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Incubo di signora
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Ebook357 pages5 hours

Incubo di signora

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About this ebook

Dilapidato l'ingente patrimonio ereditato, Angelica degli Alberetti ha dovuto svendere la pregiata collezione d'arte di famiglia per tirare a campare. Ora, è costretta ad una grigia esistenza che oscilla tra la disperazione e la rassegnazione. Per di più, la donna viene anche accusata dell'omicidio di un noto collezionista d'arte a cui lei aveva ceduto un quadro. Il fatto che l'opera in questione, svenduta da Angelica per poche lire, sia ora valutata diversi miliardi, non fa che accrescere i sospetti.
Ma l'indomito avvocato fiorentino Corrado Scalzi non ci sta. Non vuole trarre conclusioni affrettate. Convinto dell'innocenza della donna, si batterà come un leone per dimostrarla in tribunale. Giallo al cardiopalma, ambientato in una Firenza oscura ed elegante, 'Incubo di signora' conferma lo scrittore e avvocato Nino Filastò come uno dei padri nobili del legal thriller all'italiana.
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateFeb 23, 2022
ISBN9788728175217

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    Incubo di signora - Nino Filastò

    Incubo di signora

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1990, 2022 Nino Filastò and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728175217

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Parte prima

    …Perché, secondo l’opinion mia A chi vuol una cosa ritrovare, Bisogna adoperar la fantasia, E giocar d’invenzione e ’ndovinare. E se tu non puoi ire a dirittura, Mill’altre vie ti posson aiutare.

    galileo galilei

    Capitolo contro il portar la toga

    10-15

    Capitolo 1

    Angelo di sinistra

    Fileno Lembi entrò nel suo ufficio, cercando di non far rumore.

    La segretaria, barricata dietro il computer, era intenta a trascrivere nastri di intercettazioni telefoniche. Il video le illuminava di un riflesso azzurro un orecchio, coperto a metà dall’auricolare, e un ciuffo di capelli biondi. Dal lato della stampante emergevano i piedi,’ appoggiati sul tavolo, calzati da espadrillas rosa.

    Ogni mattina la signorina Monica Sartoni schioccava un grazioso colpo di frusta, elencando il lavoro da smaltire con più urgenza. Non era obbligata da nessuno a farlo. Nessun dovere le imponeva di usare un’intonazione falsamente rilassata, da annunciatrice televisiva, che al giudice Lembi rammentava l’anestesista che prepari il paziente all’operazione.

    Lembi fece i pochi passi che lo separavano dalla sua scrivania, camminando con levità.

    La stanza era stata una soffitta del convento trasformato in tribunale, il punto di accesso per la manutenzione esterna probabilmente. Due porte-finestre, di fronte e alla destra del tavolo da lavoro del giudice, davano sui tetti. Quella frontale immetteva su una passerella di cemento, fiancheggiata da una ringhiera, lungo le sculture ornamentali della facciata, e finiva a ridosso dell’angelo trombettiere alla sinistra del frontone, guardando l’ingresso del tribunale. L’angelo puntava la tromba verso il campanile della Badia, a fianco del quale, sfalsati dalla prospettiva, i merli della torre del Bargello e uno spicchio della cupola del Brunelleschi, di un sensuale carminio chiaro sotto il sole del mattino, parevano vicinissimi sullo sfondo malachite della collina fiesolana. Al suo posto di lavoro Fileno Lembi si sentiva sospeso come un piccione su una grondaia.

    Nella stanza sottotetto si soffocava dal caldo. Il ventilatore ronzava, l’elica sfavillava di riflessi color ghiaccio come il mulinello di un torrente, ma una caparbia inclinazione la faceva oscillare in direzione del soffitto. Lembi riusciva ad avvertire una lieve frescura sulla sommità della testa, dove pochi capelli mascheravano appena la chierica, solo restando seduto diritto, con le spalle irrigidite contro lo schienale. Dette un’occhiata al fascicoletto smilzo sulla scrivania, ma non lo aprì e mantenne la posizione impettita.

