Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

L Ottocento - Storia (62): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 63
L Ottocento - Storia (62): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 63
L Ottocento - Storia (62): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 63
Ebook701 pages6 hours

L Ottocento - Storia (62): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 63

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

L’Ottocento non solo altera radicalmente le condizioni della vita materiale e il rapporto con l’ambiente, ma trasforma anche i rapporti fra le generazioni e i generi, fra i ceti e le classi, fra le culture e le civiltà. Nel corso di questo secolo il mondo si trasforma a una velocità senza precedenti. Le “frontiere del possibile”, ma anche quelle del pensabile, si ampliano enormemente, a seguito anche dello “sviluppo economico moderno”, cioè di una crescita sostenuta e prolungata del reddito pur in presenza di un forte incremento demografico. Dopo il 1830 la Gran Bretagna non è più sola; dal suo epicentro insulare la rivoluzione industriale si estende in cerchi concentrici sul continente, tanto che il Belgio, la Francia nord-orientale, la Svizzera prima, più tardi la Germania e parte dell’Impero austro-ungarico, dell’Italia e della Russia sono via-via coinvolti in un processo di trasformazione sempre più rapido e incisivo che si accompagna a una crescita demografica senza precedenti e a un’urbanizzazione che trasforma i paesaggi europei. E nell’ultimo quarto del secolo anche Stati Uniti e Giappone si aggiungono all’elenco degli Stati industriali. Dal punto di vista sociale poi gli Stati assumono funzioni e compiti nuovi che si aggiungono a quelli tradizionali di mantenimento dell’ordine interno e di difesa verso potenziali minacce esterne. I problemi posti dalle trasformazioni prodotte dall’industrializzazione – proletarizzazione e urbanizzazione – con la minaccia di instabilità sociale e politica spingono i governi ad assumersi responsabilità nell’istruzione, nella sanità, nella nascita delle prime forme di previdenza sociale. In questo ebook viene dunque illustrato un secolo in trasformazione, in cui, tra gli eventi significativi della Grande Storia, si procede ad una ridefinizione della natura dello Stato, e si va affermando il nazionalismo, che si rivela una delle forze ideologiche e politiche più rilevanti del XIX secolo.
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2014
ISBN9788897514909
L Ottocento - Storia (62): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 63

Related to L Ottocento - Storia (62)

Titles in the series (74)

View More

Related ebooks

History For You

View More

Related articles

Reviews for L Ottocento - Storia (62)

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    L Ottocento - Storia (62) - Umberto Eco

    copertina

    L’Ottocento - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    L’Ottocento

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 75 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia dell’Ottocento

    VIttorio Beonio Brocchieri

    Eric Hobsbawm ha scritto che la vita materiale di un inglese della fine del Settecento era più simile a quella dei legionari di Cesare che a quella che avrebbero vissuto i suoi discendenti tre o quattro generazioni dopo. Non è un’esagerazione o un paradosso. Praticamente tutti gli indicatori fondamentali che potremmo prendere in considerazione – ad esempio la durata media della vita, la produttività del lavoro, la quantità di reddito o di energia procapite disponibile, la velocità dei trasporti e così via – ce lo confermerebbero, mostrandoci come il mondo – meglio, l’Europa occidentale – ancora all’inizio dell’Ottocento fosse più simile a quella di due – o se per questo anche tre – millenni prima che a quella di un secolo dopo.

    Semmai si potrebbe rimproverare ad Hobsbawm un eccesso di prudenza. Perché fare riferimento solo alla vita materiale? Anche per molti aspetti politici, sociali e culturali, un europeo della fine del Settecento si sarebbe trovato meno spaesato nella Roma dei Cesari che nella Londra tardovittoriana o nella Roma giolittiana. L’Ottocento infatti non solo altera radicalmente le condizioni della vita materiale, il rapporto con l’ambiente, ma trasforma anche i rapporti fra le generazioni e i generi, fra i ceti e le classi, fra le culture e le civiltà. Nel corso di questo secolo il mondo si trasforma a una velocità senza precedenti. Le frontiere del possibile, ma anche quelle del pensabile, si ampliano enormemente.

    Un cambiamento molto più rapido e profondo di quanto i più arditi riformatori, rivoluzionari, philosophes e sçavants del secolo precedente, così fiduciosi e ottimisti, osassero immaginare. Nel 1770 Louis-Sébastien Mercier prova a immaginare come sarebbe stata la Parigi dell’anno 2440. Mercier è convinto delle potenzialità della ragione umana e non pone limiti ai traguardi raggiungibili avendo a disposizione l’arma della geometria, delle arti meccaniche e della chimica. Ma nella sua Parigi del XXV secolo, ordinata e moralizzata, la gente continua pur sempre a muoversi a piedi o in carrozze trainate da cavalli. Una realtà molto diversa dalla caotica e dissoluta Parigi della Belle Époque, percorsa da tram e metropolitane mossi dall’elettricità.

    Il nuovo mondo industriale

    L’ampliamento delle frontiere del possibile è legato all’avvio di quello che l’economista Simon Kuznets chiama lo sviluppo economico moderno, cioè una crescita sostenuta e prolungata del reddito pur in presenza di un forte incremento demografico. Una novità assoluta nella storia dell’umanità che smentisce il pessimismo di Thomas Malthus.

