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Weird - romanzo breve (105 pagine) - Eventi paranormali in un penitenziario sono solo l'inizio di un disegno raccapricciante.


In un penitenziario si verificano eventi paranormali: apparizioni di ectoplasmi, piogge di sassi, sfere di fuoco, distorsioni spazio-temporali. Dietro a questi eventi c’è la regia di un occultista morto qualche mese prima in una cella dell’edificio. Scampato a una rivolta della popolazione carceraria, il protagonista scopre che il penitenziario sta precipitando lungo un tunnel dimensionale… Il disegno di un accordo segreto emerge nel corso di una cena. Riuscirà il protagonista a sopravvivere agli eventi?


Fabio Lombardi, avvocato penalista, vive e lavora a Rimini. Ha pubblicato racconti su Urania, Giallo Mondadori, Febbre gialla, Plot, sul settimanale tedesco Sieben-Tage e nelle antologie Nero italiano 27 racconti metropolitani (Oscar Mondadori), Millemondi Estate (Urania), Estate Gialla (Giallo Mondadori), Noir (Avvenimenti), Anime nere reloaded (Oscar Mondadori), 365 Racconti erotici per un anno (Delos Book), 365 Racconti horror (Delos Book), Sul filo del rasoio (Giallo Mondadori). Un suo racconto inedito, Truman, è stato finalista al premio Grado Giallo 2015. È entrato in finale al Premio Tedeschi 2021 con il romanzo giallo Condutture.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateFeb 22, 2022
ISBN9788825419450
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    Svan - Fabio Lombardi

    1

    Erano le dieci e mezzo del mattino, e io stavo seduto sui gradini, senza far nulla. Le gradinate di cemento salivano verso le mura del cortile per formare un anfiteatro intorno allo spiazzo centrale, come una prigione dentro alla prigione. Alcuni detenuti chiacchieravano, camminando avanti e indietro nel piazzale. Altri ascoltavano musica negli auricolari delle radioline. Un gruppo era impegnato in una partita di pallavolo sul campo sportivo. Qualche altro recluso (erano i più duri, gli ergastolani, che si tenevano a distanza dalla marmaglia) stava allo spaccio a sorseggiare l'infame broda scura che surrogava il caffè del mondo esterno. Dall'alto delle torrette, stringendo tra le mani i piccoli fucili a mitraglia, i secondini ci guardavano oziare al sole tiepido di aprile, che ogni tanto spuntava nel cielo grigio.

    Allungai le gambe sulla gradinata. Avevo nella tasca dei jeans un romanzo di fantascienza e cercavo di leggerlo lentamente, perché non era facile trovare libri decenti nella biblioteca del carcere. Il libro era unto e bisunto, probabilmente letto e riletto. Lo tirai fuori, lo aprii, e in quel momento ebbi la netta percezione di uno sguardo che mi trapassava la schiena.

    Tenevo il libro alzato davanti alla faccia, pareva che fossi immerso nella lettura, così nessuno fece caso al fatto che restavo immobile come una statua di pietra. Era come se quello sguardo che mi bruciava nella schiena avesse disattivato le mie terminazioni nervose. Ordinai ai muscoli dorsali di scostare la schiena dal gradino e ai muscoli del collo di girare lentamente la testa, ma il mio corpo non obbedì. Ero paralizzato. Il sudore mi colava sul torace, bagnandomi la camicia.

    Sbirciai lo spiazzo, guardando al di sopra del libro. C'era il vecchio Bersani, un ladruncolo, che stava in bilico sul piede sinistro per staccarsi una gomma da masticare dalla suola della scarpa destra. C'era Tancredi, un camorrista, che conversava con un tizio grasso in tuta da ginnastica. C'era Coppa, un ragazzo condannato per rapina, che faceva rimbalzare una palla da tennis contro il muro di cinta. C'era il gruppo dei pallavolisti che tornavano dal campo sportivo. C'era il capannello dei mafiosi, che parlavano fitto tra loro, come se stessero architettando un colpo che potevano mandare a segno senza uscire dal penitenziario (ed era proprio così, probabilmente). C'erano le guardie carcerarie, con i loro inutili occhiali da sole a specchio, che ci sorvegliavano dalle torrette. Tutto normale. Una mattina qualunque nel cortile del San Vanelio.

