Falaride e la terra del Mito
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Nella Sicilia arcaica dove gli intrighi di potere tra aristocratici e le guerre dilagano per la conquista dei territori, la città di Akragas è riuscita ad avere il controllo di quasi tutta l’isola meridionale.
Il suo tiranno, Falaride, un uomo spregiudicato, ha deciso di estendere il proprio dominio nelle terre sotto il controllo di Himera.
Ma per assoggettarle è necessario un piano che punti sull’astuzia invece che sull’uso delle armi, decisamente inutili considerati gli alti dirupi naturali di cui è munita la città.
Con questo intento Falaride invia in quelle terre, protette dalla dea Athena, il figlio Diofobo, un giovane abile sia nell’arte oratoria che con la spada.
È l’unico capace di incantare le platee con la virtù della parola.
Considerato il più accreditato alla successione al trono, deve riferire un’ambasciata del padre che difficilmente gli imeresi possono rifiutare.
Ad opporsi all’akragantino è il matematico Mamertino e il popolare poeta Stesicoro.
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Anteprima del libro
Falaride e la terra del Mito - Roberto Tedesco
Table of Contents
Himera, 28/29 giugno 554 a.C.
La porta degli uomini
Capitolo 1
Himera, 28 giugno 554 a.C.
La grande Montagna
Capitolo 2
Himera, 28 Giugno 554 a.C.
La battaglia del solstizio
Capitolo 3
Himera, 8 luglio 554 a.C.
La magia del gallo
Capitolo 4
Himera, 8 luglio 554 a.C.
Himera dagli alti dirupi
Capitolo 5
Himera, 8/9 luglio 554 a.C.
Il numero vitale
Capitolo 6
Himera, 9 luglio 554 a.C.
Il plenilunio
Capitolo 7
Himera, 9 luglio 554 a.C.
I Dioscuri
Capitolo 8
Himera, 9 luglio 554 a.C.
La profezia di Athena
Capitolo 9
Akragas, 9 luglio 554 a.C.
La macchina di bronzo
Capitolo 10
Akragas, 9/10 luglio 554 a.C.
Viaggio verso settentrione
Capitolo 11
Akragas, 10 luglio 554 a.C.
La grande opera
Capitolo 12
Akragas, 10 luglio 554 a.C.
Sotto il segno del Granchio
Capitolo 13
Akragas, 11/12 luglio 554 a.C.
La congiura
Capitolo 14
Kore, 10/11 luglio 554 a.C.
La terra degli dei
Capitolo 15
Himera, 10 luglio 554 a.C.
Giochi in onore agli dei
Capitolo 16
Akragas, VI sec. a.C.
La città più bella
Capitolo 17
Himera, 10 luglio 554 a.C.
La verità di Stesicoro
Capitolo 18
Himera, 10 luglio 554 a.C.
Oltre le tenebre
Capitolo 19
Himera, 11 luglio 554 a.C.
Nelle terre di Minosse e di Athena
Capitolo 20
Himera, 11 luglio 554 a.C.
Imprevedibili movimenti planetari
Capitolo 21
Himera, 11/12 luglio 554 a.C.
Il tiranno e il poeta
Capitolo 22
Himera, 12 luglio 554 a.C.
La città fortificata
Capitolo 23
Himera, 12 luglio 554 a.C.
La freccia di Eros
Capitolo 24
Himera, 12 luglio 554 a.C.
L’odore delle ginestre
Capitolo 25
Himera, 12 luglio 554 a.C.
Il piacere dell’amore
Capitolo 26
Akragas, 12 luglio 554 a.C.
La costellazione del Granchio
Capitolo 27
Akragas, 14 luglio 554 a.C.
Storie e leggende di Falaride
Capitolo 28
Akragas, 14-16 luglio 554 a.C.
Il nettare della morte
Capitolo 29
Himera, 12/13 luglio 554 a.C.
La forza della luna
Capitolo 30
Himera, 13 luglio 554 a.C.
Helene di Himera
Capitolo 31
Himera, 13 luglio 554 a.C.