    Il tasto di pausa del registratore emise un clic. La signorina Sartoni si tolse la cuffia e allungò una mano premendo il tasto dell’amplificatore. Lembi sperava che, concentrata sul linguaggio criptico degli spacciatori, si accorgesse di lui il più tardi possibile. Socchiuse gli occhi come si fa da bambini per rendersi invisibili. La segretaria appoggiò la fronte sul piano della scrivania. Voci a volume alto riempirono la stanza.

    «No, ascolta: non mi mandare colombi, eh?»

    «Che dici allora? Le altre? Papà ti deve mandare le altre?»

    «Eh!»

    «Quaglie?»

    «Eh! Come si chiamano, le quaglie. Dicci a papà di mandarmi quaglie.»

    «Va bene.»

    «No, aspetta: le voglio che volano, capito? Le voglio che volano alto, capito? Non come quelle dell’altra volta, che restavano a terra. Erano una miseria quelle là. Non facevano… restavano ferme a terra, quelle, capito?»

    Clic. La signorina Sartoni rialzò la testa.

    — Che dice lo stronzo? Quaglie? Dice quaglie?

    — Dice quaglie, sì. — Lembi, distratto dallo scrupolo professionale, svelò la sua presenza.

    — Ah, lei è qua, dottore? — La signorina Sartoni tolse i piedi dal tavolo. — E io scrivo quaglie. Ma che vuol dire che devono volare?

    — Buon effetto stupefacente. Eroina o coca, dipende dal contesto.

    La segretaria riaccese il registratore.

    «Quelle dell’altra volta» di nuovo la voce del primo interlocutore telefonico «le ho date in prova a certi amici. Stavano a fare un’ammucchiata. Si sono addormentati tutti quanti.»

    «Ahahahaha…»

    «Tu ridi, ma quelli si sono incazzati. Hanno avuto la serata sciupata. Mandamele che volano, questa volta, capito?»

    — Adesso è chiaro. — La signorina Sartoni fece frusciare la tastiera della video-scrittura. — Il contesto è coca… Ah! — Risollevò la testa e indicò il fascicoletto smilzo. — Il commesso della procura ha portato quello. Una faccenda urgente, pare.

    — Lo so — annuì Lembi. Di nuovo guardò l’incartamento e di nuovo lo lasciò dov’era.

    Prima di salire in ufficio, davanti al cartello chiuso per ferie affisso sull’edicola del giornalaio, si era incontrato con il sostituto procuratore Daniele Orlandi.

    «Uno si immagina un periodo di riposo» aveva detto il sostituto «con gli spacciatori emigrati sulla costa dove d’estate c’è più mercato. Ha fatto il calcolo di prendersi le ferie a doppio: in città con poco o niente lavoro, e quelle vere a settembre, al mare. E si ritrova con un caso di omicidio. Dovrai convalidare il fermo del sospettato. Ti ho mandato il rapporto in ufficio. Se ti serve qualche ragguaglio, telefonami.»

    — Il fatto del travestito depezzato. — Tono garbatamente afflitto, l’annunciatrice tivù riferiva di un nuovo incendio in Sardegna. — L’ho sfogliato: non l’avessi mai fatto! Ci sono le foto. M’è venuta la nausea. Gliel’ho messo lì, guardi: alla sua destra.

    — Depezzato? Cosa sarebbe depezzato?

    — Il travestito, è depezzato.

    — Si dice spezzettato in italiano.

    — Nel rapporto è scritto così. Per chiuderlo nella valigia… Oddio, non mi faccia entrare in particolari…

    Fileno Lembi sospirò. Ma perché una così, impicciona e impressionabile, benché grassoccia e paciosa in apparenza, non se l’erano tenuta nella cancelleria degli affari civili, invece di spedirla nella geenna delle indagini preliminari, fra lo stridore di denti e gli arrosti del moloch criminale? Sospirò di nuovo e si decise ad aprire il fascicoletto smilzo. Le foto stavano in agguato dietro la copertina grigia.

