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Il fascino dell'imperfezione: Dialoghi con Domenico Quirico. Interviste, racconti, documenti
Il fascino dell'imperfezione: Dialoghi con Domenico Quirico. Interviste, racconti, documenti
Il fascino dell'imperfezione: Dialoghi con Domenico Quirico. Interviste, racconti, documenti
Ebook423 pages5 hours

Il fascino dell'imperfezione: Dialoghi con Domenico Quirico. Interviste, racconti, documenti

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About this ebook

Un viaggio in un uomo che ha molto viaggiato. Cinque conversazioni, un unico intenso dialogo con il giornalista Domenico Quirico a partire dai temi che caratterizzano la sua odissea nel mondo contemporaneo: scrittura, guerra, migrazione, Storia, prigionia, dolore, paesaggio, fede. Attraverso i documenti, le fotografie e soprattutto le parole vive raccolte dall’autrice, Il fascino dell’imperfezione cerca di svelare la percezione originale di un narratore del nostro tempo, restituendo la sua testimonianza vissuta in drammatica presa diretta sugli avvenimenti storici più rilevanti degli ultimi trent’anni. Il tentativo di rimanere con l’uomo Quirico in quell’affascinante zona di imperfezione, erranza, incompiutezza che sembra innervare il nostro mondo.
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateFeb 17, 2022
ISBN9788816803305
Il fascino dell'imperfezione: Dialoghi con Domenico Quirico. Interviste, racconti, documenti
Author

Tiziana Bonomo

Ha lavorato a lungo nel marketing e nella comunicazione di grandi aziende internazionali. Negli ultimi anni ha fondato «ArtPhotò», con cui promuove e sperimenta progetti legati alla fotografia di documentazione e impegno sociale.

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    Il fascino dell'imperfezione - Tiziana Bonomo

    ATTUALITÀ INTERNAZIONALE

    © 2021

    Editoriale Jaca Book Srl, Milano

    tutti i diritti riservati

    Prima edizione italiana

    settembre 2021

    Redazione Jaca Book

    Impaginazione Paola Forini / Jaca Book

    Le immagini del libro sono

    per gentile concessione di Milla

    ISBN 978-88-16-80330-5

    Editoriale Jaca Book

    via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano

    tel. 02/48561520, 342 5084046

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

    Seguici su

    INDICE

    INTRODUZIONE

    ILA SCRITTURA. LA LETTURA

    IILA GUERRA. L’ACCOGLIENZA

    IIILA STORIA. L’EUROPA

    IVLA PRIGIONIA. LA VITA

    VIL PAESAGGIO. LA FEDE

    EPILOGO

    NOTE

    PROFILI BIOGRAFICI

    RINGRAZIAMENTI

    INTRODUZIONE

    Se non svelo subito il perché rischio di perdere la vostra attenzione.

    È un fatto di consapevolezza. La fotografia è la mia finestra, una finestra che cerco di tenere sempre aperta sul mondo – così vasto, così aperto e scoperto allo stesso tempo – con la speranza di vedere ciò che mi consente di diventare migliore, di intuire l’atteggiamento credibile da sostenere nella società in cui vivo, di comprendere come si muove l’umanità, di trovare me stessa, la mia vera identità in questo mondo complesso, in questa vita ferrosa. Ho a lungo nascosto a me stessa questa ricerca interiore pensando illusoriamente che le tante tappe superate della vita e i tanti ruoli di laureanda, dirigente, moglie, madre mi avessero modellato, disegnato come in un quadro di Renoir. Ma le conquiste, raggiunte sempre con fatica, che portavano con sé l’incanto e il disincanto di un benessere conquistato con rabbia, venivano spesso trattenute nel mio animo bisognoso di conferme e quasi mai volutamente condivise con altri per timore di mostrare la fragilità di una sensibilità nascosta, sepolta da ambizioni, convenzioni, luoghi comuni, conflittualità più o meno manifeste.

