Istruzioni vocali
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Istruzioni vocali - Lorenzo Bastioli
Prefazione
L’uomo vive un’eccedenza rispetto alla sua costituzione biologica. Questa condizione di eccedenza è, per esempio, quella che si manifesta quando abbiamo bisogno di prendere appunti durante una conferenza. La nostra condizione biologica, la nostra memoria, non bastano per contenere l’esperienza che viviamo e abbiamo bisogno di alcuni artefatti tecnologici, la penna e il quaderno, per trattenere, esprimere e trasmettere quanto vissuto. L’uomo allora non si rapporta alla realtà in maniera meramente biologica bensì attraverso delle mediazioni offerte dagli artefatti tecnologici.
La tecnologia è il modo attraverso il quale l’uomo trattiene, incanala ed esprime la sua eccedenza rispetto alla sua condizione biologica. È grazie all’artefatto tecnologico se come specie siamo diventati un fenomeno globale. Infatti, stando a quanto osservano gli antropologi, la nostra specie si è spostata dall’Africa meridionale, la culla della nostra esistenza, colonizzando tutto il mondo. Abbiamo raggiunto ogni luogo in una maniera unica, dando mostra di quella che è una nostra unicità. Fino a quel momento ogni specie biologica abitava un clima particolare, il proprio habitat. In altri termini quello che in tutte le altre specie è fornito dal codice genetico per noi è mutato dall’artefatto tecnologico. Le capacità che hanno gli altri animali sono date loro attraverso competenze genetiche e possono cambiare solo se muta il loro dna. Noi no. Con la tecnologia noi cambiamo il mondo e noi stessi per abitare il mondo.
Se la condizione di eccedenza umana è rimasta invariata, la stessa cosa non si può dire dell’artefatto tecnologico. L’artefatto tecnologico non è più un mero utensile affidato, tramite il suo manicum, all’azione dell’uomo. L’artefatto non è nemmeno una macchina industriale che nel suo ripetitivo e definito operare trasforma il mondo obbedendo a logiche industriali, lasciando all’uomo il mero controllo del suo avvio e del suo arresto mediante leve e pulsanti.
L’artefatto tecnologico oggi si fa macchina sapiens, cioè dispositivo che imita parti di quelle capacità uniche che ci fanno umani. Cosa sta producendo questo cambio?
In primo luogo abbiamo imparato a vedere la realtà come un insieme di dati ma abbiamo anche imparato a metterli da parte e catalogarli: i big data, un potente strumento di indagine. Tre secoli fa con le lenti concave abbiamo realizzato il telescopio e il microscopio, imparando a vedere il mondo in modo diverso. Abbiamo reso visibile l’estremamente lontano e l’estremamente piccolo. Oggi con i dati abbiamo realizzato un nuovo strumento
il macroscopio. Con i big data noi riusciamo a vedere in maniera nuova e sorprendente l’estremamente complesso delle relazioni sociali individuando relazioni e connessioni dove prima non vedevamo nulla.
I big data sono dei database che raccolgono enormi quantità di diversi tipi d’informazioni che vanno dai testi all’audio, dai video alle immagini, dai like su Facebook alle transazioni monetarie, e che richiedono l’utilizzo di calcolatori estremamente potenti per riuscire a gestirli. Dalla straordinaria capacità di elaborazione di questa sterminata moltitudine di elementi in formato digitale, che l’umanità ha spontaneamente riversato online negli ultimi decenni, si possono estrapolare delle previsioni. Sempre di più, almeno nell’attività lavorativa, i dati sono diventati una meta sicura: i numeri non mentono, rispondono sempre e sono sempre disponibili. Per chi sa cosa domandare un database è l’interlocutore ideale. Ma oggi si può fare molto di più: i dati sono in grado di fornire risposte a domande che non siamo in grado di fare. È questo il risultato più innovativo di quella scienza nascente che si chiama big data, ovvero la capacità di raccogliere dati eterogenei e di individuare relazioni, collegamenti, connessioni inaspettate. Le aspettative sono elevatissime e molte aziende sono impegnate nella costruzione di questo grande oracolo personale. Per il momento soprattutto accumulano dati, tanto che le quantità di informazioni archiviate stanno crescendo a ritmi travolgenti. Si comincia già a parlare dell’era dei BrontoByte, un’unità di misura fino a qualche anno fa inimmaginabile, ma a cui già oggi si avvicinano alcune organizzazioni che da anni accumulano instancabilmente byte da ogni fonte. La vera sfida, però, è far parlare questo nuovo oracolo digitale, capire cosa ci dice.
Allora i dati diventano gli dei del XXI secolo.
Sono loro i vati e gli oracoli da interrogare per sapere i segreti che sono nascosti nel nostro futuro.
Tutto questo, come negli antichi templi pagani, richiede però un sacrificio. Quello che oggi ci è chiesto di sacrificare non è una vita animale o un essere umano ma la nostra privacy.