    Foto numero uno: strada in curva, asfalto lucido, atmosfera invernale e immagine scura: pioveva. L’agente stava in posa, sotto l’ombrello aperto, e puntava il dito verso il varco slabbrato di una rete di recinzione. Lembi guardò la data: 3 marzo corrente anno. Un fatto vecchio di quattro mesi e mezzo. E arrivava ora? E che aveva da sorridere come uno stupido, l’agente?

    Foto numero due: anch’essa scura (il fotografo non aveva adeguato il diaframma alla poca luce), è la proda scoscesa di un burrone, e un intrico di rovi, fra i quali spiccavano più chiare rocce cretacee.

    Nella foto numero tre si vedeva l’immondezzaio in fondo alla scarpata: stracci, cartacce, barattoli e qualche cosa di bizzarro che attirava l’attenzione. Lembi pensò che in certi film impressionanti l’esattezza dei particolari nuoce. Le sfocature giovano all’effetto. Qui il ribrezzo nasceva dallo sforzo d’attenzione necessario per accorgersi che quello che a prima vista sembrava un ciuffo d’erba, era invece una chioma, terrosa e impregnata d’umidità.

    All’occhio esperto del cercatore d’asparagi, avvezzo a distinguere l’asparagina dalle erbacce, il grosso fungo biancastro, coronato di villi che si irradiavano intorno come per assorbire il sudiciume, doveva essere apparso eccentrico fra le banalità della discarica. L’anziano cercatore aveva perso di colpo la poesia degli asparagi selvatici. Si era sentito prendere lo stomaco da un tale groppo di disgusto che, a labbra strette, era salito sull’autobus alla fermata del Camposanto monumentale di Trespiano (c’è spesso un cimitero nei paraggi, quando avvengono scoperte simili) ed era tornato difilato in città, a casa sua, rintanandosi per tre ore, prima di decidersi ad andare alla più vicina stazione dei carabinieri.

    …Nel costone sottostante la strada Bolognese, tra ginestre, asparagina, rovi e rifiuti vari, aveva rinvenuto la testa del travestito depezzato, ormai in avanzato stato di decomposizione: vedi allegato numero tre.

    Fileno Lembi allontanò gli occhi dal rapporto, raddrizzandosi alla quota della corrente d’aria.

    — Neanche un filo di senso del ridicolo — disse a se stesso. — Travestiti depezzati e allegazioni di teste decomposte. Dovrò cibarmi di una frittura del genere in questa calda estate.

    Quell’estate Lembi aveva rinunciato a prendere le ferie, pensando di dedicarsi allo studio della nuova procedura entrata in vigore da meno di un anno. Casi impegnativi da trattare col nuovo codice non gliene erano capitati, i processetti che aveva affrontato fino a quel giorno avevano avuto un andamento sbrigativo da mercatino rionale. Patteggiamenti in gran parte, giudizi abbreviati che si concludevano prima del dibattimento. Da qualche mese, dopo tanto lavoro e tanto studio, Lembi non si vedeva più giudice: gli pareva di essere stato espropriato del suo mestiere, si sentiva trasformato in un notaio il cui compito fosse quello di applicare un tariffario. Il nuovo caso, un omicidio con tanto di morto ammazzato fatto a pezzi, gli offriva l’attesa occasione di impratichirsi nella nuova procedura, istruendo un processo con tutti i sacramenti. Avrebbe dovuto essere contento, ma più andava avanti a leggere, e più lo assaliva la noia. Dallo stantio burocratese trasparivano i vecchi schemi. Lo studio del nuovo codice durante il calmo periodo estivo, senza la concitazione della normale routine, era del resto il motivo razionale, ma falso, dell’aver rinunciato alle ferie. In verità la ragione autentica era un’altra.