    Così è iniziata lentamente una ricerca nell’arte, nel reportage, nella letteratura. Un giorno, per caso, ho letto Esodo di Domenico Quirico: tutto il dolore sepolto si è rifatto vivo, quella voglia di sapere che credevo spenta ha mostrato di non essersi mai estinta. Mi sono commossa. La sua personale capacità di far capire i fatti, di mettere davanti argomenti profondi con la semplicità di chi sa esporre con convinzione e chiarezza, le sue sconvolgenti parole, hanno scavato nella mia coscienza fino a farmi realizzare per la prima volta quanto avessi smesso di prendermene cura.

    Ho capito che, se volevo riprendere il mio viaggio nella conoscenza, finalmente potevo farlo sulle orme di un grande narratore contemporaneo. Pazientemente, ho letto tutti i suoi libri, raccolto tutti suoi articoli, le interviste televisive, gli incontri e le lezioni magistrali e pian piano ho iniziato a prendere posizione. Se avessi letto prima i suoi libri, i suoi articoli, se avessi scoperto prima quanto possiamo imparare dalla Storia, forse avrei continuato a stare vicino ai bambini in ospedale, o su una nave con i migranti, o semplicemente qui, insegnando quanto sia buio e splendente il mondo. Ho intrapreso invece una strada diversa e solamente negli ultimi anni mi sono dedicata professionalmente alla passione di sempre: la fotografia.

    Della fotografia mi affascina il fatto contenutistico oltre che estetico, un linguaggio che esprime una certa sensibilità oltre che espressività, quella che spesso viene identificata come fotografia umanista. Ci sono reporter, tra i molti che ho conosciuto, che usano immagini o parole che vanno dritte al punto, toccano emozioni profonde, e, insediandosi stabilmente in una zona dell’essere umano da cui è difficile persino parlare, pongono con chiarezza alcuni interrogativi inaggirabili. Domenico Quirico è sicuramente uno di questi.

    Pochi sanno che due registi hanno già realizzato film su di lui. Paola Piacenza, regista di Ombre dal fondo del 2016, dichiara: «la personalità di Quirico è unica nel giornalismo italiano». Paolo Gonella, regista del documentario Domenico Quirico. Viaggio senza ritorno, del 2018, scrive: «non è l’esperienza professionale in sé di Domenico a renderlo un personaggio fuori dal comune ma la sua capacità unica di restituire con la forza delle parole esperienze estremamente difficili da raccontare». Concordo.

    Ecco allora la domanda che mi sono posta: perché il lavoro di Quirico non è noto come quello di tanti fotoreporter come Scianna, Saglietti, Pellegrin, Majoli? Egli è un grande intellettuale, un testimone la cui storia va ben oltre il noto sequestro da parte dell’Isis, un narratore che con il suo linguaggio offre l’occasione per molteplici riflessioni, eppure il suo vasto mondo di Storia, di guerra, di letteratura, di fede, ad oggi è ancora per la maggior parte inesplorato.

    Alcuni incontri sono fondamentali nella vita per maturare una coscienza collettiva, per acquisire piena consapevolezza di se stessi e del mondo con cui si è in rapporto e smuovere individualismi e indifferenza. All’inizio della nostra conoscenza conversavo con Domenico Quirico per un interesse del tutto personale. Ben presto, però, la qualità delle nostre conversazioni ha fatto nascere in me l’ambizione di farlo conoscere attraverso un libro. Così ho pensato di rendere alcuni pomeriggi passati con lui al caffè altrettante brevi interviste. Ho continuato a raccogliere le sue risposte e, quando gli ho proposto il libro, ha risposto di sì. Questa semplice conferma mi ha spinto a proporre le interviste in maniera diretta, con il fascino della sua parola e con le imperfezioni che la generano. Un collage che include anche testi già pubblicati di Quirico, perché penso siano proprio le sue parole che vadano lette per la prima volta o rilette con attenzione e profondità. Esse fanno da ponte tra il nostro mondo e quello che non conosciamo: che cos’è l’uomo se non dimostra di coltivare una coscienza collettiva per generare condivisione, scambio, dubbio e conferma? È qui che il linguaggio di Quirico aiuta a rendere fertile un terreno bisognoso di verità, di commozione, di compassione, di laica cristianità: una voce che sembra desueta eppure è alla base di una spinta per provare a fare qualcosa, per assumersi dei rischi e allontanarsi dai tanti fallimenti della nostra società.