La sfida
Capitolo 32
Himera, 13 luglio 554 a.C.
La lotta tra i giganti
Capitolo 33
Himera, 13 luglio 554 a.C.
Nel segno dell’amore
Capitolo 34
Himera, 14 luglio 554 a.C.
L’assemblea dei saggi
Capitolo 35
Himera, 14 luglio 554 a.C.
La favola
Capitolo 36
Himera, 14 luglio 554 a.C.
Quel maledetto racconto
Capitolo 37
Himera, 14 luglio 554 a.C.
La proposta
Capitolo 38
Himera, 15 luglio 554 a.C.
Selene s’impossessa del cerchio infuocato
Capitolo 39
Himera, 15 luglio 554 a.C.
Il ritorno di Ade
Capitolo 40
Akragas, 15 luglio 554 a.C.
Il dominio delle tenebre
Capitolo 41
Akragas 16 luglio 554 a.C.
L’ira di Falaride
Capitolo 42
Akragas 16/17 luglio 554 a.C.
La mattanza
Capitolo 43
Himera, 18 luglio 554 a.C.
L’esilio
Capitolo 44
Himera, 18 luglio 554 a.C.
Fuga verso un nuovo regno
Capitolo 45
Himera, 18 luglio 554 a.C.
Viaggio verso oriente
Capitolo 46
Akragas, 18 luglio 554 a.C.
La regina di Akragas
Capitolo 47
Akragas, 18 luglio 554 a.C.
Il banchetto
Capitolo 48
Katàne, 19 luglio 554 a.C.
Il canto riparatore
Capitolo 49
Katàne, 20 luglio del 554 a.C.
La palinodia
Capitolo 50
Akragas, 20 luglio 554 a.C.
Una nuova speranza
Capitolo 51
Akragas, 21 luglio 554 a.C.
Il volo della civetta
Capitolo 52
Akragas, 21 luglio 554 a.C.
Il duello
Capitolo 53
Akragas, 21 luglio 554 a.C.
Il vento dello Scirocco
Capitolo 54
Akragas, 21 luglio del 554 a.C.
L’amore eterno
Termini Imerese, oggi
Breve storia della città di Himera
Tisia di Himera detto Stesicoro
Falaride
La Sicilia greca del V secolo a.C.
Appendice
front.jpgFalaride e la terra del Mito
Intanto la luna,
dopo aver iniziato il suo impensato
viaggio nel firmamento,
si dispose dinanzi al sole
annerendo il mondo per un tempo
che apparve incommensurabile.
Poco dopo iniziò la sua calata
riconducendo ogni cosa al proprio posto
come sin dalla notte dei tempi.
Solo allora gli esseri viventi ripresero
la consueta regolarità della vita
dimenticandosi delle trepidazioni e dei terrori
che fino a poco tempo prima li avevano angosciati.
Tutti i disegni sono stati realizzati dall’autore, escluso quelli della copertina, del capitolo 9 e della quarta di copertina che sono di Concetto Parlascino.
Elenco dei personaggi principali
Agamennone, personaggio mitologico, capo supremo degli Achei;
* Anaconte, strategos militare di Akragas;
* Aniketos, oste della fattoria di Kore;
* Ateos, strategos militare di Himera;
* Arto, fedele servo di Falaride;
Athena, dea della sapienza e protettrice di Himera;
* Aphia, moglie dell’oste Aniketos;
* Cidippene, moglie di Stesicoro;
* Diofobo, figlio di Falaride tiranno di Akragas;
* Dione, capo del Ginnasio di Katàne;
Dioscuri, (Polluce e Castore) personaggi mitologici, fratelli della regina Elena;
Elena di Troia, personaggio mitologico, moglie di Menelao e amante di Paride;
Eracle, personaggio mitologico;
* Eulania, amica di Helene;
Falaride, tiranno di Akragas;
* Filcro, attendente di Ateos;
* Helene, figlia di Stesicoro;
* Isandro, figlio di Mamertino;
Lionato, fratello di Mamertino e Stesicoro;
Mamertino, fratello di Stesicoro e Lionato e matematico;
Menelao, personaggio mitologico, fratello minore di Agamennone marito di Elena;
Paride, personaggio mitologico, secondogenito di Priamo e amante di Elena;
Paurola, figlio di Falaride;
Petronio, astronomo imerese;
Perillo, scultore, costruttore del toro di bronzo di Falaride;
* Pisone, servo di Falaride;
Policleto da Zancle, medico personale di Falaride;
Stesicoro detto Tisia d’Imera, poeta arcaico e fratello di Lionato e Mamertino;
Telemaco, componente della scuola di formazione di Akragas;
* Telessio, capo della scuola di formazione di Akragas.
