Maschere di piombo
By Enrico Rossi
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About this ebook
Quanto può far male l’ipocrisia? Quante vite possono distruggere i sussurri incauti dei ben pensanti? La vita sfortunata di Elisabetta nella periferia romana è sempre più difficile, travolta da una tragedia famigliare, la mancanza di un lavoro e l’emarginazione sociale. A tenderle la mano solo la malavita. "Meglio la fame che la prostituzione" è questa la sua scelta e mentre sta per affondare, da oltreoceano arriva un'altra inaspettata mano tesa. È quella di Federico, affermato chirurgo a Sydney, cugino di Elisabetta che vola a Roma per assisterla.
Si trasferiscono dunque in Australia ed Elisabetta ha la possibilità di ricominciare una vita ma tra lei e Federico sembra nascere qualcosa di più. È amore, ma decidono di vivere questo loro 'affetto' come una semplice parentela... I due dicono no ad un rapporto incestuoso, ma le voci di una relazione scandalosa si fanno spazio nell'ambiente di lavoro e sociale di Federico al punto di portarlo alle dimissioni. Tutte le maschere ipocrite delle persone intorno a Federico distruggono la sua professione e la sua vita. Tutto sembra crollare intorno ai due cugini, scappano... via, verso Rio de Janeiro per ricominciare da capo. Sarà poi così per entrambi?
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Book preview
Maschere di piombo - Enrico Rossi
Enrico Rossi
Maschere di piombo
© 2020 Argoo aps
www.edizionitaliane.it
Edizioni Italiane
Edizione digitale: febbraio 2022
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Indice dei contenuti
Enrico Rossi
CAPITOLO I
CAPITOLO II
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
Enrico Rossi
Maschere di piombo
Ai medici e agli infermieri che hanno sacrificato la loro vita
per curare i pazienti colpiti dal Coronavirus
Questo romanzo è stato scritto durante il lunghissimo periodo in cui il Paese è stato chiuso
dal Governo italiano per difendere i cittadini dal terribile Covid-19. La produzione di questa modesta opera letteraria mi ha aiutato a superare le ore interminabili che ho vissut, da solo, a casa.
Ho tratto da Internet, dopo attenta analisi, le informazioni di carattere sociale, geografico e scientifico, necessarie per completare il romanzo.
Tutti i riferimenti a fatti o personaggi sono frutto della mia fantasia e non riconducibili alla realtà.
Enrico
Roma, 1° Maggio 2020
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti,
siete come i sepolcri:
di fuori siete dipinti di bianco
ma dentro odorate di morte.
(Vangelo di San Matteo)
E l’un rispuose a me: Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.
E uno mi rispose: Le cappe dorate
sono così cariche di piombo che il peso
ci fa gemere come i bracci delle bilance.
(Inferno, bolgia degli ipocriti)
CAPITOLO I
(Roma, estate 2018)
Elisabetta si sveglia, come ormai le capita da tre mesi, non appena le prime luci dell’alba filtrano attraverso le imposte sgangherate del minuscolo appartamento. Vive da dodici anni nel degradato quartiere di Corviale, periferia sud-ovest di Roma, non dissimile dai sobborghi di una qualunque metropoli italiana, Scampia a Napoli o lo Zen di Palermo. Non sono stati né i raggi del sole appena sorto, né il caldo appiccicoso di questa maledetta estate a tormentare il suo riposo, ma piuttosto l’anima inquieta di una ragazza smarrita. Non si può dormire serenamente, a dispetto della giovanissima età, quando il mondo, anziché essere roseo per le più dolci aspettative, appare spaventoso e gravido di minacce. Ha dormito sì e no quattro ore e nemmeno di seguito, ma intervallate da continui risvegli e popolate da incubi tanto crudeli da sembrarle più duri della stessa realtà. Quanto potrà resistere in queste condizioni? Oltre all’insonnia, mangia poco perché i soldi cominciano a scarseggiare e meno male che la vedova dell’ultimo piano, che percepisce appena seicentocinquanta euro di pensione, le cucina un piatto di spaghetti la sera. Spesso, riflette, c’è più solidarietà tra la povera gente che non tra i ricconi i quali, così almeno se li immagina, col cavolo che si aiutano in caso di difficoltà.
