Donne con le gonne lunghe
By Laila Cresta
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Narrativa - romanzo breve (94 pagine) - Un romanzo che è la storia di una dinastia di donne, a partire dall’ultimo quarto di ’800 fino alla metà degli anni ’50 del ‘900: la vita della matriarca, Irene, è il filo conduttore di tutte le altre. Donne che leggono, e non sono mai andate a scuola. Donne che amano profondamente, e sono profondamente oneste, a modo loro. In un mondo che sta cambiando.
Nell’ultimo quarto dell’800, prima di sposarsi, Irene lavora alla Rocca Sanvitale, di Fontanellato (Parma). Si appassiona alla storia per immagini che il Parmigianino ha affrescato in un ambiente dall’uso misterioso, e misterico. Poi la scena si sposta nei campi in cui la ragazza lavora con la famiglia, e dove il sarto del paese va a prenderle le misure per l’abito di nozze: con gli occhi, e da lontano.
Quando Irene scopre che il marito Eligio non può avere figli, è sollevata: nella sua famiglia, formata anche dai fratelli e dalle loro mogli, sono già morte tre ragazze, di parto. Quando muore allo stesso modo anche la sorella di Eligio, moglie di un fratello di Irene, in casa loro arriva la neonata Dirce. E poi, piano piano, arrivano anche tutti i nipotini, che sfuggono a una matrigna incapace, molto più che malvagia. Fra le tre nipotine di Irene ci sono la bellissima Erminia, la cui bellezza la porta anche a esperienze e a modi di vivere non proprio ortodossi; la dolcissima Zoella, travolta ma non distrutta dall’orrore della I Guerra Mondiale; la Dirce, con un figlio partigiano e uno prigioniero degli Inglesi.
Il mal sottile, la febbre puerperale, il cibo scarso e la fatica continua, non riescono a piegare queste donne. Zia Irene è offesa che non la lascino votare, ma porterà non solo le nipoti, ma anche i loro mariti, a condividere il suo modo di vedere il futuro del mondo.
Laila Cresta è nata a Chiavari, Genova, il 14 febbraio 1952. Insegna da 40 anni, con esperienze a vasto raggio, dagli adulti, ai ragazzi, alle persone diversamente abili. Ama la scrittura e vi si dedica da sempre, tanto con testi ad hoc per i “suoi ragazzi”, quanto con testi di svago per tutti. Ha pubblicato diversi romanzi e sillogi poetiche. Dal mitico numero 0, fa parte della redazione della rivista Writers Magazine Italia, dove si occupa di poesia, di haiku e di recensioni.
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Donne con le gonne lunghe - Laila Cresta
Tanto per chiarire (Prefazione)
La Bruna, come dicevano a Sestri Levante, era la mia mamma. È un’espressione considerata infantile ma, quando una mia compagna di scuola mi prese in giro perché dicevo la mia mamma e non mia madre, e dovevamo dare la maturità, le risposi che lei, poverina, aveva magari avuto una madre, ma io avevo una mamma! Lei tacque, ma abbassò la testa: nel suo sguardo c’era l’invidia.
La Bruna era una donna intelligentissima, con un saldo e sicuro senso etico. Come tutte le donne di casa sua, poi, era fatta per fare la mamma: anche, la mamma! Era una donna minuta, elegante, piena di grazia: mio padre ne era pazzo.
Durante la guerra, la Bruna aveva abitato a Fontanellato (Parma), dove la sua famiglia era sfollata: il suo Ettore andava a trovarla, da Sestri Levante, facendosi più di 150 km in bicicletta, altrettanti per tornare. Era un coppiano!
Bruna amava molto Funtanlè, e la conosceva bene: su di essa conosceva tutte le storie che ne raccontavano gli abitanti. L’incipit del romanzo è appunto costruito su quello che la gente diceva, tra l’Ottocento e il Novecento, sulla bellissima Stufetta della rocca Sanvitale.
