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Il silenzio di Annina
Il silenzio di Annina
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Il silenzio di Annina

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L’uomo può seppellire nell’abisso del proprio animo certi episodi, arrivando a dimenticarli? Possono certi oggetti evocare un passato volutamente avvolto dal silenzio, minacciando il presente?
La tranquilla e monotona vita torinese di Armando, ex giudice minorile in pensione, viene improvvisamente sconvolta dal ritrovamento inquietante di un’immagine relativa alla defunta moglie.
Da quel giorno l’esistenza dell’anziano protagonista sarà volta unicamente alla ricerca della verità; non si troverà da solo nelle sue investigazioni, ma un amico fraterno gli starà accanto, condividendo con lui momenti di tensione, risate, ragionamenti, viaggi, passeggiate e, non ultimo, partite a bocce.
LanguageItaliano
Release dateFeb 19, 2022
ISBN9788855392068
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    Il silenzio di Annina - Marina Maimone

    – I –

    L’abitudine di mettere la sveglia alle sette era ormai radicata in lui, ma avrebbe potuto farne a meno poiché, da anni, il suo orologio biologico funzionava perfettamente.

    Invece, per Armando Palumbo questo gesto aveva un significato particolare: lo faceva sentire vivo e pronto per una nuova giornata da progettare. Progettare che cosa? Da tempo le sue poche abitudini si ripetevano sempre uguali: la colazione, l’acquisto del giornale, la minima spesa, il frugale pranzo, il sonnellino, la sosta alla bocciofila per assistere a qualche partita e il ritorno a casa.

    La sera era dedicata alla cena, all’ascolto del telegiornale, alla lettura e alla musica. Qualche volta accettava l’invito di alcuni vecchi amici e allora le serate sembravano meno monotone.

    Armando era stato un bell’uomo, alto, longilineo, con una massa di capelli corvini che faceva risaltare i suoi occhi scuri, su una carnagione chiara; un naso importante, a volte accompagnato da un paio di baffi ben curati che mettevano in evidenza un sorriso affascinante.

    Fin da giovane aveva avuto cura del suo corpo: esercitava i muscoli in palestra, esibendoli con un pizzico di narcisismo alle ragazze che aveva l’occasione di conoscere.

    Un’altra passione che aveva coltivato fino a quando gli acciacchi dell’età non glielo avevano più consentito era il ballo, in particolare il tango: quella musica in cui tristezza e allegria, malinconia e voglia di vivere si mescolano in un tutt’uno, esercitava in lui un fascino particolare forse perché anche il suo carattere era così.

    Alternava periodi di grande simpatia e affabilità, con altri fatti di mutismo e di cupe riflessioni esistenziali, quindi non sempre era facile avvicinarsi a lui in quei momenti, anzi era proprio meglio non farlo e lasciarlo nel suo isolamento. Avrebbe scelto lui stesso, come se niente fosse, il modo per riallacciare i contatti con il mondo. La sensibilità e il suo cuore gonfio d’amore – come spesso dichiarava – lo portavano a non essere sempre compreso e apprezzato come si doveva, soprattutto da certe ragazze, per le quali la scelta dello smalto o l’acquisto di magliette all’ultima moda costituivano l’unico argomento di conversazione.

    Ancora oggi, malgrado i suoi settantatré anni, lo si poteva definire un bell’uomo, sempre molto curato nel vestire, stimato da tutte le persone del condominio in cui abitava, particolarmente per il suo modo di fare, fine ed educato, che gli aveva fatto guadagnare l’appellativo di gentiluomo del 6° piano.

    L’appartamento, in cui stava ormai dal 2007 – cioè da quattro anni – era stato acquistato dai genitori molti anni prima, con lavoro e sacrificio; rimasto vedovo, aveva preferito lasciare la sua bella casa ai piedi della collina torinese: troppi ricordi, troppo grande, troppo solitaria… troppo tutto!

    «Ritorno nel grembo materno» aveva detto un giorno ai suoi due figli per comunicare loro la scelta di vivere nell’alloggio dei nonni, ormai vuoto da anni, nel quartiere S. Paolo.

    Per loro andò bene così: sapere il papà a Moncalieri o a Torino non avrebbe fatto differenza.

    Marina viveva a Parma, sposata con un medico e senza figli; Fabrizio era a Milano, da solo, pilota d’aerei. Ci si sentiva al telefono sporadicamente. Quando c’era ancora la sua amatissima Anna, si andava a trovare i figli poi, però, Armando diradò quei viaggi, ridotto ormai ad affrontarli da solo.

    Nel condominio spesso gli si domandava il parere riguardo a scelte da affrontare: i suoi consigli erano tenuti in massima considerazione, vista la sua cultura. Era giudice e aveva esercitato presso il Tribunale dei minori di Torino.