    Di rivoluzione industriale si parla già in verità a proposito del Settecento, e la cronologia canonica, con buone ragioni, ne fa decorrere l’inizio dall’ultimo quarto del XVIII secolo. Tuttavia almeno fino al terzo decennio dell’Ottocento, la crescita complessiva dell’economia è lenta, anche perché i settori interessati dall’industrializzazione sono pochi, seppur importanti: quello tessile e quello siderurgico, e nemmeno in questi si coinvolgono tutte le fasi della filiera produttiva. Il ricorso al carbone come fonte di energia meccanica grazie alla macchina a vapore è a quel tempo limitato. Infine la Gran Bretagna, almeno fino al 1830 circa, è l’unica nazione industriale e anzi, il divario con gli altri Stati europei, ancorati a un’economia agricola tradizionale e impoveriti dalla lunga stagione delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, è aumentato. Per tutte queste ragioni, alcuni storici preferiscono considerare il primo mezzo secolo circa di industrializzazione – la prima rivoluzione industriale dei manuali, compresa fra il 1770 e 1830 – come una fioritura, ovvero come una fase di intenso sviluppo economico non diversa però da altre fasi simili – come quella dei secoli successivi al Mille – manifestatesi in Europa ma anche in altre civiltà. Nulla garantiva che questa fase di crescita non si sarebbe esaurita come le precedenti, scontrandosi con le legge dei rendimenti decrescenti. Ciò cui si poteva aspirare, nelle migliore delle ipotesi, era la conservazione di un mediocre stato stazionario – così in fondo la pensava anche un osservatore particolarmente perspicace come Adam Smith – sempre che si fosse riusciti a sfuggire alla catastrofe ecologica e demografica.

    Nel corso dell’Ottocento tuttavia, la fioritura industriale inglese non dà affatto segni di esaurimento ma anzi lo sviluppo accelera e si estende a nuovi settori e a nuovi comparti, come quello della chimica, dell’acciaio, dell’elettricità. ll carbone, la nuova fonte di energia apparentemente illimitata, soppianta definitivamente l’acqua, il vento e l’energia muscolare di uomini e animali. L’ondata di congegni che, secondo la celebre espressione dello storico Thomas Ashton, dalla fine del Settecento si abbatte sull’economia inglese, grazie al rapporto sempre più stretto fra scienza e tecnologia, nel corso dell’Ottocento diviene un vero e proprio tsunami tecnologico, destinato a travolgere e rinnovare modi di vivere e di pensare.

    Il nuovo mondo globale

    Inoltre, dopo il 1830, la Gran Bretagna non è più sola. Dal suo epicentro insulare la rivoluzione industriale si estende in cerchi grossomodo concentrici sul continente in attesa di lanciare delle teste di ponte, sul finire del secolo, in altri continenti. Il Belgio, la Francia nord-orientale, la Svizzera prima, più tardi la Germania, parte dell’Impero austro-ungarico, dell’Italia, della Russia, sono via via coinvolti in un processo di trasformazione sempre più rapido e incisivo che si accompagna a una crescita demografica – da poco meno di 200 a quasi 400 milioni di abitanti in Europa – senza precedenti e a un’urbanizzazione che trasforma paesaggi europei. Nell’ultimo quarto del secolo anche Stati Uniti e poi Giappone si aggiungono all’elenco degli Stati industriali. La grande Esposizione universale di Londra nel 1851 celebra un primato britannico ancora evidente ma non più inattaccabile, e soprattutto l’avvento di un mondo nuovo.

    Una dimensione particolarmente rilevante, ma talvolta sottovalutata, di questa trasformazione è la rivoluzione che investe il rapporto degli uomini con lo spazio e con il tempo. L’applicazione della forza del vapore ai trasporti via acqua – dai primi anni del secolo – e a quelli via terra, dopo il 1830, rende improvvisamente il mondo più piccolo, riducendo in modo spettacolare i tempi e i costi dei trasporti di uomini e merci, e più grande, perché consente alle diverse dimensioni dell’agire umano di dispiegarsi su una scala prima impensabile. Più discreta, ma altrettanto dirompente, è stata la rivoluzione che annulla completamente la tirannia della distanza nella trasmissione di informazione e notizie. L’invenzione del telegrafo e la posa, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, di una prima rete di cavi sottomarini e transoceanici, rappresenta l’inizio della comunicazione in tempo reale.

    Le conseguenze economiche, politiche e culturali sono enormi. Spazi e gerarchie economiche e politiche vengono ridefiniti con conseguenze spesso traumatiche per coloro che non sanno, o non possono, adattarsi rapidamente ai mutamenti. Tradizioni manifatturiere millenarie, come quella dei tessuti indiani, vengono spazzate via in pochi anni dalla concorrenza dell’industria inglese, che ovviamente trae il massimo vantaggio dalla soggezione politica del subcontinente indiano. È questa rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni – oltre che della tecnologia militare – che consente infatti all’Europa di imporre al mondo la sua legge. L’Ottocento è indubbiamente il suo secolo.

    Anche in Europa le ripercussioni sono importanti. L’invasione del grano americano a basso costo sconvolge nelle campagne europee assetti sociali e produttivi anch’essi plurisecolari. La grande ondata migratoria che negli ultimi decenni del secolo, e nei primi anni del Novecento, sposta milioni di europei, ma anche di asiatici, verso le Americhe e l’Australia, è uno degli aspetti più vistosi e drammatici di quella che, finalmente senza distinguo e prudenze, possiamo chiamare globalizzazione.