* Personaggio di fantasia
Prologo
Himera, 28/29 giugno 554 a.C.
La porta degli uomini
L’astro notturno brillava nel firmamento da qualche tempo, quando poco più di una ventina di militi si spostò a rilento in direzione della meta.
Fecero il possibile per nascondersi dai sorveglianti, piazzati sulla sommità delle possenti mura della città di Himera. Nell’oscurità i visi erano illuminati dai riflessi della luna, capaci di far risaltare la paura e nello stesso tempo l’audacia di ognuno. Si muovevano verso l’ingresso prestabilito con la massima prudenza perché il minimo errore avrebbe compromesso il risultato della missione.
Il varco da espugnare era quello prospiciente il porto canale. Da quella posizione gli imeresi controllavano la vallata e lo sbocco del fiume Grande.
Con gli armamenti in pugno gli aggressori riuscirono a superare rapidamente le fresche acque che in quei giorni potevano essere attraversate a piedi. Le movenze sembravano quelle dei coccodrilli quando scorgono la preda e si avvicinano senza farsi vedere.
In una mano stringevano un’arma tagliente, con l’altra si aiutavano a superare gli ostacoli, badando a nascondersi sotto il filo dell’acqua e poi, quando giunsero sulla riva opposta, strisciarono come serpi tra la fitta vegetazione sopra la roccia.
Raggiunta la sommità del promontorio, nel silenzio della notte, si fermarono a pochi passi dall’ingresso per aspettare il richiamo dei compari e quindi sferrare l’attacco risolutivo.
Dovevano rintanarsi tra le piante fino a quando altri combattenti, già all’interno, spalancassero il portone, dopo aver sgozzato le sentinelle. I barbari si erano abilmente intrufolati durante il giorno fingendo d’essere dei mercanti in cerca d’affari e riuscendo ad occultare le armi sotto le vesti.
Quel giorno fu semplice oltrepassare lo sbarramento. Si celebrava la ricorrenza della Luce e le misure di sicurezza non erano scrupolose, né per chi accedeva né tanto meno per chi lasciava il centro abitato.
Si commemorava il giorno più lungo di tutti, la solennità comunemente chiamata la porta degli uomini, perché rappresentava il passaggio dalla stagione fredda a quella calda. Erano giorni in cui la madre terra destinava i frutti migliori all’uomo, consentendo di manifestarsi nella sua magnificenza.
Si gioì per l’intero giorno, anche le sentinelle avevano alzato il gomito più del dovuto, abbandonandosi tra le braccia di Dioniso, quest’ultimo desideroso di accoglierli, attraverso le sensazioni di piacere più audace.
Quando la festa ebbe fine, quel drappello di soldati giunse silenziosamente a meno di una canna dalle ciclopiche pareti. Addirittura qualcuno si avvicinò al punto di lisciarle con le spalle lasciando traccia perché bagnati dalle acque del fiume.
Nell’immenso silenzio si riusciva ad ascoltare lo squittio delle civette e il palpito del cuore del compagno a fianco. Da lì a poco, le lame si sarebbero incrociate con quelle dei rivali e l’eccitazione si trasformava in un inevitabile odio sull’avversario.
La concentrazione raggiunse il massimo livello. Ecco perché il tempo appariva immobile come se anch’esso fosse in trepidazione.