    I suoi genitori erano saliti dalla Puglia quando Armando era ancora in fasce; la richiesta di manodopera nell’industria automobilistica torinese li aveva convinti, negli anni Cinquanta del dopoguerra, a cercar fortuna al nord, come facevano molte famiglie del Meridione e così Domenico e Carmelina vennero assunti alla catena di montaggio.

    Abitava a Torino da qualche anno anche una zia nubile, Beppa, che aiutò la coppia ad allevare Armandino. Lei lavorava presso una ditta di tappezzerie di cui occupava uno stanzone pieno di stoffe, dove troneggiava una macchina da cucire. L’assemblaggio dei pezzi per sofà e poltrone avveniva invece in un’altra area poco distante; lo svolgere il suo compito senza altri colleghi intorno le permise, quindi, di portare con sé il piccolo Armando sul luogo di lavoro.

    Il ragazzino non dimenticò mai i lunghi pomeriggi trascorsi là dentro: mentre zia Beppa, sempre intenta a cucire, con la testa china, gli lanciava solo delle occhiate, lui costruiva con la fervida fantasia che possedeva decine di storie inventate, che vedevano come protagonisti le pezze di stoffa, i rotoloni di filo, migliaia di bottoni, i rulli di bambagia. Vinceva così la noia e la tristezza, mentre fuori il clima grigio della città sottolineava, soprattutto d’inverno, la sua solitudine.

    Non potendo avere un dialogo né con la zia né con i genitori, che stanchissimi tornavano tardi la sera, imparò così a tenersi tutto dentro.

    I pochi amichetti della scuola, d’inverno, non avevano il permesso dei genitori per uscire e soltanto in primavera qualche partitella a calcio, nel cortile della casa con ballatoio di zia Beppa, gli faceva tornare il sorriso. Le lunghe estati afose trascorse all’oratorio – crescendo, aveva ottenuto l’autorizzazione a frequentarlo – gli consentirono nuove amicizie, sia maschili che femminili. Il confronto fra coetanei, però, non fu facile: spesso tornava a casa con un livido su un occhio o con un’espressione estasiata; non poche volte, verde di rabbia, rientrava verso sera e s’infilava in camera senza salutare nessuno. Quello che non sopportava erano le ingiustizie nei confronti di qualcuno più debole o più piccolo e allora, come un paladino, partiva alla difesa sferrando pugni e calci.

    Comprese, col tempo, che questo non era certamente il modo di fare giustizia o di ottenere qualcosa: senza dubbio dovevano esserci altre strade.

    Queste considerazioni, insieme a un episodio che lo coinvolse emotivamente, furono fondamentali per la scelta dei suoi studi. Nel primo anno di liceo venne ad abitare vicino alla zia Beppa una famiglia composta da un uomo e dai suoi due bambini di tre e cinque anni, orfani di madre. Il povero Gigi si spaccava la schiena di fatiche per garantire lo stretto necessario ai figli; un giorno, forse esausto per le numerose ore trascorse nel cantiere in cui lavorava, cadde dall’alto di un’impalcatura e morì. I due bambini, ormai soli al mondo, vennero inizialmente ospitati dal parroco della chiesa del quartiere, poi furono affidati a un orfanotrofio in attesa di essere adottati. Vennero quindi separati e affidati a due diverse famiglie, che vivevano in due differenti città. Armando non seppe più nulla sulla loro sorte, ma tutta questa vicenda, che lo toccò non poco, gli chiarì il percorso di studi che avrebbe seguito.

    Giunse il giorno della discussione della tesi di laurea; i genitori di Armando, con il vestito buono e la zia Beppa, agghindata a dovere con un completo di sua confezione, erano orgogliosi del loro ragazzo. La brillante carriera che seguì ne fu la conferma.

    – II –

    Torino, sotto la neve, assume un’atmosfera particolare, forse per l’architettura dei suoi palazzi: pare che il grigiore delle nebbiose giornate invernali venga spazzato, come per magia, e sostituito da una soffice coltre bianca. Anche i rumori delle strade risultano attutiti, mentre le voci della gente si percepiscono con maggiore chiarezza; sembra addirittura che l’espressione delle persone, solitamente di fretta e assorte nei propri pensieri, faccia trapelare un sorriso o un piccolo cenno di saluto.

    Armando, quel mattino del 1966 – era il giorno del suo ventottesimo compleanno – si stava dirigendo a passi veloci verso il Tribunale, situato in una stretta via del centro storico della città; si trovava già in cima alla scalinata che conduceva all’ingresso, quando sentì dietro di sé un rumore, accompagnato da un piccolo grido. Voltandosi, vide una ragazza che, scivolando sui gradini innevati, era finita a terra, con tutto il malloppo di fogli usciti da una cartella, compreso il contenuto della borsetta.

    «Accidenti!» disse lui. «Si è fatta male? Posso aiutarla?»

    «Grazie, ma… uh, che guaio! I documenti!» rispose, impacciata, la ragazza.