    Da anni le vacanze di Lembi cominciavano a Collelongo in Abruzzo, in una villetta ereditata dai nonni. Venti giorni di sonni di piombo sul letto di bandone, sotto la stampa in quadricromia della Madonnina di Ferruzzi, oppure all’ombra dei meli inselvatichiti del giardino, addormentandosi sui romanzi di fantascienza che non aveva avuto il tempo di leggere durante i mesi di lavoro. Nella vecchia casa di campagna fuori del paese, lo inteneriva il tanfo degli intonaci ammuffiti, e gli suscitava indefinite nostalgie. La casa, troppo grande per uno scapolo — nonni e genitori erano trapassati — nascondeva una quantità di ricordi. Dai cassetti e nelle madie rose dai tarli venivano fuori vecchie foto di famiglia, lettere, cartoline illustrate. Fileno Lembi ne traeva motivo per rivangare la vita sonnacchiosa e cupa dei piccoli proprietari del sud. Gli scritti del nonno, giudice anche lui, bozze di sentenze vergate a mano in bella grafia ricca di svolazzi, gli suggerivano l’idea di una funzione esercitata placidamente e senza contrasti drammatici, con tutto il tempo necessario per cercare la verità dei fatti.

    Dopo un po’ tutto questo gli veniva a noia, naturalmente. La vista del capanno degli attrezzi, sbilenco e con il tetto sfondato, sul margine del campo incolto che ogni anno si riproponeva di rinverdire senza mai decidersi di farlo, dell’aratro e dell’erpice abbandonati e sempre più rugginosi, gli metteva addosso un confuso sentimento di colpa. Lo scartoccio del pagliericcio di foglie di mais non gli pareva più poetico e anzi gli provocava l’insonnia. Si trasferiva allora nella pensione Bel Mare nei paraggi di Vasto, settantamila al giorno, cabina, ombrellone e sdraio sulla spiaggia contigua compresi. Ma quel periodo di noia a Collelongo lo aveva, così diceva a se stesso, ritemprato.

    Durante la Pasqua di quell’anno, una settimana di pioggia ininterrotta aveva scollato le rocce scistose che sovrastavano la casa ereditata dai nonni. La frana era piovuta di notte direttamente sul tetto. Nessuna vittima, non c’era nessuno in casa, e Collelongo non aveva subito altri disastri, perché la villetta era fuori paese. Del fatto non ne aveva parlato neppure la stampa locale. Lembi aveva avuto la notizia dal parroco, che gli aveva scritto una lettera, allegando, con pignoleria sadica, una foto polaroid. Niente, né una tegola, né una trave, né la cima di un melo, lasciava intuire che sotto quel mucchio di terra, marrone come un’enorme cacca, ci fosse stata la sua casa, i tascabili di fantascienza, il letto di bandone, e la Madonnina del Ferruzzi.

    La lettera del buon prete si chiudeva con un invito devoto a ringraziare la Provvidenza che quell’anno aveva talmente annacquato la Pasqua da indurre Lembi a rinunciare alla consueta breve vacanza a Collelongo. Nell’intimo Lembi aveva obbiettato che quella medesima mano di Dio gli aveva sepolto la casa delle vacanze, e invece di accettare il volere divino, se l’era presa come un fatto personale, come la beffa perfida di un nemico. Era per questo che aveva rinunciato alle ferie, dichiarandosi disposto a sostituire per l’estate i colleghi dell’ufficio delle indagini preliminari — quattro giudici, di cui due signore con prole — tagliando corto alle discussioni consuete di quel periodo, su chi sarebbe dovuto restare per non lasciare l’ufficio sguarnito. Lembi aveva inteso così reagire alla sfortuna con una specie di orgogliosa ripicca. Ora se ne pentiva.

    Dalla numero quattro alla numero tredici le foto erano a colori e più nitide, provenivano dall’istituto di Medicina legale e mostravano i reperti sistemati su un tavolo anatomico.