    Lo Stato e la nazione

    La dimensione europea dell’industrializzazione e l’importanza sempre maggiore delle interdipendenze globali non devono far dimenticare che l’Ottocento è pur sempre il secolo in cui lo Stato moderno assume la sua compiuta fisionomia anche istituendo un nuovo rapporto con l’idea di nazione.

    I percorsi attraverso cui i vari Stati europei fanno il loro ingresso nella modernità industriale sono molto differenziati e in molti casi – la Germania e l’Italia ad esempio – l’intervento diretto o indiretto dello Stato nella promozione dello sviluppo è determinante. Ma anche dal punto di vista sociale gli Stati assumono via via funzioni e compiti nuovi che si aggiungono a quelli tradizionali di mantenimento dell’ordine interno e di difesa verso potenziali minacce esterne. I problemi posti dalle trasformazioni prodotte dall’industrializzazione – proletarizzazione, urbanizzazione – con la conseguente minaccia di instabilità sociale e politica spingono ovunque le autorità governative, sia pure con modalità e tempi diversi, ad assumersi responsabilità maggiori nell’istruzione, nella sanità, nella nascita delle prime forme di previdenza sociale.

    Questa tendenza è anche il risultato dell’inserimento delle classi medie e in seguito popolari nella vita politica dello Stato. Nel corso dell’Ottocento, soprattutto nell’Europa settentrionale e occidentale, i diritti elettorali si ampliano notevolmente, dando effettiva rappresentanza politica a ceti e classi fino a quel momento esclusi. La transizione da un liberalismo censitario molto ristretto a un ordinamento compiutamente democratico è stata comunque lenta e soggetta a interruzioni e arretramenti e potrà dirsi compiuta, e non certo ovunque, solo nel XX secolo inoltrato.

    Il processo di inclusione delle classi medie e popolari, oltre a quello sociale e politico, ha anche un versante ideologico e psicologico che passa attraverso la ridefinizione della natura dello Stato. Lo Stato nel corso del secolo viene sempre più concepito e legittimato come la proiezione politica e istituzionale di un’identità più profonda, di natura storica, culturale o persino biologica: la nazione appunto. Sottolineando da un lato l’omogeneità interna e l’uguaglianza in linea di principio dei suoi membri e dall’altro il profondo radicamento storico dello Stato-nazione, il nazionalismo si rivela uno strumento utile per rispondere alle acute tensioni sociali prodotte dall’industrializzazione e allo spaesamento psicologico prodotto dalla crisi delle solidarietà familiari e locali che tengono insieme le società agricole tradizionali. Il nazionalismo ha costituito una delle forze ideologiche e politiche più rilevanti del XIX secolo, e i movimenti nazionali possono vantare le poche rivoluzioni riuscite – ad esempio l’unificazione dell’Italia e della Germania – del lungo Ottocento.

    Il secolo della borghesia?

    Già nel 1848 appare evidente come le conquiste della scienza, della tecnica e dell’industria moderne superino ogni più grandiosa realizzazione precedente dell’umanità, piramidi egizie, acquedotti romani e cattedrali gotiche comprese, secondo la celebre formulazione del Manifesto di Karl Marx che ne attribuisce senza esitazioni il merito al dinamismo di quello che appare il gruppo sociale trionfante: la borghesia. Questa visione dell’Ottocento come secolo della borghesia non è peraltro monopolio dei soli marxisti. È anzi un luogo comune condiviso da osservatori di orientamento ideale e politico molto diverso. Taluni – liberali, democratici – vedono nella dissoluzione dell’antico regime cetuale a guida aristocratica il compimento di un lungo percorso storico verso l’uguaglianza giuridica. Altri, conservatori e reazionari, vi leggono i segni premonitori della fine della civiltà europea cristiana e la minaccia dell’avvento della tirannia delle masse e del dilagare di un materialismo appunto bourgeois. Altri ancora, come i socialisti e i primi comunisti, la considerano una fase storicamente necessaria e positiva, ma destinata anch’essa a essere superata dall’avvento di una nuova società senza Stato e senza classi.

    Ma parlare di secolo o, addirittura, di trionfo della borghesia (Hobsbawm) è forse eccessivo. Innanzitutto perché la borghesia europea ottocentesca non costituisce affatto uno strato sociale omogeneo, né dal punto di vista sociale ed economico, né da quello politico e culturale. È piuttosto un mosaico di gruppi sociali con interessi, occupazioni e stili di vita diversi.

    Anche dal punto di vista ideologico e culturale la borghesia appare molto più incerta e fragile della nobiltà che l’ha preceduta come classe egemone. Del resto, nei confronti della nobiltà che, seppure non più al riparo da confini cetuali giuridicamente definiti, mantiene un ruolo economico, politico e sociale di primo piano, le borghesie europee nutrono sentimenti ambivalenti. La consapevolezza della propria forza economica e dei propri valori – il lavoro, la responsabilità individuale, la parsimonia – non riesce infatti ad aver ragione di una secolare subalternità psicologica. Per la maggior parte dei borghesi europei, anche se non per tutti, lo stile di vita nobiliare è pur sempre considerato come un traguardo da raggiungere e un modello da imitare, più o meno goffamente.