    Armando le offrì il braccio perché lei si rialzasse e, mentre stavano raccogliendo i fogli sparsi qua e là, anche lui finì a terra sulla fangosa scalinata.

    L’incidente terminò con una sonora risata e con un caffè nel bar vicino, per risistemarsi e pulirsi il cappotto prima di rientrare in Tribunale.

    «Non mi sono ancora presentato: mi chiamo Armando.»

    «Molto lieta, lei mi ha salvato. Io sono Anna, segretaria dello studio legale, nella via qua dietro. Stavo andando a consegnare dei documenti importanti e mi auguro di aver recuperato tutto, altrimenti…»

    La gioventù corre in fretta e, soltanto un anno dopo, divennero marito e moglie.

    Entrambi avevano compreso all’istante, quel mattino sulla scalinata, che erano fatti l’uno per l’altra e il tempo avrebbe dato loro ragione.

    Durante i tre anni successivi divennero genitori prima di Marina e di Fabrizio poi.

    Andarono a vivere in una bella villa sopra Moncalieri, dove trascorsero il periodo più felice della loro vita insieme.

    – III –

    Quando si conobbero là, sulla scalinata del Tribunale, Anna Bracco aveva 27 anni e viveva con i genitori in una piccola casa nel popoloso quartiere Barriera di Milano.

    Figlia unica, era nata nel 1939 in un paesino delle Valli di Cuneo dove il padre era proprietario di alcuni terreni e di una vigna; fin da piccola, aveva aiutato papà e mamma nei lavori dei campi, dunque le sue radici contadine le avevano insegnato l’amore per la terra, il senso pratico e la sopportazione delle fatiche. Non tralasciò, tuttavia, lo studio e ottenne il diploma di Segretaria d’azienda, che le permise di trovare un impiego presso uno studio legale quando, in seguito a delle vicissitudini, tutta la famiglia lasciò l’amato paese e si trasferì a Torino. Con grande rammarico, il padre vendette tutto e comprò una casetta nella periferia della città, nelle cui vicinanze la presenza di un minuscolo orto da coltivare gli faceva ricordare le sue origini.

    «I casi della vita!» era solito ripetere, scuotendo la testa, quando qualcuno gli domandava il motivo di quel trasferimento in città.

    Furono molto felici quando Anna annunciò loro la decisione di sposarsi e da quel giorno Armando trovò in quella famiglia stima, allegria, comprensione e affetto. Da suo suocero, Guido, imparò a giocare alle bocce e trascorsero insieme lunghe giornate partecipando a vari tornei. La nascita dei nipotini unì ancora di più le famiglie di Anna e di suo marito e i bambini poterono godere della presenza dei quattro nonni per tanti anni.

    Con il trascorrere del tempo, Armando e Anna furono considerati dagli amici la coppia perfetta: innamorati come il primo giorno, desiderosi sempre della reciproca compagnia ma, nello stesso tempo, capaci di lasciar spazio alle rispettive personalità. Nei momenti di malinconia cosmica di lui, lei sapeva di doversi mettere da parte, per poi ritrovarsi uniti.

    Una cosa sola Armando non aveva mai capito di sua moglie: capitava che si assentasse per un giorno intero, senza comunicare nulla, manifestando però grande nervosismo nelle ore precedenti. Tutto ritornava poi, miracolosamente, come prima. Per molte volte gliene chiese il motivo, senza mai ottenere una risposta precisa:

    «Nulla, nulla, non ti preoccupare. Sai, a noi donne capitano questi momenti».

    Finché il marito non fece più domande e imparò ad accettare; con la nascita dei bambini, però, queste assenze di Anna non si ripeterono più.

    Si trovarono sempre in accordo riguardo all’educazione dei figli e, quando questi lasciarono la loro casa per una vita indipendente, la coppia scoprì nuovi interessi nel viaggiare, nel giardinaggio e nella scuola di tango. Per lui, numerose furono le occasioni di incontrare altre donne – a causa del suo lavoro conosceva molte persone – ma Armando non ebbe occhi che per Anna per tutta la vita.

    – IV –

    Ai suoi sessantotto anni un infarto gliela portò via, così come un soffio: si trovò solo in quella grande casa dove ogni angolo rappresentava un ricordo. Incredulo, per giorni interi passava da una stanza all’altra senza un perché, alternando momenti di preghiera con altri di vuoto mentale, aprendo e richiudendo il primo cassetto del comò per respirare ancora quella fragranza di lavanda che Anna amava avere nella propria biancheria.

    I figli, che dopo il funerale della mamma gli rimasero accanto per alcuni giorni, si preoccupavano, sapendo di doverlo lasciare per ritornare al loro lavoro.

    «Andate pure. State tranquilli, mi riprenderò. Ora devo imparare a stare da solo» continuava a ripetere soprattutto a se stesso. «Ha imparato

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