    Numero quattro: una valigia di fibra, prima di essere vuotata del suo contenuto, vecchia e malridotta, semiaperta, la chiusura rinforzata da una corda. Il contenuto, lievitando e gonfiando, aveva sollevato il coperchio e fatto saltare le chiusure, sicché si intravedeva il nero dei sacchetti da immondizie, che poi, nelle foto cinque e sei, apparivano, fuori dal contenitore, fermati da strisce chiare di nastro adesivo che qua e là aveva ceduto, e dalle slabbrature della plastica fuoriusciva un materiale bianco sporco. Aperti i sacchi numero sette e otto, se ne mostrava il contenuto: il tronco e un piede. Vicino alla valigia erano state trovate due borse di plastica (foto nove e dieci) rinforzate col medesimo nastro adesivo, una si era strappata e dallo squarcio appariva un calcagno. Il contenuto veniva mostrato nella foto undici: le braccia, le mani, le gambe e un piede. La foto dodici era riepilogativa: i reperti vi venivano mostrati a nudo, disposti in ordine di ritrovamento e contrassegnati da un cartiglio che li classificava in unità distinte a seconda del contenitore. A (la valigia), e accanto in bell’ordine il suo contenuto (A con uno e A con due). B e C (le due borse), con gli annessi (B con uno, B con due, B con tre, B con quattro, e C con uno, C con due e C con tre). L’altro piede, chissà per quale bizzarro spirito asimmetrico del criminale, si trovava nella valigia. La foto numero tredici riproduceva la testa, senza riferimento all’involucro, perché, come si leggeva nel rapporto, presumibilmente, ma non con sicurezza, era ruzzolata fuori dalla valigia mentre questa precipitava giù dalla scarpata.

    Nella foto numero quattordici si notava un mucchietto di materiale, in mezzo al quale spiccava un piccolo oggetto tondeggiante con uno strano ciuffo peloso, simile ai macabri trofei di certe tribù amazzoniche. Questo reperto, leggermente più scuro di tutto il resto, nella foto riepilogativa (cartiglio lettera E) si vedeva che era più piccolo della testa (cartiglio lettera D). La didascalia lo indicava come materiale biologico non umano trovato sparso in tutti gli involucri, di natura da identificare.

    — E questo che roba è? — si chiese Lembi prendendo il telefono. Più delle immagini gli davano la nausea la pignolesca classificazione e gli stereotipi del rapporto. Fece il numero interno del sostituto procuratore Orlandi. Anche questo lo crucciava: di essere costretto ad avere a che fare con Orlandi, che gli stava antipatico.

    — A proposito di quella beccheria che mi hai mandato… — cominciò Lembi.

    — Beccheria? Quale beccheria?

    A Orlandi il parlare ricercato di Lembi non piaceva. C’erano troppe sentenze della Cassazione cui star dietro, per avere il tempo di frequentare la letteratura. Non era il solo a pensare che Lembi ostentasse troppo la sua cultura umanistica. Anche negli atti che scriveva, il giudice risultava fuori di stile: tutti i colleghi del tribunale erano d’accordo su questo.

    — Parlo dell’omicidio…

    — Ora ci siamo. Il travestito depezzato.

    — Non dire così anche tu, per piacere — mugolò Lembi.

    — Fatto a pezzi: depezzato. Dov’è lo sbaglio?

    — Si dice spezzettato. Il ritrovamento del cadavere è avvenuto il 3 marzo. Pioveva e faceva freddo. Un tempo adatto per stare dietro a un caso del genere. Perché arriva a noi solo adesso che si suda a girare una pagina? E poi vorrei capire una cosa: c’è una foto, allegata al rapporto…

    — Sto scendendo a prendere un caffè — lo interruppe Orlandi. — Vediamoci al bar… quello di fronte al tribunale.

    — Non sono rimasti con le mani in mano per quattro mesi. Alla Squadra mobile hanno lavorato. Sono riusciti a identificare la vittima. C’è già un pezzo di farabutto gravemente indiziato in stato di fermo. Hanno fatto la scoperta una settimana fa. Per questo il caso ci arriva solo ora.