    D’altra parte, a riavvicinare sul piano ideologico, culturale e politico, borghesie e aristocrazie europee, contribuisce non poco la minaccia, reale o simbolica, del nuovo protagonismo delle classi popolari: proletari industriali, artigiani urbani tradizionali e anche contadini.

    In definitiva, stretta fra l’incipiente ribellione delle masse (Ortega y Gasset) e un tenace "potere dell’ancien régime" (Mayer), incrinato ma non abbattuto, la presunta egemonia borghese appare insicura e precaria.

    Il secolo del progresso?

    La nozione dell’Ottocento come secolo della borghesia è indissolubilmente legata a quella dell’Ottocento come età del progresso. Positivismo, storicismo idealista, storicismo marxista erano accomunati – ha scritto Claudio Pavone – dall’idea del progresso, garantito dallo sviluppo della scienza e della tecnica nel primo caso, dalla crescita dello Spirito su se stesso nel secondo, dallo sviluppo delle forze produttive e dalla lotta di classe, necessario preludio del regno della libertà, nel terzo. Secondo la lettura prevalente, questa fiducia nel progresso si sarebbe incrinata, nei piani alti della cultura, solo nell’ultimo quarto del secolo, per finire poi travolta dalla catastrofe della Grande Guerra.

    In realtà questa ottocentesca fede trasversale nel progresso è forse meno salda di quanto non appaia. Per trovare chi nutre dubbi sulla bontà delle vertiginose trasformazioni in atto e sulle magnifiche sorti e progressive del genere umano non occorre aspettare il decadentismo fin de siècle o essere dei reazionari amareggiati. Certo, i progressi scientifici, tecnici ed economici, e poi anche quelli sociali, sembrano giustificare l’ottimismo razionalista del secolo precedente, anzi, come abbiamo visto, vanno ben oltre. Ma in realtà sono proprio queste sconvolgenti trasformazioni a generare inquietudine e disorientamento. E non si tratta solo di preoccupazioni legate agli effetti non intenzionali e talvolta perversi della grande trasformazione, come la conflittualità sociale o l’orrore degli slums industriali.

    Ad alimentare l’inquietudine è la sensazione che il mutamento, che il Settecento aveva creduto di potere progettare razionalmente, sia in realtà imprevedibile e ingovernabile. Il tempo storico subisce un’accelerazione senza precedenti che apre una frattura fra il passato e il presente: i giorni di ieri – scrive Lamartine – appaiono già sprofondati nel passato. La grande trasformazione, rappresentata dall’avvento della società industriale e almeno tendenzialmente democratica, ha condotto l’umanità in una terra incognita nella quale nulla di ciò che è stato ereditato dal passato – per secoli fonte di senso e legittimazione – aiuta a comprendere e a muoversi nel presente e per questo la mente cammina nelle tenebre (Tocqueville). Questa perdita di leggibilità del mondo e il venire meno dei tradizionali indicatori di certezza è forse l’elemento che più d’ogni altro – fabbriche, treni, macchine a vapore, movimenti di massa ecc. – rende l’Ottocento un secolo contemporaneo.

    Dall’Impero napoleonico al ritorno della rivoluzione

    L’Europa di Napoleone

    Luigi Mascilli Migliorini

    Nel corso del quindicennio napoleonico l’Europa assiste a un processo di aggregazione territoriale e di ammodernamento amministrativo che in parte risponde alla nuova ispirazione dell’età rivoluzionaria e in parte al disegno personale di Napoleone. La confluenza di motivazioni assai diverse in questo processo ne determina il finale fallimento, ma anche la sopravvivenza degli aspetti più propriamente innovativi.

    Il progetto napoleonico

    Già nel corso della prima campagna d’Italia è evidente come l’allargamento dell’orizzonte rivoluzionario oltre i confini della Francia e l’idea di affratellare i popoli europei nei nuovi ideali di libertà e di eguaglianza vada mescolandosi con un disegno espansionistico, erede in parte dell’antica politica francese e in parte delle nuove ambizioni di Napoleone. Già nelle complicate trame diplomatiche che portano – con il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) e gli accordi di Rastatt – al rimaneggiamento della carta politica dell’Italia e della Germania e, successivamente, nella campagna d’Egitto appare chiaro che è di nuovo in atto un confronto tra le grandi potenze europee che rimette ancora una volta in discussione gli equilibri continentali. L’Inghilterra, l’Austria e la Russia si presentano, quindi, come interlocutori e avversari di una Francia che, superata la crisi della Rivoluzione francese, si ripropone con quella vocazione egemonica a essa appartenuta per tutto il corso dell’età moderna e particolarmente durante il regno di Luigi XIV. Anzi, le forme assunte dallo sviluppo economico nel corso del XVIII secolo ampliano le prospettive del conflitto al di là dei confini europei e trasformano apertamente il contrasto tra Francia e Inghilterra (già rivelatosi con la guerra dei Sette anni) in una rivalità che ha per oggetto l’espansione coloniale e il controllo dei traffici extraeuropei. Questo è il senso della singolare impresa egiziana e questo, soprattutto, è il significato del disegno imperiale che Napoleone impone alla Francia e all’Europa all’indomani del fallimento dell’assai precaria pace conclusa ad Amiens con la Gran Bretagna nel 1802.