    ILA SCRITTURA. LA LETTURA

    Il grande intellettuale è l’uomo delle sfumature, del grado, della qualità, della verità in se stessa, della complessità. Per definizione, per la sua stessa essenza, egli è anti-manicheo. Ora i mezzi dell’azione sono manichei perché ogni azione è manichea.

    André Malraux, La speranza

    Che strana sensazione di voragine, sentirsi rapire da una lucida verità che disorienta e ammalia. La verità Quirico l’ha vissuta come testimone di esperienze che aprono le porte su un mondo che non si vorrebbe conoscere. Per un attimo un lampo: l’impressione di aver colto che la paura non è nell’esperienza di vita vissuta, nelle strade dei migranti, sulla nave, nelle celle in Siria: non è quella la paura. È qualcosa di più grande: di un sistema malvagio che come un’ombra sembra avanzare per non farci più vedere la luce del sole. L’immaginazione dei bambini è comune quando si pensa al lupo, al cattivo, al male: come un’ombra gigante sul muro che avanza fino a schiacciare tutte le cose e la paura annienta il seguito della storia. Fortunatamente il lupo non c’è e quindi basta aprire gli occhi per non vedere più l’ombra.

    Quirico l’ombra l’ha vista ad occhi aperti rendendosi conto quanto male può fare: non solamente a lui ma al mondo intero. L’ha vista in quelli che ricevono i soldi dai migranti, negli scafisti che se ne fregano, negli europei che curano il loro piccolo mondo, nei siriani che l’hanno tenuto prigioniero. L’ha sentita nelle preghiere, nelle parole delle persone. Un’ombra che secca, inaridisce, asciuga la speranza. Quirico mi ha insegnato ad avvicinarmi alla mia piccola paura: di leggere, di sapere, di capire.

    L’ansia è preferibile calmarla spegnendo le luci. Invece con Quirico ho iniziato a riaccenderle e a leggere e a cercare di capire.

    DIALOGANDO SU SCRITTURA E LETTERATURA

    «Io adoro i mondi imperfetti, perché solo lì l’uomo può dare il meglio di sé». Così chiosa il suo intervento al Festivaletteratura 2017 Domenico Quirico, giornalista dalla lunga carriera in qualità di inviato estero per «La Stampa». Sin dal primo dialogo che abbiamo avuto il 19 luglio 2017 alle 17 presso la Caffetteria Mazzetti in corso Alfieri, ad Asti, mi sono rivolta a Quirico come giornalista, scrittore e narratore.

    Cosa accade quando inizi a scrivere?

    Per me è fondamentale avere l’incipit, l’inizio, sapere qual è la prima frase. Quindi io non ho problemi sia per un articolo, sia per un libro, sia per qualsiasi cosa. Poi viene come un fluire naturale. Se io non so come iniziare, non riesco ad andare avanti.

    Delle volte addirittura delle cose nascono dal fatto che so come cominciare. Ci sono dei magnifici inizi che non ho mai potuto usare perché poi non sono riuscito ad andare a fare le cose che…

    Te ne ricordi una?

    Bah, detto così su due piedi no ma, per esempio, se fossi andato in Afghanistan avrei cominciato dicendo: «Perché abbiamo perso questa guerra?», «Perché l’abbiamo persa?». Definitivamente, irrimediabilmente, sonoramente. Ecco di lì tac il pezzo afghano era già pronto, non avrei avuto paura a scrivere anche altre trecento righe. È sempre l’inizio che è fondamentale nelle cose e poi, certo ci deve essere un’idea, una materia, non è che si può scrivere sul niente, però è importante sapere come vuoi cominciare, perché nell’inizio c’è il ritmo, la struttura, la noce del pezzo o dell’articolo o del libro.

    A proposito di incipit, in questo caso sei partito da una storiella popolare?

    C’era una volta un contadino che voleva eliminare i topi che lo tormentavano. Decise per trasportarli di chiuderli in un sacco di juta ma una volta che fu chiuso i topi ne rosicchiarono il fondo e fuggirono. Disperato il contadino decise di rivolgersi a Gheddafi. Il Colonello gli ordinò di richiudere i topi in un altro sacco, lo afferrò e lo scosse violentemente dall’alto in basso dirigendosi verso una cisterna colma di acqua. Vi gettò il sacco e annegò i topi. (Storiella popolare libica).