Allo sviluppo delle macchine, che abbiamo visto irrompere nel nostro oggi, corrisponde anche una nuova visione della vita: il pensiero post-umano. Il movimento post-umano prende lentamente forma a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Alcuni studiosi suggeriscono di guardare al 1982 come data in cui il movimento si inizia a costituire attorno ad alcune idee chiave. Il motivo di questa scelta è legato a un articolo pubblicato dal popolare settimanale Time
che, all’epoca, suscitò scalpore nell’opinione pubblica mostrando un mutamento ormai compiutosi nella società occidentale. Il Time
è un settimanale statunitense che dedica la prima copertina di ogni nuova annata alla persona più influente dell’anno appena trascorso. Al personaggio prescelto è attribuito il titolo di Man of the Year. Nel 1983 il settimanale nordamericano, proseguendo una tradizione lunga oltre cinquanta anni, indica così le qualità che contraddistinguono il vincitore del 1982: giovane, affidabile, silenzioso, pulito e intelligente. È bravo con i numeri e insegnerà o intratterrà i bambini senza un lamento.
Il Time
non si riferiva però a un essere umano ma a un computer: nell’editoriale che accompagnava la proclamazione del vincitore, Otto Friedrich fa notare che nonostante molti uomini avessero potuto essere eletti a rappresentare il 1982 nessuno era in grado di simbolizzare l’anno appena trascorso come un elaboratore elettronico. Seguendo le lettere di risposta dei lettori che seguirono la scelta del Time
ci sembra di poter indicare in questo evento un simbolo di quanto il post-umanesimo avrebbe proposto di lì a poco: Questa volta, l’umanità ha fallito nel lasciare un segno. Infatti, il riconoscimento di Uomo dell’anno non era più applicabile, così la copertina era decorata con un nuovo titolo: Macchina dell’anno. Al centro della pagina stava la macchina vittoriosa, con il suo schermo vivo con tutte le informazioni. Una scultura logora e senza vita di una figura umana che faceva da spettatore, con il suo epitaffio formato dalle quattro parole sotto il titolo principale: Il computer arriva
.
Veniva così sancita l’idea di un uomo in crisi, incapace di saper gestire le macchine che lui stesso aveva creato, destinato a essere confinato in un passato fatto di residui archeologici.
Il post-umano si configura, quindi, attorno all’idea centrale di un’umanità sconfitta dal suo stesso progresso. Le difficoltà e le trasformazioni che ha conosciuto l’Occidente industrializzato nel primo dopoguerra hanno fatto emergere una serie di dubbi sulle capacità dell’uomo di saper gestire la complessità tecnico-sociale che egli stesso andava producendo. Queste riflessioni sono state raccolte ed elaborate dai post-umanisti.
Il movimento post-umano parte dall’assunto che una trasformazione profonda nel vivere dell’uomo è già avvenuta e che il risultato di questa trasformazione genera un cambiamento nel suo modo di essere dando inizio all’era post-umana. Da questo punto di vista il movimento, pur nella sua eterogenesi e nella sua diversità, si differenzia dai numerosi altri movimenti, come ad esempio il Cyberpunk: chi si riconosce appartenente alla corrente post-umana non guarda al futuro possibile ma alla realtà presente, riconoscendo che un cambiamento radicale nel modo di essere uomini già c’è stato. Il compito che si attribuiscono gli appartenenti al post-umanesimo è, allora, quello di descrivere e analizzare la condizione post-umana.
Il post-umanesimo capisce se stesso e si descrive anche in relazione e contrasto con quello che viene definito umanesimo: da una prospettiva generata dalla recente filosofia continentale europea, l’umanesimo è visto non come un movimento progressista ma come una corrente reazionaria, in base al modo in cui si appella – positivamente, cioè facendovi ricorso come criterio fondativo – alla nozione di un nucleo di umanità o a una funzione essenziale comune nei termini della quale l’essere umano può essere definito e capito.
Quello che il movimento post-umano contesta in maniera decisa è l’esistenza di un’idea di umano e umanità che sia immutabile. La tecnologia, più che la scienza, ha, agli occhi dei post-umanisti, distrutto l’idea di una natura immutabile dell’uomo, rendendo evidente come l’essere umano sia un essere malleabile e capace di essere modificato a piacimento. È questo il punto che cambia la condizione umana in una condizione post-umana.
Oggi l’uomo deve fare i conti con quello che, agli occhi di uno studioso di storia della tecnologia come Ferkiss, nel 1969, sembrava un monito lontano: «la sintesi della tecnologia postmoderna e dell’uomo industriale produce una nuova civilizzazione, o può significare la fine della razza umana».
La condizione post-umana allora è il dover farsi carico di questa malleabilità che si riconosce come costitutiva dell’essere umano e che rappresenta la fine della condizione umana come è stata fin qui capita e conosciuta. L’era post-umana, per usare i termini di Robert Pepperell, è iniziata da quando l’uomo ha scoperto di star cambiando se stesso tramite la convergenza tra biologia e tecnologia così da non riuscire più a distinguere tra le due. La soluzione che propone il post-umano a questa difficoltà è il superamento della definizione di essere umano a favore di un nuovo ibrido che prende il nome di cyborg.