    Lembi ascoltava Orlandi distrattamente. Il caffè aveva un aroma strano, che gli ricordava il sapone fatto in casa durante la guerra, quando nella casa di Collelungo si mettevano gli scarti di macelleria a sbollentare in un pentolone, e le ossa e i grassi si inglobavano in una patina grigiastra.

    — Hai tempo fino a sabato per convalidare il fermo dell’indagato. Tutto qui, niente di trascendentale. Il caso è chiaro. Difficile è stato identificare la vittima. Da quel momento tutto è filato liscio come olio.

    Lembi non poteva ammettere di non avere acquistato, dopo tanti anni di professione, la freddezza sufficiente per guardare senza suggestionarsi un inserto fotografico. Era la tazza lavata male che gli causava quel senso di disagio. Guardò di traverso il cameriere col cravattino annodato storto, la giacca rossa troppo ampia. Una faccia nuova, un arabo a lavoro nero, che sostituiva il personale in ferie.

    — Quello che ho visto io mi sembra poco per tenere in galera qualcuno. — A Lembi l’ottimismo di Orlandi pareva eccessivo. L’istinto gli suggeriva che invece il caso fosse tutt’altro che semplice. — Nel tuo fascicolo non c’è neppure la necroscopia. Non si sa la causa della morte. E poi, c’è una foto…

    — Ehi, dico, Lembi! Non comincerai con le tue solite complicazioni?

    Uscirono dal bar. La vetrina specchiava una comitiva di turisti che attraversavano la piazza. Anziani e obesi, armati di apparecchiature fotografiche e di videocamere, si muovevano compatti, parevano diretti contro un obbiettivo nemico, e rassegnati a una sorte avversa. I cappellini e le camicie chiare trascorrevano in trasparenza sulle praline e i canditi multicolori. Sul frontone del tribunale i due angeli trombettieri ondeggiavano sfumando nel cielo quasi bianco.

    — Per convalidare il fermo, quello che c’è nel mio fascicolo è più che sufficiente. Il pericolo di fuga non si discute: il farabutto si era dato alla macchia, l’hanno fermato tre giorni fa. — Fuori dal bar Orlandi si fermò in pieno sole, con una mano sul fianco, guardando distrattamente in aria. Lembi gli emerse accanto dall’ombra della tenda davanti all’ingresso.

    — Cinque paginette di rapporto e alcune foto di cui quelle sul posto venute male, dovrebbero bastarmi per decidere la libertà di un cittadino?

    — È un pappataci, il tuo cittadino — ridacchiò Orlandi. La sahariana bianca, la camicia di seta verde, il borsalino di paglia fine e il bocchino d’ambra, dal quale aspirava la sigaretta dopo il caffè, gli davano un’aria rétro. A Lembi pareva ridicola la sua raffinatezza nel vestire, provinciale la sua smania di abiti firmati, ispirati alla moda degli anni Trenta.

    — Comunque, se ti rimane qualche curiosità, non hai che da chiedere. — Sembrava che Orlandi ci godesse a stare sotto il sole feroce. — Non c’è da sapere granché, ti avverto. È un caso banalissimo. In, questo siamo stati fortunati. Possiamo sbrigarcela in venti giorni, se nessuno si mette a fare il cacadubbi: udienza preliminare e rinvio a giudizio. A settembre voglio godermi il mare senza lasciarmi alle spalle nessun sospeso.

    — Venti giorni non bastano per la perizia.

    — Non c’è bisogno della perizia. Sto facendo fare un accertamento tecnico in via d’urgenza. Niente lungaggini inutili con la nuova procedura. Dovremmo cominciare a disapplicarla fin dall’inizio?

    A Lembi le nuove norme non piacevano, gli apparivano come un paesaggio familiare invaso dalla nebbia, ogni cosa trasformata in modo ambiguo.