Nell’attesa qualcuno ebbe il tempo di consegnarsi agli dei con implorazioni e giuramenti vari, altri si rincuoravano pensando ai propri familiari lasciati in Patria, speranzosi di rivederli al più presto.
Dovevano resistere quanto più possibile per mantenere il varco aperto, fintanto che l’esercito, appostato di là del fiume, lo avesse oltrepassato più speditamente possibile e iniziare la mattanza.
L’effetto sorpresa favoriva l’irruzione.
Da lì a poco le urla degli imeresi avrebbero dato l’allarme e lo scontro sarebbe diventato più violento e sanguinoso.
Ogni soldato aveva con sé due pugnali, essenziali per aggredire il rivale alla corta distanza mentre sulla schiena trasportava lo scudo tondeggiante, sul quale molti avevano raffigurato il primitivo simbolo della Triskele. Un segno adottato dagli avi sin dall’antichità: una testa di donna con degli aspidi sul capo al posto della capigliatura e dal cui centro si dipartivano tre gambe piegate all’altezza del ginocchio.
image1.pngIl simbolo del triskele
Erano i migliori e i più coraggiosi dell’armata. Buona parte di loro aveva acquisito un’esperienza allo scontro frontale senza precedenti. Ecco perché erano stati scelti per affrontare il nemico nelle prime fasi del combattimento.
Molti non avevano una famiglia da saziare e pertanto nulla da perdere: l’eventuale trapasso sarebbe stato sofferto dai parenti, forse quelli più stretti, che si sarebbero consolati con il gesto leggendario del congiunto.
Dalla loro parte avevano l’audacia che, in condizioni come queste, si mescolava con l’angoscia. Doveva essere una sensazione unica perché non era facile distinguere l’eccitazione dalla paura.
Ciò che stavano compiendo avrebbe mutato il destino dei sicani, ma anche quello dei siculi e degli elimi. Bisognava porre fine all’egemonia dei greci, considerati gli oppressori della Trinakria. La loro prepotenza ormai si consumava ogni giorno con la forza. Venuti nell’isola molti lustri addietro, scelsero di stanziarsi in quelle terre dove le spighe sono dello stesso colore dell’oro: immensi possedimenti che la dea Madre elargiva esclusivamente per i natii di queste terre. Ecco perché le valli non potevano essere calpestate dai greci.
Quando quel gruppetto di soldati si avvicinò alle mura, tra questi uno, forse tra i più giovani, aveva gli occhi serrati dalla paura. Il compagno posto alla sinistra si voltò verso di lui perché attirato dal rumore ritmato dei denti che battevano senza controllo.
«Come ti chiami, ragazzo?»
«Kirikos, sono figlio di Friddo.»
«Perché tremi?»
«Voglio vivere, sono troppo giovane per morire.»
«Se vuoi salvarti non oltrepassare quella porta,» tuonò in maniera paterna fissando l’ingresso.
In quel momento il suo nemico era la paura che non riusciva a dominare. Se avesse superato quel varco, avrebbe incontrato la morte ancor prima di sollevare l’arma tremante. Un altro, quello alla destra, gli sussurrò: «Se non entri, nessuno si rammenterà di te. Varca le mura di Himera e resterai nella storia per l’eternità.»
I due si guardarono senza dire una parola. Il giovane fece un profondo respiro, poi un altro e smise di tremare con la dentatura. Kirikos aspettò l’inevitabile istante per avviarsi alla conquista della città. Si convinse che il coraggio lo avrebbe fatto diventare un eroe.
A un tratto quella quiete fu spezzata dal frastuono della lama che tagliava le carni. Erano le sentinelle che cadevano a terra una dopo l’altra. I compagni all’interno delle mura erano riusciti a raggiungere il corpo di guardia. Tutti, compreso Kirikos, trattennero il fiato. L’adrenalina raggiunse il massimo e a breve si sarebbe scaricata sull’avversario. Poco dopo si udì il rumore dell’asse di legno, che serrava la porta, ruzzolare in terra e il cigolio delle ante che si spalancavano.