Questa trasformazione della nostra cultura viene paragonata a quella che conobbe il basso Medioevo, secondo un’analogia che circola da tempo nella cultura occidentale e di cui Umberto Eco si è fatto voce con Il nome della Rosa. Quello che risulta significativo di tale paragone è come la nostra epoca sia popolata di mostri come lo fu il basso Medioevo che vedeva realizzarsi un cambiamento altrettanto intenso e sconvolgente come quello che alcuni vedono in atto oggi.¹ Il cyborg è al centro di tutto questo processo culturale poiché:
a partire dagli anni Sessanta [...] il termine cyborg è passato nel linguaggio e nella cultura popolari. Invece di colonizzare le galassie, il cyborg ha conquistato lo spazio domestico, è diventato l’eroe e il cattivo di avventure di ogni tipo ambientate nel futuro, influenzando numerosi scienziati militari e civili, che hanno cominciato a plasmare un futuro postindustriale e transumano
².
Non è possibile leggere separatamente il panorama tecnologico e quello culturale, entrambi si influenzano e si determinano. In particolare il Novecento ha conosciuto il diffondersi di un genere letterario che ha raccolto tanto i fermenti culturali più sensibili all’evoluzione tecnologica, quanto le paure e i sogni che a questa erano legati: la fantascienza.
Tagliasco sostiene che a partire dagli anni Trenta, la fantascienza prende il posto della mitologia, della religione e della filosofia nel ruolo di trasmettere miti e sogni. Sarà solo la fantascienza ad assumere il compito, in maniera surrettizia, di mantenere in vita antichi sogni, immergendoli nell’attesa di nuove tecnologie
.³
Anche se le conclusioni di Tagliasco sul ruolo della fantascienza ci sembrano azzardate, rimane vero che la produzione fantascientifica conosce una produzione notevole e che è senz’altro possibile rintracciare nelle pagine della Sci-Fi le attese, i dubbi e le perplessità che legano l’uomo alla tecnologia.
A questo livello si colloca il valore e l’interesse del testo di Lorenzo Bastioli. Non ci troviamo solo davanti a un racconto ma a quello che potremmo definire un saggio archetipo sui timori e le speranze nei confronti della tecnologia di una generazione che è segnata dall’irrompere prepotente e pervasivo dell’universo digitale. Farsi cogliere dalle suggestioni narrative di questo romanzo è un modo per leggere una cultura non in maniera sistemica e analitica ma narrativa e sapienziale. Un viaggio in una parte profonda e inconscia del nostro vivere l’oggi.
Nel lasciare al lettore il compito di farsi guidare dalle pagine dell’autore nelle pieghe della complessità del nostro presente, ci sembra che l’auspicio migliore che si possa fare sia quello che Rilke faceva a un giovane poeta a lui contemporaneo:
"Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta".
(Rainer Maria Rilke da Lettera ad un giovane poeta)
Paolo Benanti
1 Cf. Caronia, A., Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale, 22.
2 Yehya, N., Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, 35.
3 Tagliasco, V., Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali, 19.
A Rosella e Renzo.
Zero
Il palazzo dell’Archivio Storico era maestoso, imponente come nessun altro e forse non era un caso, al suo interno infatti era custodita tutta la memoria storica del pianeta, certo, tutta tranne quella più intima, quella che le persone custodiscono gelosamente all’interno di se stesse, quella no.
Non c’erano finestre. Gigantesche colonne di marmo bianco sorreggevano il porticato anch’esso di marmo. La porta d’ingresso era in legno di ciliegio, oramai scolorita e segnata dal tempo e dalla noncuranza del custode, che preferiva giocare a carte al bar piuttosto che occuparsi di essa, e dire che non sarebbe stato un grande impegno, in effetti la porta era stranamente piccola, una persona di media statura avrebbe sicuramente dovuto piegare le ginocchia o inarcare un poco la schiena per entrarvi o uscirvi, forse l’architetto che l’aveva costruita temeva che qualche documento potesse di sua spontanea volontà uscire da lì e magari venir letto da chi in questi posti non entra, oppure, più semplicemente, aveva deciso di sfogare la frustrazione di una vita perché un qualche Dio si era preso gioco di lui, rendendolo sì di alto intelletto, ma non di alta statura.
Una volta all’interno risultava strano, quasi paradossale, l’assoluto silenzio di quel luogo, tutte quelle carte che a loro tempo avevano suscitato polemiche furiose, proteste, urla, sanguinose rivolte, ora erano lì, silenti.
La luce era bassissima, il minimo indispensabile per non inciampare su uno dei mille e più tappeti che coprivano il pavimento, o per non battere la testa sulle altissime librerie in ferro che ospitavano qualsiasi tipo di scartoffia.
Le persone erano vestite tutte uguali: scarpe marroni in cuoio sintetico, pantaloni blu e camicia grigia con bottoni neri di bassa fattura. Tutti erano a testa china e camminavano non si sa diretti verso dove. Un caos casuale e ipnotico regnava in quel luogo. Il silenzio dei suoni, l’anarchia dei movimenti e la forza della storia, questo era l’Archivio Storico.
L’unica persona che