    E poi c'ero io, seduto sui gradini, con la faccia nascosta dietro la copertina di un libro, pietrificato da uno sguardo sconosciuto che mi trapanava la schiena. Ci siamo, pensai. Mi ero illuso che gli altri detenuti non fossero pericolosi, invece adesso qualcuno alle mie spalle cercava rogne. Avrei voluto sprofondare nel cemento, scomparire. E provavo il desiderio di voltarmi, con lentezza, con indifferenza, per scoprire chi mi stava osservando così intensamente.

    Come potevo avvertire quello sguardo? Come lo percepivo? Quale dei miei cinque sensi me ne trasmetteva l'intensità? Furono queste riflessioni a tranquillizzarmi. Assurdo, pensai. Non c'è nessuno dietro di me.

    Abbassai il libro, lo richiusi e me lo infilai di nuovo nella tasca dei jeans. Forse voltarsi era un errore. Se davvero qualcuno mi stava fissando, incrociando i suoi occhi avrei gettato le basi di un possibile scontro personale. Ma ero curioso di sapere. Mentre giravo la testa, il cuore mi batteva nel petto come se cercasse di sfondare la gabbia delle costole. Una goccia di sudore m'inumidì un ciglio e scivolò nell'occhio destro, offuscandomi la vista per un attimo. Alzai una mano per asciugare il ciglio, e in quell'istante vidi che cosa stava alle mie spalle.

    Era un uomo anziano, massiccio, con le guance cascanti e il viso afflosciato dalle rughe e gli occhi piccoli, porcini, duri e brillanti come gemme in una maschera di cera. Aveva i capelli grigi arruffati e le mani incrociate all'altezza del petto e mi fissava con odio, come se io fossi la causa dell'orrore che gli marchiava i lineamenti sfatti. Mi fissò per un istante interminabile, uno sconosciuto in giacca nera e pantaloni a righe sottili, serrando le mani sul petto con tanta forza che vidi le nocche impallidire e le articolazioni diventare rosse. Un anello che portava al mignolo della sinistra luccicò, raccogliendo un raggio di sole, poi l'apparizione cominciò ad assottigliarsi, perdendo consistenza, divenne bidimensionale come una sagoma di cartone, e mentre lo sconosciuto scompariva la corrente di odio nei suoi occhi mi afferrò, trascinando una parte di me stesso nel varco che si richiudeva.

    Conficcai le unghie nel gradino di pietra, e il dolore dell'unghia del pollice che si spezzava mi ricondusse alla realtà. Avevo i capelli fradici di sudore e il respiro affannoso. Calmati, pensai. Non è successo nulla. Era soltanto un'allucinazione.

    Mi alzai. L'ora di aria stava terminando e i detenuti cominciavano ad avviarsi verso il corpo centrale dello stabilimento. Sulle torrette, le guardie avevano alzato i fucili, per essere pronte all'eventualità che uno di noi si rifiutasse di tornare in cella. Cadeva qualche goccia di pioggia, segnando macchie scure sul cemento.

    Cominciai a discendere i gradini. Ero l'ultimo rimasto nel cortile. Una delle guardie, Errani, mi stava facendo cenni bruschi con la testa. Annuii, affrettandomi.

    Quando fui nel piazzale, costeggiai la base della gradinata, per non dover passare accanto a Errani. Non volevo essere costretto a rispondere se mi avesse rivolto la parola.

    – Muoviti Crespi – gridò Errani, con un altro cenno brusco della testa rasata a spazzola. Aveva spalle gracili come quelle di un ragazzino e grosse mani nodose, troppo grosse per quei polsi sottili.

    Mentre mi univo agli altri detenuti, la pioggia iniziò a scendere più fitta nel cortile. La stessa pioggia che stava cadendo fuori da quelle mura, nel campo di sterpaglie che circondava il penitenziario e sull'asfalto della strada statale che passava a mezzo chilometro di distanza… la stessa pioggia che cadeva sui tetti delle case, sulle piazze, sulle vetrine dei negozi, sulle automobili parcheggiate lungo i marciapiedi, sulle finestre del mio appartamento, sui capelli di Teresa che usciva per andare a prendere il caffè della pausa mattutina nel bar di fronte all'ufficio…

    Sentii una fitta lancinante di nostalgia. Era come se l'apparizione avesse risvegliato il tormento di essere escluso dal mondo. La pena che mi restava da scontare mi sembrò all'improvviso molto lunga.