    Attraversarono la piazza. Superarono la scalinata esterna ed entrarono nel portone del tribunale. Dalle scale di rappresentanza che conducevano alle camere dei presidenti, scendeva un usciere non vedente, con le mani protese in avanti come un sonnambulo. Veniva giù spedito, consapevole di non incontrare ostacoli. La quiete estiva rendeva il tribunale più provvisorio del solito, l’atrio sembrava quello di un albergo declassato.

    — Da che risulta che la vittima era un travestito? — chiese Lembi.

    — Gli hanno trovato sul petto due vesciche di due etti e mezzo ciascuna. — Orlandi ignorò l’ascensore e affrontò le scale con scioltezza. Si soffermò sul primo pianerottolo e strizzò l’occhio a Lembi, attardato di qualche gradino.— Un bel davanzale appetitoso.

    — Ma… scusa. — Lembi lo raggiunse e, toccandogli un braccio, lo fermò per darsi il tempo di riprendere fiato. — Abiti non ne hanno trovati…

    — E come vuoi che andasse in giro, imbottito di silicone più di una soubrette del Crazy Horse?

    — Certi si mascherano in segreto — obbiettò Lembi. — Nella vita di relazione nascondono gli istinti femminili. Li chiamano velati. I travestiti sono un’altra cosa. Ostentano… molti si prostituiscono…

    — Appunto: la vittima era stata un’attrazione di un night di Amburgo. Faceva lo strip e anche cose più audaci. Questo quand’era un po’ più giovane. Negli ultimi tempi lo gettonavano molti signori pieni di soldi di questa città. Molto richiesto, benché avesse organi sessuali maschili. O forse proprio per questo. Non direi che fosse un velato, Bice, no. Euro Bencivenga all’anagrafe, ma per tutti: Bice. La Mobile è riuscita a identificarlo con un’indagine complessa. Avevano in mano una scritta réclame sulla borsa che conteneva gli arti superiori. Hanno setacciato tutti gli esercizi che vendevano quel tipo di merce e sono arrivati a un negozio molto esclusivo di biancheria per signora. Il tuo velato aveva una passione per le combinazioni di pizzo nero. Pizzo autentico, lavorato al tombolo. E andava a fare acquisti in visone, quando faceva freddo. Eccoti accontentato anche per gli abiti. Nel negozio si sono ricordati di lui. E anche di non averlo più visto a partire da gennaio. Si sono ricordati anche dell’amico che lo accompagnava spesso. Sparito anche lui dalla circolazione, più o meno nella stessa epoca. Ovviamente l’indiziato è l’amico. Ora sai tutto. Serve altro?

    — Sì — fece Lembi, piccato. — C’è la foto di una piccola quantità di materiale biologico non umano. Che cos’è?

    Orlandi fermò gli occhi mobili su di lui, fissandolo per un intero secondo. Si levò il cappello e con l’indice vi spazzò via un invisibile granello di polvere. — Lo sai che ci avrei giurato? Che tu avresti scovato un particolare insignificante su cui fissarti.

    — Se il rapporto dice che non si sa che roba sia, come fai a dire che è un particolare insignificante?

    — Perché è insignificante. A parte che lo sappiamo che roba sia. È un cane. Un cagnetto piccolissimo.

    — Fatto a pezzi anche il cane…

    — Eh, già. Depezzato anche il cane — ribatté Orlandi con aria di sfida.

    — I pezzi mescolati insieme ai resti della vittima, dice il rapporto.

    — Mescolati, sì. E allora? L’assassino ha sparpagliato i resti del cane in tutti i contenitori, nella valigia e nelle borse. E con questo?

    — Mi sembra un modo di procedere piuttosto straordinario.

    Erano, arrivati nell’atrio sul quale immetteva il corridoio delle stanze dei sostituti. Lembi rifletteva a voce alta. L’esperienza gli aveva insegnato che quando in un caso emerge una circostanza apparentemente astrusa, è sbagliato trascurarla e liberarsene considerandola una bizzarria.