La Bruna aveva il dono di saper raccontare: subito dopo la guerra aveva anche pubblicato qualche racconto su Noi Donne
, la rivista dell’UDI, Unione Donne Italiane. Aveva fatto solo la V elementare: la VI classe era già stata tolta da Mussolini. Non vi fidate mai di chi semplifica i percorsi didattici! Non si fa neanche con i disabili, ma questo sarebbe un altro discorso. Queste storie di famiglia me le raccontava lei, e a lei le avevano raccontate la sua mamma, nonna Dirce, e zia Irene. Spero di far parte di questa dinastia femminile, Irene, Dirce, Bruna, Laila, in modo non solo anagrafico e genetico: spero di saper raccontare, come loro.
In questa storia c’è la fine dell’800, con le prime luci elettriche e le prime auto, ma anche coi bambini che morivano di malnutrizione e di polio (niente vaccinazioni, in quegli anni), e ci sono anche le loro mamme, che le spazzava via la febbre puerperale o la tisi. C’è una famiglia di donne forti e libere, che sapevano amare. Ci sono i loro compagni, che si trovarono gettati nel triste orrore della I guerra mondiale. C’è il ‘900, coi suoi sogni di un mondo migliore, e con i suoi incubi di razzismo e di guerra. Ci sono i loro figli, vittime del fascismo e di un’altra guerra. Ci pensavo adesso: le mie nonne hanno visto partire per la guerra sia il marito che il figlio!
Soprattutto, poi, c’è la Zia Irene.
L’appellativo Zia era come facesse parte del suo nome, e tutta Sestri Levante (in cui si era trasferita dalla natìa Fontanellato) la chiamava Zia. La Zia Irene è stata la matriarca della mia famiglia, la zia e vicemadre di nonna Dirce, e poi la nonna dei suoi figli e dei suoi nipoti, come me: le persone che hanno la fortuna di invecchiare sane di mente e di corpo, e hanno intelligenza e senso etico, diventano leggende familiari.
Zia Irene e le sue nipoti sono state donne un po’ particolari: nella seconda metà dell’Ottocento sapevano leggere (e leggevano) senza mai essere andate a scuola; non accettarono mai, in nessun caso, l’immorale propaganda bellica; pensavano che non ci fosse niente di vergognoso nell’avere un bambino senza avere un marito (al massimo era da incoscienti, per le difficoltà che comportava essere l’unica persona al mondo a pensare a lui), ma che invece fosse inaccettabile abbandonarlo o trascurarlo.
L’800 della zia Irene non era quello ufficiale, era quello della gente che cominciava ad acquisire una coscienza sociale: suo marito votava per i Socialisti Unitari di Turati, lei naturalmente non votava ed era anche offesa da questa interdizione. Comunque, anche se aveva molta stima per la Kuliscioff, non avrebbe votato volentieri per Turati: era un posapiano, secondo lei!
Le sue nipoti erano donne molto oneste, ma la loro onestà non era quella del perbenismo borghese: erano oneste nei rapporti umani. Furono donne che amarono molto, e furono molto amate.
Questo libro ovviamente è per zia Irene, per nonna Dirce, per mamma Bruna, e per tutte le meravigliose donne che hanno fatto la storia della mia famiglia, ma anche per tutte quelle che, con loro e come loro, hanno contribuito all’evoluzione morale e sociale di questo nostro Paese.
Ancora una cosa: dovreste vedere la faccia dei bambini, quando sentono la storia di Lo scemo e suo zio. Sono affascinati. Per loro, le parolacce sono liberatorie, e lo sono ancora di più se chi le pronuncia è la maestra! Pensate che nell’ultimo ciclo ho dovuto fare un patto coi bambini: quella storia una volta sola l’anno, ma tutti gli anni! Naturalmente, sono parolacce che riguardano solo i prodotti meno nobili del corpo umano, parole che non si possono dire, come se la mamma non fosse tutta contenta, quando il bambino la fa! Mi spiace solo che, come tutte le fiabe popolari, per gustarsela bisognerebbe sentirla raccontare, non leggerla!
Un appunto: nel romanzo, generalmente i nomi di persona sono autentici, ma i cognomi no, per questioni che riguardano (possiamo dire) la privacy dei miei cugini.
Comunque, quello che ho voluto fare è stato proprio fermare sulla carta questa leggenda: la leggenda di zia Irene.
Buona e, spero, piacevole lettura.