Gli invasori urlarono e con speditezza corsero dinanzi al passaggio, nella speranza che sopraggiungesse quanto prima l’esercito appostato al dì là del fiume. Il giovane Kirikos arrivò all’ingresso a velocità, ma non si accorse che un greco lo stava colpendo alle spalle. A fermare la lama del nemico fu il soldato che lo aveva invitato a non superare il varco. Con la spada bloccò il colpo dell’imerese, mentre con l’altra mano lo colpì al fianco, facendolo stramazzare a terra in un lancinante dolore.
«Figlio mio,» gridò nel tentativo di scuoterlo, «se vuoi rimanere in vita, non posso proteggerti un’altra volta. Combatti se vuoi ritornare in Patria.»
Aveva finito di dire quelle parole, quando l’avversario da terra con il ferro appuntito lo colpì passando da parte a parte il ventre. Kirikos ricominciò a tremare più di prima, mentre fissava i due compiere gli ultimi respiri della vita. Ebbe il tempo di indietreggiare di qualche passo quando fu infilzato da una lancia proveniente da chissà dove. Un intenso dolore oltrepassò l’anima facendogli mancare il respiro per sempre. Poi cadde in ginocchio a terra con le mani sull’arma nel vano tentativo di liberarsene. Poco dopo si adagiò in quella terra ormai diventata rossa.
Capitolo 1
Himera, 28 giugno 554 a.C.
La grande Montagna
Il giorno prima della battaglia
L’armata imerese era notoriamente tra le migliori della Trinakria, certamente non poteva competere con quella di Syrakousai ma avrebbe dato filo da torcere ai malintenzionati. Possedeva una macchina da guerra piuttosto variegata, utilizzata in funzione delle peculiarità del nemico.
La milizia era formata da giovani in grado d’entrare in azione nel giro di poco tempo. Si contavano mille opliti, compresi quelli del servizio di leva e altrettanti efebi, determinati con lance e scudi a tenere testa all’avversario.
Oltre alla fanteria pesante l’esercito si avvaleva di un centinaio di uomini a cavallo. Si trattava di un numero esiguo di patrioti ma che si faceva rispettare nei momenti difficili. Gli elementi di questo reparto erano tra i più benestanti perché, oltre alle armature, potevano affrontare i costi del mantenimento del purosangue.
La forza armata si componeva anche di cinquecento imeresi appartenenti alle classi sociali più sfortunate. Questi erano obbligati a difendere la libertà fino all’estremo sacrificio se fosse stato necessario. Se le circostanze lo avessero richiesto, avrebbero dato il supporto con armamenti artigianali ma comunque efficaci, quali gli scudi di legno rivestiti con pelli d’animali e i micidiali fromboli consistenti in due lacci legati a una sacca dove si introduceva una pietra da scaraventare sull’avversario.
Infine in caso di estrema minaccia si poteva contare sul supporto dei volontari, un considerevole gruppo di uomini e di donne in avanzata età pronti a offrire un’accoglienza non certo piacevole. Questi irriducibili avrebbero adoperato l’olio bollente o più semplicemente le pietre già affastellate in punti strategici del perimetro murario.
Al comando dei reparti c’era lo strategos, un omone con il fisico statuario e dal colorito olivastro. Il viso si contraddistingueva per due occhi enormi del colore della pece. Lo sguardo era talmente penetrante che il più temibile dei suoi uomini non avrebbe corso il rischio di contestarlo.
Ateos, così si chiamava l’abile condottiero, la maggior parte del tempo lo dedicava alla pianificazione bellica, prerogativa fondamentale per la difesa della comunità. Anche istruire gli uomini era uno dei compiti che adempiva con la massima dedizione. Ogni giorno, al calar del sole, riuniva un drappello nella spiaggia a pochi passi della foce del fiume Grande. Qui dove l’acqua dolce si scontrava con quella salata si simulavano i combattimenti.