    In questo altro caso:

    Per il mondo che ha stoltamente divorato le foreste è forse il simbolo più smagliante della trasformazione del senso di colpa in lusso e consumo: l’albero che diventa unico, un oggetto d’arte da comprare per privatizzarlo, nasconderlo nel proprio giardino e goderne con lussuria solitaria ed esclusiva.

    D. Quirico, Il giardino degli alberi firmati, da Parigi per «La Stampa», 16 maggio 2010¹.

    In quest’altro ancora:

    Il tempo in cui bisognava scegliere tra il pane senza libertà e la fame nella libertà, forse, è finito.

    D. Quirico, L’Africa possibile. In attesa delle Primavere che hanno già cambiato i Paesi arabi, «La Stampa», 28 marzo 2013².

    Quindi anche nella tua esperienza giornalistica è importante l’inizio.

    Io parlo di scrittura, è una cosa diversa. Poi in altri ambiti magari ci sono delle cose che iniziano senza sapere cosa può succedere. Però nello scrivere, secondo me, è fondamentale sapere le prime cinque righe. Tutti i miei libri nascono dalle prime cinque righe che avevo prima, che avevo già. Ma anche gli articoli. C’è una cosa che mi sta nella testa, che mi gira, un particolare che mi ha colpito, una domanda che mi sono fatto, prima ancora di arrivare al posto, di iniziare a scrivere. Quello è l’amo a cui appendere la trota.

    Come descriveresti la tua scrittura?

    Bah, domanda complicatina. La descriverei: strabordante, incontinente.

    Perché tu sei così.

    Boh, sì, perché mi piace scrivere così. Non c’è nessuna altra ragione. Non ho fatto una scelta tra uno stile e un altro stile.

    Quindi tu sei così?

    Sì, se la scrittura è lo specchio di quello che uno è: sì. Probabilmente sono così. Non amo il minimalismo, amo il barocco, mi piacciono i palazzi seicenteschi, i trompe-l’oeil, le scenografie manualistiche, la magia spesso anche del falso, dell’inganno.

    Dell’apparenza?

    L’apparenza è un’altra cosa, se vuoi è anche quello, sì. Alcune volte vedo delle chiese con delle prospettive straordinarie costruite mentalmente. Uno ha l’impressione di ascendere al cielo insieme alle figure della volta, trovo fantastici i particolari. Questo mi piace. Ma poi non nego che sia meglio scrivere in un altro modo. A me va bene così. Mi piace scrivere così. Non mi sono messo a scegliere tra uno e l’altro.

    Come si concilia questo modo di essere razionali, lucidi, sempre controllati con la passionalità, con l’amore per un’estetica anche ridondante, anche per un certo romanticismo?

    Il romanticismo è un movimento che non mi piace molto. Manierismo e barocco sono due cose molto diverse dal romanticismo. Molto diverse. Boh, le due cose mica sono inconciliabili: uno può essere manierista in quanto lucido. È un gioco di parole. Perché dovrei essere incontinente e anche o passionale o smodato oltre che nello scrivere anche nel vivere?

    Un esempio.

    In questa terra dove la fantasia degli antichi poeti poneva la paurosa geografia dell’accesso agli inferi, al mondo rovesciato e intangibile dei morti, ben segnalato appunto da vapori e lapilli, è come se una mitologia maledetta di colpo si fosse materializzata, combinandosi con i nostri moderni demoni ambientali, indifferente al tempo. Vado per cercare una risposta al mistero.

    D. Quirico, Itri, «La Stampa», 8 settembre 2019³.

    Dall’esempio preso da uno dei tuoi innumerevoli articoli – quello su Itri – mi sembra che la tua scrittura abbia uno stile preciso, riconoscibile, che esce da una certa medietà-uniformità linguistica, che caratterizza la scrittura degli ultimi anni. Possiamo dire un linguaggio colto che attinge spesso alla letteratura degli antichi greci e latini? Possiamo dire lo stile Quirico?