Si mette seduta sul letto e già il distacco del collo dal cuscino zuppo di sudore le procura un minimo di sollievo. Si massaggia gli occhi stanchi e sbadiglia più volte.
S’alza a fatica, si stira, raggiunge l’angolo cottura e apre il frigorifero. Spera ingenuamente di trovarci qualcosa per fare colazione, ma dentro c’è rimasto appena un rimasuglio di latte, forse addirittura scaduto. Da mangiare resta solo una merendina appassita e un’albicocca floscia, residui anche loro della bontà della vedova. S’affaccia alla finestra ma assiste al solito squallido spettacolo che le si presenta da quando abita lì. Erano arrivate durante il mondiale in Germania e quando l’Italia vinse la finale contro la Francia, giù di sotto fecero casino fino all’alba. Perfino Carla scese in strada cantando a squarciagola con la bambina sulle spalle. Un modo per dimenticare, per qualche ora, la sua odissea. Sua madre, dopo anni di strenue lotte con l’istituto delle case popolari, era riuscita a conquistare un buco di quarantacinque metri quadri al terzo piano di una mostruosa catena di cemento lunga qualche centinaio di metri. Spazzatura sparsa qua e là, asfalto sbriciolato, auto parcheggiate irregolarmente, motorini ammaccati, ciuffi d’erba gialla e rinsecchita: nulla di nuovo da quando, cinquanta anni prima, un architetto squilibrato aveva progettato quell’allucinante treno di mattoni dove adesso vivono stipati settemila esseri umani.
- Mamma, perché te ne sei andata così all’improvviso, lasciandomi in un mare di guai? E mo’ dove sbatto la testa, sola e senza un soldo? M’hai detto tu, non mi serve una mano al bar, tu pensa a studiare, a prendere almeno il diploma di ragioniera, un pezzo di carta può sempre servire, vuoi ridurti come me a fare cinquanta caffè al giorno per guadagnare quel che basta appena per pagare l’affitto e fare la spesa al discount? Forse se avessi insistito a fare il turno del pomeriggio, al posto di Ahmed, non mi troverei in questo casino. Chissà, magari potevo chiedere al proprietario della licenza di lasciarmi la gestione del locale… o forse no, che dico? Dopo tutto ti sono stata accanto per tre mesi al San Camillo per quell’infame tumore al pancreas che t‘ha portato via… e giù al bar chi ci sarebbe stato?
Carla s’era ritrovata sola, già da quando Elisabetta aveva poche settimane, ad affrontare la vita a muso duro. Quel perdigiorno, perdigiorno e imbroglione, di Antonio se l’era squagliata subito dopo il battesimo. Giusto il tempo di darle il cognome e poi era volato via come gli uccelli quando sentono lo sparo. A quarant’anni non aveva ancora un lavoro fisso, o almeno un’occupazione dai contorni chiari e definiti e, men che meno, quel minimo senso di responsabilità e lealtà per non abbandonare la sua donna che, con un lavoro precario, ora doveva sopportare quel fardello senza l’aiuto di qualcuno. La madre s’era pure rivolta a quella trasmissione sul terzo canale, Chi l’ha visto? Ma niente da fare. Solo qualche telefonata del solito mitomane che cercava un po’ di notorietà.