    Infatti, al di là dei palesi motivi di ordine interno, la nascita dell’Impero (1804) risponde all’esigenza di una forte e ampia unità territoriale che sia in grado di assicurare – oltre a un sufficiente respiro economico – una forte coesione politica e militare nel momento in cui la natura globale e planetaria del conflitto con l’Inghilterra assume il suo massimo rilievo.

    All’impero propriamente detto – i cui confini si mantengono d’altronde estremamente mutevoli, seguendo le alterne vicende della diplomazia e delle guerre – si aggiunge una costellazione di Stati a esso legati ed essi pure assai variabili nel corso del tempo, alla cui guida vengono posti uomini che godono dell’assoluta fiducia di Napoleone e spesso suoi diretti congiunti, in una strategia accusata spesso di puro nepotismo familiare, ma che più in generale può essere giudicata come un modo ragionevole per assicurarsi la fedeltà delle diverse articolazioni del sistema imperiale. Il blocco continentale, adottato a partire dal novembre del 1806 e con il quale si intende impedire ogni relazione commerciale con l’Inghilterra, in quanto vieta l’approdo di qualsiasi nave proveniente dall’Inghilterra nei porti della Francia e dei suoi alleati, rappresenta la traduzione di questo disegno politico sul piano della vita economica. Al blocco viene affidato infatti un duplice compito: da un lato creare un grande mercato europeo protetto, avviando processi di modernizzazione imprenditoriale che si giovino anche del diretto aiuto dello Stato e delle sue committenze, dall’altro piegare l’industria inglese, sottraendole il naturale sbocco sul continente.

    In questa prospettiva le guerre combattute con le potenze continentali, e soprattutto con Austria e Russia, sembrano dettate dal desiderio d’integrare anche queste potenze nel sistema imperiale, mentre la lotta con la Gran Bretagna, diventata sin dal 1806 l’anima e il motore economico delle coalizioni antifrancesi, assume caratteri crescenti di reciproca irriducibilità e si risolve soltanto nella crisi militare che conclude il progetto napoleonico.

    L’integrazione amministrativa

    Se il disegno politico-territoriale e quello economico tramontano con l’Impero napoleonico, non altrettanto succede con i mutamenti amministrativi e istituzionali, dove Napoleone dimostra di saper cogliere i caratteri fondamentali della Grande Rivoluzione. È nell’ambito amministrativo e istituzionale, infatti, che il tentativo napoleonico di dare unità all’Europa nel segno dell’egemonia francese ottiene i suoi risultati più significativi e storicamente duraturi, raggiungendo infine anche quegli Stati non immediatamente toccati dalle sue conquiste militari. Quasi ovunque nell’Europa napoleonica scompaiono le ultime vestigia della feudalità, e con esse quelle molteplici forme di rappresentanza e di giurisdizione per ceti che avevano caratterizzato la società per ordini dell’ancien régime. In Germania, in particolare, la dissoluzione del plurisecolare Sacro Romano Impero e la semplificazione della sua variegata mappa politica determinano le condizioni per la modernizzazione economica e istituzionale dell’Europa centrale.

    La generalizzata adozione nei territori dell’impero – come negli Stati alleati – del Codice civile, elaborato in Francia già nei primi mesi del 1804 e nel quale trovano concreta affermazione i principi dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e del diritto alla proprietà, segna il momento di maggiore rottura rispetto al passato e, dunque, il momento nel quale l’Europa comincia a riconoscersi in una nuova e comune civiltà delle istituzioni e delle forme giuridiche. A questo contribuisce anche la nuova fisionomia dei poteri amministrativi che riproduce su scala continentale lo schema delineatosi in Francia nel periodo rivoluzionario e portato a compimento da Napoleone. Il dipartimento diventa allora la fondamentale articolazione territoriale dello Stato e su di esso veglia il prefetto, funzionario di nomina governativa chiamato a rappresentare il potere esecutivo in provincia. Al prefetto fanno poi capo i diversi esponenti, a livello locale, delle principali amministrazioni dello Stato, dalle finanze alle opere pubbliche e alla scuola, secondo un modello fortemente centralizzato volto ad assicurare il massimo controllo pubblico sulla vita civile. L’Europa vede, così, semplificarsi o scomparire per sempre il caotico sovrapporsi di competenze e poteri burocratici e si ritrova, alla fine di quegli anni, assai più simile nelle sue parti di quanto fosse alla vigilia dell’avventura militare napoleonica. Un ulteriore elemento di omogeneità è dato, del resto, proprio dall’estensione della coscrizione obbligatoria, secondo il modello della Francia rivoluzionaria, resa necessaria dal continuo succedersi di guerre. L’esercito, formato da tutti i cittadini e non più legato nelle carriere a privilegi di rango, diventa un potente fattore di amalgama sociale, inserendosi progressivamente in quell’universo di valori e di istituzioni tipici dell’Europa borghese nata negli anni di Napoleone.