    Per carità di dio! Non c’è nessuno stile Quirico! Lo stile è naturalezza e istintività. Per uno che scrive sui giornali che tempo c’è per rileggere, per smussare definire, uniformare? Bisogna scrivere come si parla: istintivamente, altro che stile. Quello è un arnese da letterati.

    Quindi la scrittura consente di far emergere una parte che…

    Sì, la scrittura è una tecnica, non è solo espressività. Bisogna avere una tecnica per scrivere, ci sono delle regole, ci sono dei rumori, ci sono delle sintassi. Oggi scrive gente che una volta doveva scrivere il documento d’ufficio, il verbale dell’amministrazione di condomino.

    Sì, non ne faccio una questione grammaticale ma di carattere, di persona. Mi sembra chiaro ascoltando i tuoi interventi.

    Beh, diciamo che sono tutt’altro che controllati, direi spesso non controllati. Quello che dico va al di là della prudenza, di quello che suggerirebbe il bon ton corrente. Se fossi così controllato, sempre lucido, come dici tu, avrei fatto carriera, sarei vice direttore di qualcosa, non lo so… corrispondente da qualche paese in giro per il mondo, invece sono qua a Govone. Evidentemente non sono così sempre capace di prendere la via giusta, la misura.

    Preferisci parlare o scrivere?

    Preferisco scrivere.

    Perché?

    Perché lo posso toccare. Alcune volte mi dicono è partito il televisore, la registrazione, la telecamera. Rifacciamo. Io non riesco a rifare, c’è qualcosa che non puoi riprendere nelle parole. Nella scrittura è diverso.

    Scrivi di tante cose anche se il pubblico ti conosce principalmente per la guerra e per la migrazione. Riporto frasi sul paesaggio:

    [… ] Una bella selva di scuri abeti e di larici chiari. Gli abeti facevano una ombra riposata e densa, nel bosco umido e sonoro come una immensa grotta [… ]

    [… ] La luce senza crepuscolo è tutta dietro i monti che perdono le gobbe, si alzano in punta di piedi, ripidi laminati, con un profilo che sembra intaccare il cielo e l’ombra sale da dentro la valle come se si riempisse di liquido denso, il sangue azzurro della notte [… ]

    Poche sono le parole che servono per essere struggenti. Parole di poeta che annusa, vede, sente con sensi sempre irti a captare il mondo, la natura, gli uomini. È così?

    Ma che poeta! Il paesaggio è parte essenziale del racconto della vicenda, qualche volta ne contiene la spiegazione. È uno dei personaggi principali. Altro che poesia ed estetismo.

    È vero che sei un lettore bulimico? Quanti libri hai?

    Non lo so, credo che un giorno o l’altro le solette crolleranno e tutto sparirà in una nube di fumo e calcinacci.

    Cosa significa per te leggere?

    Vivere, capire.

    Quali sono gli scrittori che ti piacciono?

    André Malraux, i francesi tra le due guerre, Péguy, Bloy, Mauriac… i soliti nomi. Non a caso non mi piace la letteratura americana, raggrinzita nelle parole, nel vocabolario, nella costruzione del periodo. Non è che tutti i francesi mi piacciano. André Gide non mi piace per nulla, non mi piace proprio per niente. Gabriele D’Annunzio mi piace anche se non piace più a nessuno, grande parolaio, dicono… secondo me una gran bella qualità.

    Seducente, Seduce.

    D’Annunzio? Seduceva ma ai tempi in cui scriveva c’erano delle platee sterminate, non solo in Italia, che apprezzavano lo stile di D’Annunzio. La sua ridondanza, il suo manierismo.

    Tu ti definisci narratore, una definizione che ben si adatta al tuo lavoro di giornalista in cui nel libro Il tuffo nel pozzo. È ancora possibile fare del buon giornalismo? sveli molto del tuo modo di affrontare il mestiere di giornalista e del significato della scrittura.

    Per scrivere si scende nelle profondità insondabili dell’essere, il proprio e soprattutto quello degli altri. Scrivere, sì, appartiene al mistero.

    D. Quirico, Il tuffo nel Pozzo. Il Giornale Inutile, Vita e Pensiero, Milano 2017, cap. 1, p. 9.

    Quale mistero di se stessi o degli altri?