    — Sembra quasi che l’omicida consideri l’animale alla stregua della vittima umana. Che il cane abbia per lui la stessa importanza dell’uomo ucciso. Era di Bice questo cagnolino?

    — Non lo so. Forse sì. Ma che cosa cambia?

    — Be’, potrebbe darsi che fosse un cane di razza particolare. Si capirebbe allora che l’omicida l’abbia fatto a pezzi per impedire che portasse alla identificazione del proprietario. Però resterebbe da spiegarsi per quale motivo abbia mescolato i resti. Una cosa che sembrerebbe avere un senso. I pezzi del cane erano nella valigia e nelle due borse, vero? Questo è veramente strano. A quale scopo fare una cosa del genere?

    — Uhmm! — Orlandi continuava a guardare il cappello sorridendo.

    — Se il cane fosse stato ucciso perché aveva ostacolato l’assassino, mettendosi ad abbaiare o che so io, non si capirebbe perché poi sia stato conciato così e sistemato nella valigia e nelle borse. Facciamo l’ipotesi che il cane fosse di proprietà della vittima. Si mette ad abbaiare. L’assassino lo uccide. Hai detto che era un cane piccolissimo. Del resto nella foto si vede bene che era un animaletto di poco ingombro. Non avrebbe dovuto essere difficile disfarsene. Tutti i giorni i netturbini trovano nelle pattumiere animali domestici morti. Se lo scopo era quello di rendere difficile l’identificazione della vittima, l’omicida non avrebbe dovuto sistemarlo insieme al corpo dell’ucciso, non ti pare? A questo punto mi chiedo: siamo sicuri che il travestito sia stato fatto a pezzi per renderne più difficile l’identificazione? È proprio questo il motivo?

    — Ah, ecco ecco… — Orlandi si rimise il cappello e alzò gli occhi con un’espressione compunta. — Si potrebbe fare anche un’altra ipotesi. Il criminale voleva ammazzare il cane. Era questo il suo scopo. Il travestito si è messo ad abbaiare…

    Lembi sentì un aculeo d’odio. Dramma di sangue a palazzo di giustizia. Pubblico ministero ucciso da giudice. Rivalità professionale? Detestava quella vocetta blasé, le c elegantemente strascicate, l’ironia alla toscana, ghignante e aristocratica. Niente tavolo lucido di falso legno nell’ufficio di Orlandi, né divanetto in vinile color cacca di bambino, niente che fosse di ordinanza in quello che pareva lo studio di un grande professionista, con la finestra che guardava la collina del Forte Belvedere, il tavolo fratino autentico di noce massello, gli altri mobili decò, un po’ leziosi, ma autentici anche quelli, i quadri antichi, il vaso in stile secessione viennese sul tavolino del telefono. La sua segretaria era la più carina di tutto il tribunale, snella ed elegante, e lui se la tirava dietro dappertutto, ostentandola anche nei ristoranti. Orlandi non si vergognava di esibire una quantità di indecenti fortunacce: il fisico da indossatore, la salute di ferro, la carriera sfavillante — perché era giovanissimo, appena trentenne — e tutti i soldi non guadagnati che gli venivano dalla famiglia. Portava quei cappelli cretini, però, dai quali traspariva la sua vera personalità. E fumava nel bocchino d’ambra lavorato, come il bel signore della canzonaccia.

    Orlandi stava davanti alla porta del suo ufficio, lasciandola educatamente aperta, come per invitare Lembi ad accomodarsi nell’interno, ma ne ostruiva la soglia.

    — E vabbè, dirò alla squadra mobile di identificare il cane. Farò in modo di sapere se si chiamava Perla o Dick… Magari era travestito anche il cane, oppure, come si dice, velato.

    — Ti saluto. — Lembi gli voltò bruscamente le spalle.

    — Un momento. — Orlandi lo trattenne per una manica, sorridendogli in modo conciliante. — Il caso è banale, Lembi. Il classico pappone che fa

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