    Dividevo la cella con un tipo magro e silenzioso che si chiamava Schetti e con un piccoletto loquace conosciuto da tutti come il Grande Zoltan. Seduto sul bordo della sua branda, con un gomito appoggiato a un ginocchio e la schiena curva, Schetti era assorto nella complicata operazione di frugarsi nell'orecchio sinistro con l'unghia del mignolo destro, che teneva lunghissima al duplice scopo di pizzicare le corde di una chitarra scordata e di esplorare con cura le curve dei suoi padiglioni auricolari. Depose un giallo pezzo di cerume sulla ringhiera d'acciaio della branda e sollevò la testa per farmi un breve cenno di saluto, senza sprecare neppure una parola, come al solito. Ma ero contento di non dividere quei tre metri per quattro con due chiacchieroni contemporaneamente. Zoltan bastava e avanzava.

    Il Grande Zoltan stava affacciato al davanzale e studiava il cortile con aria accigliata. – C'è tensione – disse. Il volto rotondo luccicava e gli occhi mandavano lampi a intermittenza, come spie di un circuito elettrico sovraccarico. Erano occhi leggermente a mandorla, sottolineati da pieghe sottili che li ombreggiavano come righe di mascara. La bocca morbida e sensuale, quasi femminea, sorrideva con petulanza. Anche in prigione, Zoltan non aveva rinunciato al suo abbigliamento estroso. Si vestiva con larghi pantaloni a zampa d'elefante e camiciole fantasiose da zingaro, ma non correva il rischio di essere scambiato per una checca, per via della strana impressione di forza virile che dava il suo corpo grassoccio di un metro e sessanta di statura. Lo giudicavi un buffone, certo, ma solo se ci ripensavi quando lui era assente: in sua presenza, invece, quasi ti sembrava di crederci davvero ai suoi poteri magici. Quando pronunciava quelle frasi teatrali (c'è tensione nell'aria oppure ricevo vibrazioni maligne) ti veniva voglia di acquistare da lui qualche amuleto per proteggerti dal malocchio. Non stentavo a credere che avesse fatto una montagna di soldi con il suo santuario di magia, prima di finire dentro per aver fratturato il cranio di un tizio durante una rissa in un bar. Decisi che era meglio non raccontargli quello che mi era capitato nel cortile, perché altrimenti avrebbe inventato chissà quale idiozia occultistica per spiegare il fenomeno (aggiungendo, naturalmente, che lui avrebbe potuto evocare centinaia di simili spettri solo schioccando le dita).

    Mi sedetti sulla branda accanto a Schetti e gli allungai una gomitata nelle costole. Era un tipo simpatico, Schetti. Bastava prenderlo per il verso giusto.

    Notizie da casa? – domandai.

    Lui fece un lungo sospiro, sfregando il mignolo sul lenzuolo. – Caterina mi ha scritto – disse. Non ricordavo se fosse la sua ragazza o sua sorella. – Dice che appena esco c'è un lavoro per me nel negozio di suo padre. – Non era la sorella. – Vuole che ci sposiamo.

    C'è tensione – disse ancora Zoltan solennemente.

    Non volevo dargli corda, ma abbassai gli occhi sul lenzuolo della branda e vidi la striscia gialla tracciata dal mignolo di Schetti e rialzai gli occhi bruscamente, e così fui agganciato dallo sguardo ipnotico del mago. Sospirai. – Sono scariche magnetiche – dissi. – Sta arrivando un temporale.

    – Non lo sentite anche voi? – L'ometto si passò le mani sulla testa pelata, dardeggiando lo sguardo su e giù all’interno della cella. – È già una settimana che continuo a sentire qualcosa di molto strano nell'aria. Negativo. Molto negativo.

    Di che si tratta?

    Zoltan tirò una boccata dalla sigaretta. – Campi di forza. Non semplice elettromagnetismo ma vibrazioni di quella particolare qualità che si percepisce quando c'è qualcosa di ultraterreno. – Prese lo sgabello e si sedette di fronte a me. – Hai mai sentito parlare di Borley Rectory?

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