    Di entrambi, mi pare chiaro.

    Nello stesso libro e proprio nel primo capitolo accatasti tanti pensieri sul giornalismo oltre a quello del mistero, come quello della fotografia. Tu scrivi per immagini, credo sia questa una tua abilità. Riuscire a restituire l’immagine di ciò che tu hai visto.

    Quali sarebbero le fotografie che potrei scegliere per sintetizzare la mia vita di giornalista? Innumerevoli foto di morti, quelle con la tetra tinta inchiostro dei vecchi cimiteri. Uomini donne bambini anonimi, l’anonimato delle vittime, di cui ho attraversato per un attimo la vita fragile, di cui ho raccontato la sofferenza, spesso direttamente la morte. Sottoposti a pene che non sono punizioni, a fatiche orribili e oscure, che alla fine soltanto si rivelano piene di significato. Non posso esporle, non c’era in quel momento il fotografo verso cui guardare sorridendo. E poi sono troppi, ci vorrebbero pareti infinite. Eppure posso evocarli in un lampo, mi vengono davanti in lunga schiera e mi interrogano muti, allora come ora. Perché? Perché morire? Perché soffrire?

    [… ] Ci chiediamo ancora, o ci siamo sempre chiesti: chi sono per noi i personaggi a cui ogni giorno diamo la vita? Sì, la vita perché per il lettore semplicemente non esistono fino a quando non li facciamo apparire davanti a lui con i nostri umili segni grafici […]

    D. Quirico, Il tuffo nel Pozzo. Il Giornale Inutile, Vita e Pensiero, Milano 2017, cap. 1, p. 9.

    È un processo spontaneo che appartiene alla tua scrittura?

    Sarò primitivo ma restituire l’immagine non è il principio fondativo della scrittura narrativa?

    A proposito di giornalismo, riporto un concetto, una regola per te imprescindibile per chi fa questo mestiere e che hai ribadito più volte anche nelle diverse lectiones magistrales che continui a tenere presso le scuole:

    Studente

    – Lei sapeva dei pericoli, perché comunque ha accettato di fare questo viaggio? Domenico Quirico

    – La risposta è banale, mi creda, perché io faccio questo mestiere. Cioè se lei vuole raccontare la Siria, Aleppo o anche altri luoghi, cioè che so…Mogadiscio, piuttosto che la Cecenia, piuttosto che il Darfur…l’unico modo per farlo è, per non essere un truffatore nei confronti di coloro che poi vogliono leggere il suo racconto, di coloro che sono il soggetto del suo racconto, l’unico modo per farlo è andarci, io non ne conosco un altro. Io non conosco nessun mezzo tecnico che mi permetta di essere ad Aleppo senza esserci. Senza esserci fisicamente. Mi permetta, è una questione di onestà. Se io scrivo un articolo e lo scrivo dal calduccio della mia casetta nelle Langhe piuttosto che dalla redazione del «NY Times», senza esserci mai andato, senza aver guardato negli occhi quelle persone che vivono quella tragedia… come assassini o come vittime… attenzione… come assassini o come vittime, senza aver visto la sofferenza quotidiana di centinaia di migliaia di persone, cosa scrivo? Chi è che mi dà il diritto di scrivere? Dove lo prendo questo diritto? Io racconto che migliaia e migliaia di persone vivono nel dolore e lo racconto stando seduto tranquillamente a casa mia? E cosa ci metto lì dentro? Cioè prendendo le notizie qua e là? Su internet? Su Wikipedia? Su qualcuno che è scappato di lì che non si sa bene chi è, perché, che cosa racconta, l’attendibilità di quello che mi riferisce? Ma quello non è un giornalista. Che poi buona parte dei giornali e delle televisioni raccontino questa fuffa questo è un altro discorso. A me interessa quello che faccio io e non quello che fanno gli altri. Allora io ossessivamente, e uso questo termine apposta, scrivo solo di cose che ho vissuto o che sto vivendo e di null’altro. Di nulla.