La ragazza pensa che, se avesse avuto un padre, avrebbe potuto contare su un sostegno certo, appoggiarsi ad una spalla sicura, trovare conforto. Invece niente. Quel porco era scomparso e non esisteva più. Costretta adesso, come Carla diciannove anni prima, a cavarsela da sola. È già pervenuto un primo sollecito di pagamento, poi ne seguirà sicuramente un secondo. Teme che entro l’anno possa sopraggiungere lo sfratto esecutivo. Angosciata da questi pensieri, smette di guardare giù, anche perché quello spettacolo poco edificante le amplifica il malessere. Si volta e fissa la sua immagine nello specchio scheggiato che invoca da tempo uno straccio imbevuto di liquido detergente. Certo, è sempre una bella ragazza, e dire bella è pure riduttivo, ma i capelli sporchi, il viso affranto e una magrezza che comincia a divenire preoccupante, la fanno sembrare più vecchia di dieci anni.
Ahmed l’ha chiamata qualche giorno prima. È un palestinese di ventisette anni, pelle olivastra, naso a becco d’aquila e modi garbati. In Italia è approdato alcuni anni prima come rifugiato politico. All’ennesimo razzo dell’intifada lanciato contro Israele, i caccia con la stella di David hanno raso al suolo l’intero villaggio e nella strage è perita tutta la sua famiglia. Per tutto il mondo sono terroristi, ma loro credono di lottare per una giusta causa, per avere una patria come tutti gli altri popoli. Ahmed è mansueto e non serba rancore. Così era stato deciso da Allah e la volontà dell’Altissimo va sempre rispettata. L’unica cosa che non capisce è perché gli israeliani, pronipoti degli ebrei sterminati ad Auschwitz, usino la stessa violenza contro i vicini di casa.
- Betty, come stai?
- E come vuoi che stia, Ahmed? Uno schifo.
- Senti Betty…
- Dimmi.
- Io sono debitore a tua madre che mi faceva fare le ultime quattro ore al bar e mi dava duecentocinquanta euro. Sono riuscito a camparci per tre anni.
- Lo so e allora?
- Allora, io mi sono dato da fare per te.
- Cioè?
- Da un mese lavoro in un grosso negozio di frutta e verdura, cibo in scatola e coca-cola, quella roba là insomma. Tutto irregolare, non c’è licenza ma il capo, un egiziano furbo, ha dalla sua parte il vigile urbano. Ci lavoriamo in quattro, tutto il giorno. Scarichiamo le cassette, mettiamo a posto la merce, pesiamo, vendiamo e puliamo per terra senza mai riposarci. Adesso serve una quinta persona, gli affari vanno bene. Ho parlato a Mohammad di te. Settecento euro, in nero ovviamente. Il fatto è che sta dall’altra parte della città, zona Tuscolano vicino al raccordo anulare.
- E come ci arrivo Ahmed? Se il negozio chiuse alle sette, devo prendere tre se non quattro mezzi e rientrare alle dieci, per poi rialzarmi alle cinque. Che cazzo di vita è?
- Sono contento che non accetti, sorella.
- Sarebbe?
- Te l’ho proposto perché hai un disperato bisogno di soldi ma questa gente non mi piace. Tu sei bellissima e da sola in negozio con tre maschi, a parte me, è pericoloso.
- Se è per questo so difendermi, come sai. Per due volte un balordo ha tentato di violentarmi mentre rientravo di notte, ma una lama di dodici centimetri lo ha fatto scappare. Te lo sei scordato?
- Vedi sorella, quello era da solo. Qui se capita che manco io perché sto male o arrivo tardi, a quelli potrebbe saltare in testa di portarti nel retrobottega e farti la festa.
- E allora Ahmed perché me l’hai proposto?
- Ma che ne so? Betty, io ti voglio aiutare ma di meglio non ho trovato.
- Sei un tesoro, fratello, ma non accetto. Troppo lontano e, come dici tu, pericoloso.
- Come farai?
- Non lo so. Qualcosa mi inventerò.
- Ciao.
- A presto.