Il tiro con l’arco era una specialità da non tralasciare, una di quelle prove che bisognava superare con gli occhi bendati. Non a caso quest’arma era la preferita di Ateos anche perché durante le perlustrazioni non tornava con la bisaccia vuota.
Cacciare nelle campagne limitrofe era il pretesto per effettuare i consueti controlli. L’area prediletta per i pattugliamenti, la grande Montagna, dominava l’intero golfo. Questo monte dai pendii scoscesi raggiungeva un’altezza da sfiorare le nuvole e nelle giornate di chiarore, dalla vetta, si riusciva a scrutare quasi tutta l’isola. Un imponente rilievo dalla forma di un vulcano che non aveva mai avuto nulla da spartire con il dio del fuoco.
Alle prime luci Ateos fece la consueta battuta di caccia con il fidato attendente Filcro, anch’egli un giovane milite della sua stessa età. Quel giorno la luce si sarebbe prolungata più che in tutti gli altri. Una circostanza che doveva essere notevolmente favorevole per l’arte venatoria in onore di Artemide.
I due esploratori giunsero sul lato della montagna meno ripido e si diressero verso occidente fino al vicino villaggio di Pietra, un piccolo centro abitato con un migliaio di barbari dalle abitudini primitive, non a caso bollati come puzzolenti a causa della scarsissima propensione a lavarsi. Il cattivo odore era così forte e nauseante al punto che nessuno aveva voglia di avvicinarsi quando chiedevano di entrare in città per barattare la cacciagione.
Molti lustri addietro questi rozzi abitatori avevano realizzato un grande muro ciclopico costituito da megalitici massi squadrati e incastrati l’uno accanto all’altro. Erano in molti a chiedersi come un popolo senza alcuna propensione culturale fosse riuscito nella costruzione dell’imponente muraglia. La struttura difensiva raggiungeva un’altezza di dieci canne e una larghezza di almeno due, un vero e proprio sbarramento per i malintenzionati. Aveva un piccolo varco laterale costantemente vigilato da uomini armati. Qualsiasi estraneo si fosse avvicinato di nascosto sarebbe stato colpito a morte prima di rendersene conto.
Durante la perlustrazione i due notarono un inquietante silenzio. Camminarono in direzione di un promontorio per avere una visuale migliore dell’abitato. Poi si spostarono di qualche stadio in direzione del versante nord orientale in modo da controllare il grande Dolmen. Ma anche qui non notarono alcun movimento. Questa struttura era una tomba sepolcrale composta da quattro massi ben conficcati nel terreno, che reggevano un altro grosso lastrone orizzontale. Quest’ultimo macigno, oltre ad avere la funzione di copertura, era utilizzato come altare per i riti sacrificali agli dei. Qui tutto sembrava disabitato, pareva che uno strano silenzio si fosse impossessato dell’intera vallata. Si trattava di una quiete per nulla rasserenante. Entrambi percepivano una sensazione lugubre, come se la morte avesse colpito gli abitanti simultaneamente facendoli sparire in un colpo di saetta. Non si udiva nemmeno il canto degli uccelli che in quella stagione avrebbero dovuto far sentire il cinguettio incessante. Soltanto uno strano canto di una civetta interruppe quel misterioso silenzio. I due si guardarono increduli per qualche istante: quel rapace notturno non doveva promettere niente di buono. Per impedire ogni eventuale seccatura non si avvicinarono più del dovuto e decisero di ritornare indietro. Inaspettatamente in quel giorno sacro anche per i barbari non ne incrociarono nemmeno uno.
«Ho la sensazione che nessuno abbia voglia di cacciare,» disse Filcro con l’aria angosciata mentre tentava di rallentare il cavallo con le briglie.
«Forse le donne non hanno più intenzione di cucinare per i loro mariti,» rispose Ateos, fingendo di non dare peso a quelle parole.
«Beh allora se fosse così, non avrebbero tutti i torti,» sogghignò l’attendente mentre con il labbro fece una smorfia di contrarietà celando qualche perplessità che cominciava ad