    D. Quirico, Lectio magistralis, Istituto Sobrero, Casale Monferrato, 18 aprile 2018⁴.

    Sì lo ribadisco: il giornalismo è raccontare ciò che uno vede. Tutto il resto appartiene alla categoria dello spirito. L’editoriale, la narrazione delle poche idee sull’universo, questo non è giornalismo, è un’altra cosa. Il giornalismo è raccontare quello che avviene intorno a te. Può essere una città come Piacenza, non è necessario andare in posti esotici per fare del buon giornalismo, lo si può fare ovunque. È la narrazione: ci sono degli uomini che in certo luogo e in un certo momento storico vivono una certa esperienza. Tu sei tra loro, non a mille chilometri, ti guardi intorno e trasferisci questo in una narrazione, possibilmente in un italiano accettabile. Oltre a questo non ci sono altre regole, non esiste il decalogo del perfetto giornalista. Il giornalista è quello che assolve all’obbligo elementare di andare nei luoghi che ha avuto l’incarico di raccontare, di vivere insieme a coloro che in quei luoghi stanno affrontando una certa esperienza – spesso assai dolorosa, tragica, addirittura terminale – e poi la narra per chi in quei luoghi non può andare. Per questo motivo ha una funzione in primo luogo di testimone – parola che ha anche delle valenze teologiche, mistiche: il giornalista testimonia, e per testimoniare bisogna essere presenti – e in secondo luogo, attraverso la propria partecipazione diretta ai fatti crea. È lì insieme agli altri uomini, crea quel legame tra l’esperienza e la coscienza che è il passaggio obbligatorio per conoscere le cose. Questo è il giornalismo. E non credo ce ne possano essere degli altri. Oggigiorno il giornalismo è tecnologia, è internet, è maneggiare bene i social che sinceramente non mi appartengono. Il perfetto esempio dell’atto giornalistico è quello di un collega, grande reporter, fotografo di guerra, che va in un posto, vede una persona che è stata appena uccisa davanti a lui, fa la fotografia: quella è la testimonianza. Poi si mette a piangere: quella è la commozione.

    Quindi penso che tu possa confermare quanto più volte hai ripetuto a tutti quelli che ti hanno chiesto del tuo metodo. Penso ad esempio all’intervista al Fetivaletteratura di Mantova nel 2017:

    Il suo metodo resta comunque diverso da quello dei suoi colleghi.

    A me sembra di operare in un modo perfettamente normale, non capisco quale tipo di giornalismo si possa fare senza andare a vedere di persona un fenomeno. Quello che posso lamentare è l’idea di un giornalismo da collage, da tavolino. Rispetto all’epoca in cui ho iniziato a lavorare devo constatare che oggi vedo sempre più spesso pezzi con date, luoghi – esotici o nostrani – ma alla lettura del pezzo risulta evidente che è stato composto raccogliendo informazioni da varie fonti, tutte non di prima mano. Oggi, attraverso questo facile reperimento di notizie – che certamente è anche un bene – si può restare al fresco d’estate e al caldo d’inverno, assemblando i propri pezzi comodamente dalla scrivania. Vedo che questo accade addirittura nello sport, che francamente non mi sembra un territorio impervio in cui avventurarsi. Ecco, credo ci sia una sorta di deformazione del mestiere, ma ovviamente ognuno poi agisce come crede.

    A. Mantovani intervista D. Quirico, Ombre dal fondo, «La Balena Bianca», 11 settembre 2017⁵.

    Ribadisco: si descrive soltanto ciò che si vive direttamente…

    Giornalista che cita altri giornalisti come Mimmo Càndito e Oriana Fallaci:

    Rileggo un eccellente reportage di Mimmo Càndito sulla prima guerra d’Iraq. Il suo scrivere era un pensare ad alta voce. Ma è tremendamente difficile pensare ad alta voce. Tutte le diatribe insulse sul declino del giornalismo, sul suo affondare in un panorama geologico, minerale, dovrebbero approdare a riletture come questa. Certo le vecchie formule non ci servono più e bisogna cercare un nuovo punto di equilibrio. Ma Càndito ci insegna che scrivere un articolo è anche un obbligarsi a non disertare, a non fuggire se stessi. Un riaffermare che restiamo presenti. Uno sbarramento opposto alla tentazione del nulla che dilaga intorno a noi.