    La circolazione delle idee

    L’Europa di Napoleone è anche l’Europa di Hegel, di Goethe e di Beethoven, un continente cioè nel quale comincia a intravedersi, attraverso il declino della grande cultura illuminista, la vigorosa stagione del romanticismo. L’esperienza napoleonica, in ciò che essa significa sul piano dell’eccezionalità eroica, del culto delle passioni individuali, del sentimento di patria e di nazione, risulta decisiva per la formazione della cultura romantica. Questi valori circolano, affidati talvolta a esuli politici o più spesso a quegli stessi militari che le avventure della guerra disperdono ai quattro angoli del continente e solo in parte sono il risultato di una politica consapevolmente voluta da Napoleone attraverso la creazione di istituti e accademie strutturate sull’esempio francese dell’Institut de France e delle Grands Écoles, dal momento che in questi – soprattutto durante gli anni dell’impero – prevale un modello classicista in contrasto con le nuove sensibilità del tempo.

    Tuttavia, il risveglio delle nazionalità e delle culture nazionali, che caratterizza la nuova Europa romantica, se da una parte è frutto delle novità che la Francia rivoluzionaria esporta ovunque con le vittorie napoleoniche, d’altra parte costituisce anche la reazione a ciò che di oppressivo e di omologante quelle vittorie vogliono imporre a popoli dotati di un’identità faticosamente scoperta che viene ora tenacemente difesa.

    Rimandi

    Volume 56: La Francia: come nascono le rivoluzioni

    Volume 56: Termidoro e Direttorio

    Volume 56: La rivoluzione in Europa

    Volume 59: Jacques-Louis David

    Le guerre napoleoniche

    Il crollo dell’Impero napoleonico

    Il Congresso di Vienna e l’assetto politico dell’Europa

    Costituzioni e costruzione dello Stato liberale

    Le codificazioni del diritto civile

    Le guerre napoleoniche

    Luigi Mascilli Migliorini

    Le guerre napoleoniche ereditano alcuni caratteri propri della Rivoluzione francese, quali lo slancio patriottico e l’energia militare, ma sono soprattutto il risultato della genialità militare di Napoleone. Grazie anche al modo in cui esse vengono presentate nei celebri bollettini dell’armata e raccontate poi dal loro principale protagonista negli anni dell’esilio, tali guerre assumono un valore epico, divenendo spesso fonte di ispirazione per la cultura romantica.

    Le campagne della giovinezza

    Nel loro impetuoso succedersi, le guerre napoleoniche rappresentano un grande ciclo leggendario – forse l’unico dell’età moderna – tante volte riproposto dalla narrativa romantica (da Balzac a Stendhal a Hugo) che ad esso attinge costantemente come fonte di ispirazione. Proprio Stendhal nella sua Vita di Napoleone ricorda addirittura che nessun generale dei tempi antichi e moderni ha vinto tante grandi battaglie in così poco tempo con mezzi così scarsi e su nemici così potenti, mettendo così in luce una singolare capacità militare che non resta circoscritta soltanto alla leggenda romantica. I grandi scrittori di strategia, come lo svizzero Antoine Henri Jomini e ancor più il tedesco Karl von Clausewitz, la cui opera principale – Della guerra, apparsa postuma nel 1832 – può leggersi come un lungo commento all’epopea napoleonica, considerano la tecnica adottata da Napoleone nel condurre le campagne e nell’ingaggiare le battaglie il punto di partenza della forma moderna di guerra. Senza nascondere il notevole rinnovamento della scienza militare, operante già nell’Europa del Settecento, e l’importante introduzione della coscrizione obbligatoria ai tempi della Rivoluzione francese, Jomini e von Clausewitz sottolineano l’enorme novità con cui Napoleone interpreta questi elementi, grazie a un’inarrivabile capacità d’intuire i punti di debolezza dell’avversario e di eseguire con rapidità mosse impreviste in grado di disorientare il nemico fino a costringerlo alla resa.

    Le attitudini di Napoleone si rivelano già nelle prime campagne – quelle d’Italia e quella d’Egitto – che per molti aspetti rappresentano uno dei momenti più felici del quindicennio napoleonico. Lodi, Rivoli, le Piramidi e Marengo costituiscono infatti il modello di vittorie ottenute grazie al coraggio dei singoli e all’entusiasmo collettivo. In qualche modo, tuttavia, esse sono ancora figlie di quel patriottismo rivoluzionario che nutre abbondantemente di sé i famosi bollettini, nei quali Bonaparte narra in forma epicamente retorica lo svolgimento delle imprese dell’armata.

    Il sole di Austerlitz

    La conclusione della pace di Lunéville (1801) con l’Austria e, successivamente, la pace di Amiens (1802) con l’Inghilterra aprono un breve periodo durante il quale sembra che il conflitto sorto in Europa tra la Francia rivoluzionaria e le grandi potenze depositarie dei valori e degli interessi dell’ancien régime possa dirsi davvero esaurito. La rottura di questo equilibrio e la ripresa delle ostilità con la guerra del 1805, convenzionalmente detta della Terza Coalizione, rappresentano una questione storica ancora insoluta. Per un verso, infatti, la Gran Bretagna in questo periodo continua a veder minacciata la propria egemonia politica e commerciale dalla dinamica politica europea della Francia di Napoleone, dall’altro l’imperatore francese è da subito consapevole di quante difficoltà e insidie accompagnino l’attuazione del suo disegno di affermazione continentale. È dunque difficile decidere se la ripresa della guerra sia dovuta all’irriducibile ambizione di Napoleone o alla non meno irriducibile ansia di egemonia inglese e di conservazione russa e asburgica. Probabilmente, il senso della rottura dell’equilibrio – del resto assai precario – raggiunto con le paci di Lunéville e di Amiens va cercato nell’incompatibilità profonda dei reciproci interessi delle potenze europee.