Laila Cresta
Capitolo I – Irene
La Rocca misteriosa di Fontanellato, in quel di Parma, si erge, piacevolmente rilevata, in mezzo a un grande, bellissimo fossato di acqua risorgiva. Non tutti i castelli hanno conservato il fossato colmo: l’acqua dolce di questo, però, è di origine naturale, emersa spontaneamente nella piana alluvionale. Il nome stesso di questa cittadina nella campagna emiliana parla dell’acqua del castello: anche se, propriamente, il fontanile sarebbe un affioramento provocato dall’uomo, mentre la risorgiva è spontanea.
All'estremità meridionale della Rocca, i Conti avevano impiantato un giardino pensile che a Irene piaceva tanto. Si apriva verso l'esterno attraverso arcate ricavate nella muratura. Per i padroni del castello, era un luogo di pace e di amene passeggiate, in un piacevolissimo percorso fra alberi e fiori.
Fra tutte quelle del giardino, però, la pianta che a Irene piaceva di più non era un arbusto da fiore, ma un vero albero, davvero regale: il cosiddetto Spaccasassi, il Bagolaro.
In quella seconda metà di Ottocento, quel Bagolaro era già una pianta imponente: si vedeva spuntare dall’interno della Rocca, appena oltre la cinta di mura più esterna, vicino al fossato. Probabilmente spontaneo, il Bagolaro era alto una ventina di metri, e dal suo tronco liscio e dritto nasceva una grande chioma tondeggiante, ricchissima di foglie che avevano proprietà curative: la cuoca del castello le usava per preparare tisane, infusi e decotti per i problemi intestinali.
A Irene, quell’albero bellissimo e così utile piaceva davvero molto. Inoltre, durante le Feste di Natale, il Bagolaro della Rocca brillava di luci e di addobbi e, rispecchiandosi nel fossato, creava un’atmosfera da fiaba.
Che il cosiddetto albero di Natale fosse un Bagolaro come qui, oppure un grande ramo di alloro come a Genova, un ginepro come nel basso Piemonte, o l’abete rosso, secondo Irene non cambiava poi molto: un bell’albero ricco di fronde, decorato e illuminato, è sempre uno spettacolo che fa sorridere di piacere. Ovviamente, ricco di addobbi e di luminarie com’è, l’albero di Natale è sempre stato un oggetto da signori, ancor più se di dimensioni così grandi, ma quando Irene vedeva il Bagolaro rutilante di luci le pareva fosse anche un po’ suo: dopo tutto, ci volevano il suo lavoro e quello degli altri domestici perché i conti Sanvitale potessero vantarsi del loro magnifico albero!
Irene e altri servitori portavano all’aperto gli addobbi che, durante l’anno, erano conservati in un ripostiglio nel castello.
Due uomini appoggiavano una lunga scala al tronco, e la tenevano ferma, spostandola al momento opportuno lungo la circonferenza dell’albero, mentre un bambino si arrampicava su di essa e fra i rami, svelto come uno scoiattolo. A Irene, veramente, quello era un passaggio del lavoro che piaceva proprio poco: temeva sempre che il bambino potesse perdere la presa sulla scala e schiantarsi al suolo, parecchi metri più in basso.
Qualcuno dei domestici le aveva raccontato che una volta fosse davvero successa, quella cosa così triste, e le aveva descritto le condizioni del bambino, morto dopo una caduta di più di venti metri, con una sorta di compiacimento, come chi si faccia ascoltare per mettersi al centro dell’attenzione.
Quel bambino era stato, le avevano detto, il figlio dello stalliere. Dopo la disgrazia, il pover’uomo aveva lasciato il lavoro e si era messo a vagare fra i campi e i paesi dei dintorni, parlando a tutti del suo bellissimo bambino, così speciale, che era volato in cielo con quello del Conte. La gente lo conosceva, e cercava di convincerlo a mangiare qualcosa, a bere un bicchiere di Lambrusco, o a mettersi al riparo dal maltempo.
In cielo con quello del Conte, ripeté Irene fra sé, quando glielo raccontarono! Già: gli affreschi della Stufetta del castello avevano evidentemente colpito anche lui, come chiunque. Dopo la disgrazia, però, pareva