Adesso Betty, per l’anagrafe Elisabetta Forti, si sciacqua il viso e scende in strada. Indossa pantaloncini jeans e una T-shirt gialla senza reggiseno. Anche se dimagrita e triste, gli sguardi dei maschi le si appiccicano addosso. I grandi occhi verdi e le lunghe ciocche biondo miele non passano mai inosservati. Si rifugia nel bar che una volta era suo e che ora è gestito da una coppia di crotonesi. Nel portafoglio restano quarantatré euro, più che sufficienti per cappuccino e cornetto sino alla fine del mese.
Il calabrese, con i baffoni alla Stalin, le sorride di un sorriso intrigante, ben attento a non esagerare perché la moglie dalla cassa osserva la scena.
- Betty, stamattina offre la casa anche perché ti dobbiamo chiedere un favore.
Mentre Elisabetta divora il cornetto con la crema, il nuovo gestore le comunica che sua nipote verrà a lavorare a Roma. Ha bisogno di una stanza per i primi giorni, poi troverà una sistemazione più comoda vicino all’hotel Michelangelo dalle parti di San Pietro. Le hanno offerto un contratto di sei mesi come cameriera ai piani.
- Visto che la mamma non c’è più, io e mia moglie abbiamo pensato che potresti subaffittarle una stanza. Però più di duecento non ti può dare. Mio fratello è disoccupato pure lui.
A Elisabetta va il latte di traverso e quasi si strozza.
- Che botta di culo! Pensa.
Può andare avanti per un altro mese, un mese e mezzo, poi arriverà settembre e qualche occupazione, in un modo o nell’altro, dovrà pur trovarla.
- Va bene. Avvisatemi il giorno prima che do una ripulita alla stanza. Ciao Pietro, ciao Assunta.
- Stai su, eh! La rincuora la moglie del baffone.
Saluta ancora ed esce dal locale un pochino rinfrancata, attraversa lo stradone per passeggiare all’ombra e risponde ammiccando a coloro che la incontrano. Bene o male, lì si conoscono tutti. Condividono quella commistione di provvisorietà, disordine, speranze deluse, sporcizia e delinquenza.
Dopo pochi passi, individua da lontano una sagoma a lei purtroppo nota da tempo. Andatura spavalda, sguardo da duro, strafottenza e provocazione. Non rinuncia al giubbotto di pelle, pure se la temperatura già sfiora i trenta. Rasatura a zero, orecchino doppio, barba incolta e l’immancabile sigaretta: classico look da boss di quartiere. È troppo tardi per deviare dal percorso, dovrà affrontarlo ancora una volta. Lo teme ma si sente pure sicura di sé. Guardinga ma pronta alla sfida.
- Allora, c’hai ripensato alla proposta che t’ho fatto l’artro ieri?
- La mia risposta è ancora no.
- No eh? Scopi all’hotel Traiano in un ber posto ar centro de Roma, pe’ una come te i turisti milionari so’ disposti a paga’ pure mille euro a botta. Trentatré per cento a me, trentatré ar vicedirettore, trentatré pe’ te. Na ventina de incontri ar mese e fanno più de seimila euro, ce campi bene no?
- Sergio, devi anna’ a fanculo!
Il delinquente di Corviale fa il gesto di ammollarle uno schiaffo, ma lei mette prontamente la mano dentro la borsa a tracolla. Sa che sta mezza matta potrebbe tirare fuori il coltello a scatto e sfregiarlo, non ci metterebbe niente. Sta passando gente, deve abbozzare e poi s’avvicina pure una pattuglia della polizia municipale, porca puttana!
- Fa’ un po’ come cazzo te pare. Quanto poi resiste, un mese, due? Qui lavoro non se trova. Al limite vai in città a fa’ la commessa pe’ seicento euro in nero dalla mattina alla sera. Na vita de merda, te conviene? Se ce ripensi sai dove trovamme, stronza che nun sei altro!
Finalmente il malvivente fa dietrofront e si toglie dai piedi. È lui che, a soli ventuno anni, gestisce la piccola usura e lo spaccio di droga nella zona. È una specie di capo dei pusher, mantiene i contatti tra la grande distribuzione