    I rapporti di forza, in partenza numericamente sfavorevoli per Napoleone, lo inducono a tentare di separare politicamente gli avversari, cercando in particolare di non veder mai riunite tutte insieme e contemporaneamente contro di sé le tre potenze continentali: l’Austria, la Russia e la Prussia. Questa linea di condotta si accompagna, naturalmente, alla tempestiva esecuzione di un disegno militare che nel solo mese di ottobre del 1805 – con la vittoria di Eichingen e la capitolazione di Ulm– porta Napoleone a raggiungere Vienna, occupata dalle truppe francesi il 13 novembre.

    La successiva battaglia di Austerlitz, combattuta il 2 dicembre, rimane per genialità di visione strategica uno dei momenti più alti dell’epopea napoleonica: un esercito di 100 mila uomini [...] è stato in meno di quattro ore distrutto o disperso, afferma il bollettino di quella giornata. In effetti mai come in questo momento si vede la radicale distanza di due epoche, ancor più che di due eserciti, che separa i risoluti soldati della nuova Francia dalle lente e mal disposte truppe degli antichi Stati.

    Vittorie e resistenze

    La dissoluzione del Sacro Romano Impero, quale conseguenza della pace di Presburgo (26 dicembre 1805), e la successiva nascita (luglio 1806) della Confederazione del Reno infondono nuovo dinamismo politico e ideale al mondo germanico, inducendo la Prussia a entrare con l’Inghilterra, la Russia e la Svezia nella cosiddetta Quarta Coalizione. Del resto, la sconfitta subita a Trafalgar dalla flotta francese nello stesso anno di Austerlitz, conferma la supremazia britannica sul mare e rafforza il proposito della potenza inglese di non consentire alcun equilibrio sul continente senza un sostanziale ridimensionamento delle ambizioni napoleoniche, che si manifestano nuovamente nei primi mesi del 1806 con l’attribuzione ai due fratelli Giuseppe e Luigi Bonaparte rispettivamente del trono di Napoli e di quello d’Olanda. Il successo militare di Napoleone, con la grande vittoria di Jena (1806), non è meno rapido di quello ottenuto l’anno precedente. L’accanimento dei successivi combattimenti di Eylau, tuttavia, mostra precocemente che importanza abbia, nella resistenza antifrancese, il fatto di combattere in difesa della propria patria contro un nemico che sembra ormai inseguire solo un disegno universalistico o ancora peggio personalistico di dominio. Inoltre, l’adozione del blocco continentale nel corso di quella campagna va chiarendo il senso di una lotta complessiva per nuovi equilibri in Europa e ciò aggrava indubbiamente le difficoltà di Napoleone nel ricercare possibili alleanze, o almeno nell’evitare il coalizzarsi delle forze tra le potenze continentali. L’alleanza tra Russia e Prussia sopravvive, infatti, sia alla sconfitta di Jena che a quella di Eylau e solo la battaglia di Friedland induce lo zar Alessandro I Romanov a concludere la pace di Tilsit (1807). Sancita con grande sfarzo e con l’esibizione di reciproca stima tra i due sovrani, la pace viene allora salutata come il momento di stabilità più autentico dell’avventura napoleonica.

    Francia e Russia sono in grado, in effetti, non solo di garantirsi l’un l’altra, ma anche d’imporre ai rispettivi alleati un duraturo equilibrio di forze. Da questo quadro, tuttavia, continua a rimanere largamente estranea l’Inghilterra che, attraverso il Portogallo e la Spagna, può violare il blocco economico: Napoleone interviene allora nella penisola iberica, turbando il recente equilibrio, tanto faticosamente raggiunto.

    Rimandi

    Volume 56: La Francia: come nascono le rivoluzioni

    Volume 56: Termidoro e Direttorio

    Volume 56: La rivoluzione in Europa

    L’Europa di Napoleone

    Il crollo dell’Impero napoleonico

    Il Congresso di Vienna e l’assetto politico dell’Europa

    La Restaurazione

    Volume 64: Johann Gottlieb Fichte

    Volume 65: Egittomania e orientalismo

    Volume 67: Ludwig van Beethoven

    Il crollo dell’Impero napoleonico

    Luigi Mascilli Migliorini

    Con la resistenza spagnola all’occupazione francese si avvertono i primi scricchiolii dell’Impero napoleonico. Cresce il sentimento delle nazionalità oppresse, mentre sul piano economico è sempre più difficile conservare l’integrità del blocco continentale. La campagna di Russia è l’ultimo grande sforzo compiuto da Napoleone per dare solidità al proprio edificio politico: la rovinosa disfatta sancisce una fine che, con i Cento giorni e la sfortunata battaglia di Waterloo, si consuma tuttavia in una dimensione leggendaria.

    La crisi iberica

    Il Portogallo prima e la Spagna poi rappresentano i punti di maggiore debolezza nel sistema politico e soprattutto economico voluto da Napoleone con l’adozione del blocco continentale, che impedisce alle navi inglesi di accedere ai porti francesi e degli Stati alleati. I tradizionali legami commerciali con il Portogallo e la debolezza politica della Spagna garantiscono infatti alla Gran Bretagna un largo controllo delle coste iberiche, sulle quali sbarcare merci da lasciar poi circolare – spesso di contrabbando – sul continente. L’invasione del Portogallo alla fine del 1807 risulta inefficace quanto l’occupazione della Spagna che porta sul trono di Madrid il fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte.

