute in un ambiente culturale (e quindi anche familiare) in cui il sacrificio ha preso via via una connotazione solo negativa: la frase «Poverino, come si è dovuto sacrificare per…» è sempre declinata come una sfortuna rispetto a un’alternativa più rosea dove si sarebbe potuto evitare il «sacrificio». Ora, se è innegabile che sacrificarsi costi fatica (fisica o psicologica), impegno e rinunce, è altrettanto innegabile che «sacrificio» etimologicamente derivi da «sacro». Sacrificarsi per qualcuno significa rendere sacro il rapporto con quella persona. Se un padre dedica del tempo a suo figlio solo quando non ha nulla di meglio da fare sicuramente non compie alcun sacrificio, ma non penso possa essere usato come modello di paternità. Sono le notti insonni, la vacanze rimandate, i programmi saltati, le attese interminabili a rendere sacro il rapporto con i nostri figli. E, sia detto senza alcun moralismo, non c’è giocattolo o regalo che possa essere succedaneo al sacrificio che non hai compiuto. Il tutto senza che vi sia un interesse secondario, un atteggiamento «utilitaristico»: mi sacrifico per mio figlio perché un giorno me ne sarà grato e magari sarà lui a sacrificarsi per me. No, che questo accada (e sarebbe bello) o non accada, tu ti sacrifichi per tuo figlio perché così rendi sacra la tua paternità. Punto. Con buona pace dell’enfant gâté che ogni tanto ci scopriamo essere diventati.

    La fine dell’io

    Non c’è nessun tentativo di addentrarsi nei meandri della psicanalisi nell’ultima carta del poker della paternità. C’è solo la riflessione molto

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