    D. Quirico, Il giornalista che non fuggiva. Ricordo di Mimmo Càndito a un anno dalla morte, «La Stampa», 3 marzo 2019⁶.

    Gli opponiamo un’altra firma, illustre e discussa, Oriana Fallaci nel suo capolavoro giornalistico che, a dispetto delle tentazioni alla profezia e alla ideologia che ancora oggi fanno cagnara, restano i suoi quaderni dal Vietnam.

    Ecco un esempio di perfezione nel racconto: «… sono andata a Cholon, sembra che la popolazione qui sia in buona parte con i vietcong, che dia loro da mangiare e da bere, che li ospiti nelle case senza farsi pregare. Le case sono tutte bucate dai fucili e dai mitragliatori: si combatte ancora di porta in porta, di finestra in finestra, e qui i vietcong sono bene armati, dispongono persino di razzi… Mentre ero qui le truppe del generale Loan hanno catturato sei vietcong. Sono bambini tra i quattordici e i diciotto anni, hanno i sandali giapponesi legati col filo dietro il tallone e indossano camice a quadri e pantaloni corti. Ci guardano con l’odio negli occhi e il sorriso sulle labbra. Uno ci sputa addosso e poi torna a sorridere. Allora i soldati del generale bendano gli occhi a tutti e sei, poi li fanno accucciare lungo il muro. Il più giovane è ferito al ventre. Si tiene una mano sul ventre e tra le dita gli colano fiotti di sangue. A un certo punto cade a faccia in avanti, sempre tenendosi il ventre, e muore. Lo agguantano come un sacco di segatura e lo buttano sopra un camion, insieme agli altri morti che saranno seppelliti in una grande fossa comune, dopo esser stati bruciati con il lanciafiamme…

    D. Quirico, Il tuffo nel Pozzo. Il Giornale Inutile, Vita e Pensiero, Milano 2017, cap. 2, p. 29.

    Cosa pensi di avere in comune con loro?

    La fortuna di aver attraversato come testimone eventi memorabili.

    Sul tuo concetto di giornalismo ricordami ancora quanto hai dichiarato al Festivaletteratura di Mantova nel 2017.

    Più parliamo di giornalismo meno lo facciamo. Per noi il giornalismo è inteso in senso ideologico. Io trovo che non ci sia un’ideologia del giornalismo, neppure una sorta di metafisica del giornalismo. Il giornalismo è scrivere: andare nei posti, guardare e scrivere. Boh, tutto li! Una cosa un po’ troppo semplice? Mah, è semplice fino a un certo punto, perché poi ci sono dei luoghi in cui è difficile arrivare, in cui ci vuole… però sinceramente non lo so se sia utile stare a riflettere se l’inviato si chiamerà ancora «speciale» o «ordinario», «sussidiario», cioè: finché ci saranno i giornali – come tutte le cose umane soggette al declino e alla scomparsa – ci sarà bisogno di mandar qualcuno in un posto dove è successo qualcosa per veder cosa è capitato; e nel giorno in cui decideranno che non è più necessario questo, il giornale sarà già finito. Allora non è un problema di… è un problema, come dire, è un non-problema, come dire, per fare la pasta ci va il grano, non è che la si può fare con la plastica. Allora per fare i giornali bisogna andare a vedere delle cose, e bisogna inviare, inviare qualcuno ad andare a vedere cosa è capitato.

    Hai ricevuto il premio Terzani. Raccontami…

    Tiziano Terzani era un giornalista, poi è diventato scrittore ed è stato sostanzialmente giornalista. Le sue origini sono quelle lì. Credo che anche questo premio nasca con questa doppia valenza.

    Perché, gli altri che hanno vinto negli anni precedenti erano giornalisti?

    No, assolutamente, però avevano scritto dei libri che avevano attinenza con la realtà.

    Perché secondo te sei tu che hai vinto?

    Mah, a detta della signora Terzani, quando mi ha telefonato, che il mio tipo di scrittura giornalistica le ricordava quello di suo marito. Detto così può essere una spiegazione. C’è qualche cosa di terzaniano… diciamo così… nel mio modo di raccontare le tragedie. Quelle di Terzani erano da un’altra parte del mondo, però è quella roba lì. Mi avevano

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