    Anzi, da questo momento si scatena un’accanita resistenza della popolazione, scandita da episodi di grande ferocia e favorita anche dall’aspra configurazione fisica del territorio che comporta un crescente impiego di truppe e impedisce di fatto ai Francesi il pieno controllo della penisola. Questa resistenza trova le sue radici nella storia della società spagnola ed è alimentata dal sentimento di orgoglio nazionale e dall’avversione del clero cattolico per i miscredenti figli della Rivoluzione francese. In essa si avverte tuttavia il risvegliarsi di un sentimento diffuso anche in altre parti d’Europa di idealità patriottiche – in alcuni casi già liberali e democratiche – che mal si adattano al disegno napoleonico.

    La crisi che si apre in Spagna, inoltre, rimette in allarme le grandi potenze europee sui caratteri rigorosamente egemonici di quel progetto e ne fa trasparire le prime crepe anche sul piano strettamente militare, campo nel quale – fino a quel momento – Napoleone era apparso invincibile. Anche la grande ma sanguinosa vittoria di Wagram (1809) – preceduta dagli aspri combattimenti di Essling – che conclude la guerra della Quinta Coalizione aperta dall’Austria nella primavera del 1809, conferma una determinazione a resistere che si traduce in una rinnovata capacità militare dei suoi avversari. Il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa (2 aprile 1810), figlia dell’imperatore asburgico Francesco II, stupisce molti contemporanei che vi scorgono il tradimento della Francia rivoluzionaria e il suo inserimento nel sistema di relazioni dell’ancien régime o, all’opposto, un venire a patti con gli errori e gli orrori della rivoluzione, dettato solo da opportunità politiche. In realtà, accanto all’indubbio desiderio di legittimazione che muove il parvenu Napoleone a imparentarsi con una delle più grandi dinastie del continente vi è anche l’urgenza di dare stabilità – mediante una definitiva alleanza con l’Austria – a un sistema di equilibri tutt’altro che consolidato.

    La campagna di Russia

    Il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, presto seguito dalla nascita di un erede maschio cui viene attribuito il titolo di re di Roma, si accompagna alla rottura della pace di Tilsit con la Russia.

    Preparata a lungo, ma sorretta da un precario dispositivo di alleanze, la campagna di Russia mostra sin dall’inizio una pericolosa sproporzione tra gli obiettivi e le effettive possibilità della grande e composita armata – più di 600 mila uomini provenienti delle più diverse parti dell’impero e dell’Europa – messa in campo da Napoleone. Questa sproporzione diventa ancor più evidente quando i Russi, dopo i primi scontri sfavorevoli, abbandonano l’idea di affrontare il nemico in battaglie risolutive e iniziano una lenta ritirata: gran parte del Paese cade in mano ai Francesi, ma questi vengono insidiosamente attirati nell’incontrollabile vastità del territorio russo, alle porte della temibile stagione invernale. L’unica grande battaglia è quella di Borodino, un interminabile combattimento di 12 ore che si conclude con un’incompleta vittoria francese. Con la ritirata dell’esercito russo, infatti, Napoleone vede aprirsi la via di Mosca, ma sa bene che la vittoria non ha determinato niente di risolutivo, né sul piano diplomatico né su quello militare.

    Il 14 settembre 1812 i Francesi entrano in una Mosca spettrale, abbandonata dai suoi abitanti, e in quella stessa notte divampa un incendio che distrugge quasi totalmente la città – costruita in gran parte in legno – aggravando le condizioni e le prospettive dell’armata di Napoleone. Dopo il rifiuto dello zar a trattare la pace e l’imminente arrivo dell’inverno, Napoleone decide di abbandonare Mosca, ma, quando ciò accade – quasi a fine ottobre –, è già troppo tardi: incalzata dal nemico in un territorio ostile e sottoposta ai rigori crescenti del freddo russo, la grande armata francese si ritira tra sofferenze e perdite umane sempre maggiori. Il passaggio della Beresina (26-28 novembre 1812), avvenuto in una grande confusione, con il nemico ai fianchi, simboleggia il dramma di questa tragica impresa militare, in cui periscono non meno di 550 mila uomini e in cui si consuma irreparabilmente la fortuna di Napoleone.

    I Cento giorni

    Mentre Napoleone è a Mosca, e dunque quando ancora non è iniziata la ritirata, a Parigi il generale Malet prova a impadronirsi del potere, lasciando diffondere la falsa notizia della morte dell’imperatore. Questo tentativo di colpo di Stato, per quanto fallito, mostra l’instabilità delle fondamenta su cui, nella stessa Francia, poggia il sistema costruito da Napoleone.

    All’esterno, poi, affidato essenzialmente alla forza militare dell’esercito, il potere di Napoleone comincia a sgretolarsi non appena le conseguenze del disastro russo appaiono evidenti.

    Nei primi mesi del 1813, facendo leva su un sentimento di riscatto patriottico che anima il mondo tedesco, la Prussia promuove una nuova coalizione (la settima), a cui in agosto – su sollecitazione inglese – aderisce anche l’Austria. Una singolare Europa, nella quale interessi e protagonisti dell’ancien régime si trovano accanto alle nuove energie nazionali

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1