Abbiamo fatto nostro un pezzo di mondo
By Francesco Toma and Benedetta Pilato
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Book preview
Abbiamo fatto nostro un pezzo di mondo - Francesco Toma
Indice
Frontespizio
PREFAZIONE
PARTE PRIMA
1
2
3
4
5
6
7
PARTE SECONDA
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
frontespizioaltrimediawww.altrimediaedizioni.com
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Titolo dell’opera:
ABBIAMO FATTO NOSTRO
UN PEZZO DI MONDO
© 2021 Altrimedia Edizioni
ISBN: 9788869601361
© Altrimedia Edizioni è un marchio di
Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria
Prima edizione digitale: Gennaio 2022
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Alle menti brillanti
che ho incontrato in università.
Grazie per avermi accolto
nonostante i miei vuoti d’anima.
Un pezzo di mondo sarà vostro.
Vi voglio bene.
Ringrazio Lorenzo Laporta,
senza di lui niente di questo
sarebbe stato possibile.
PREFAZIONE
(…) Le cose andrebbero guardate da tutte le prospettive possibili prima di giudicarle, non credi? Perché a volte rischiamo di sacrificare la visuale che piace a noi a favore di un’altra che piace agli altri. In fondo siamo come dei poveri registi falliti della nostra vita. Cioè se non ci fosse qualcuno a dirci di cambiare inquadratura, avvicinarci o allontanarci, voltare le spalle, andare via, porgere la guancia o donare il profilo migliore, sbaglieremmo tutto senza accorgercene. È che a volte ci fermiamo sul lato più superficiale, e invece il nostro film non è solo quello sullo schermo, ma è fatto di tanti montaggi, di momenti che possiamo eliminare o valorizzare, di personaggi che si rivelano ciò che non sembrano o volti che potrebbero farci diventare ricchi e sfondare le sale. È tutto un caotico scontro tra chi partecipa soltanto e chi sceglie di restare fino alla fine. Nel nostro film chi va via fortifica e chi resta è un dono.
Ecco. Se dovessi scegliere un passaggio di Abbiamo fatto nostro un pezzo di mondo sceglierei questo. Senza se e senza ma.
Francesco Toma, che ho conosciuto negli anni nelle varie piscine pugliesi, è riuscito a cogliere ogni sfumatura della nostra generazione raccontando una storia autentica. Francesco analizza
i ventenni del Terzo Millennio lasciandosi andare alla poesia. Ed è originale e inconsueto seguire le emozioni al maschile
, la maggior parte di romanzi simili sono infatti narrati sempre dal punto di vista delle donne.
Ho apprezzato molto il suo stile diretto e soprattutto la semplicità con cui racconta alcuni lampi di vita quotidiana. Tra le righe si legge una ricerca di emozioni intense e la voglia di rappresentare tutti noi.
Se l’intento era quello di arrivare allo stomaco e al cuore della gente, credo che abbia fatto centro. Gli auguro di riuscirci. Leggete e lasciatevi traportare.
Benedetta Pilato
PARTE PRIMA
STUPIDO INVERNO
1
Di lunedì non avevo mai cominciato niente. Mi era sempre parso troppo rischioso dare inizio a nuove avventure in un giorno così orribile per tutti. La sveglia presto, i postumi della domenica, il weekend che torna a essere un miraggio, la sbornia post sabato sera ancora da recuperare e tutto un mucchio di altre cose che lo rendevano il peggior giorno della settimana in assoluto, mi avevano sempre portato a provare un forte senso di repulsione nei confronti di quelle sei lettere e di tutto ciò che comprendevano.
Durante l’inverno dello scorso anno, però, ed è di questo che vi parlerò, mi ritrovai costretto a cambiare idea.
Mi chiamo Lorenzo, ho vent’anni e mi sono innamorato solo una volta, di lunedì. Quella giornata, che potrei definire come un decisivo punto di svolta nella mia storia, cominciò come tutte le altre. Mi svegliai alle sette e trenta, mi diressi in bagno come una sorta di animale strisciante in cerca di prede e mi sciacquai il viso con acqua gelata, che avevo scoperto essere l’unico metodo efficace per sconfiggere la mia aspra repulsione nei confronti della mattina.
Andai in cucina, mi sedetti sul divano e l’orologio accanto alla finestra cominciò a mordermi il collo a causa del mio patologico essere in ritardo. Avevo lezione alle otto, così decisi di optare per qualcosa di rapido. Aprii la dispensa, afferrai la scatola di cereali, ma scoprii, con estremo dolore, che era vuota.
«LORENZO!» mi dissi. «QUANTE VOLTE TI HO DETTO DI AVVISARMI QUANDO I CEREALI FINISCONO? EH? PENSI DI ESSERE IN UN HOTEL?»
Da quando mi ero trasferito per l’università e vivevo da solo, mi cimentavo spesso in monologhi abbastanza plateali per tenermi compagnia. Purtroppo, però, i dirimpettai non erano contenti di assistere ai miei spettacoli e avevo già ricevuto un paio di rimproveri da parte del custode, così avevo ordinato su Amazon un set di pannelli fonoassorbenti e avevo insonorizzato le pareti del mio bilocale.
Riempii una tazza di latte, la mandai giù insieme al caffè della sera prima e mi precipitai verso l’armadio. Tirai fuori la camicia beige e i jeans e li indossai in un nanosecondo. Poi infilai la camicia nei pantaloni e con un balzo raggiunsi il bagno, lavai i denti con il mio dentifricio alla fragola (il preferito di mia mamma, per sentirmi a casa), indossai le mie stringate marroni e uscii di corsa. Arrivato al piano terra, come ogni mattina, mi resi conto che ero diretto in università e che per seguire le lezioni era necessario almeno uno zaino che io, prontamente, avevo dimenticato su. Presi le scale per non attendere l’ascensore, arrivai al quarto piano, infilai la chiave nella serratura, non entrava, era quella sbagliata, cambiai chiave, aprii la porta, afferrai lo zaino che era sul divano e mi tuffai letteralmente di nuovo verso le scale. Lasciai il mio condominio quando erano già le sette e cinquanta e, come ogni mattina, dovetti trasformarmi in una sorta di maratoneta per tentare di arrivare almeno non oltre i due zeri sul display.
Nonostante qualche strana repulsione nei confronti del lunedì le mie settimane erano quelle di un normale adolescente.
Andavo a lezione fino al venerdì, il giovedì avevo l’aperitivo e nel weekend finivo ubriaco tra le strade di Milano con Ema, Fabri e Matilde. Fabri era uno dei miei compagni di corso di quell’anno. In realtà il suo vero nome è Matteo. Fabri stava per Fa briciole
, perché aveva la brutta abitudine di mangiare i suoi panini senza alcun tovagliolo attorno. Dato il mio imbarazzante curriculum d’amore, che sotto alla voce Totale relazioni
aveva uno zero, Fabri mi ripeteva sempre: «Morirai da solo».
Non aveva tutti i torti, d’altronde non era così usuale contare zero storie d’amore a vent’anni. Il più grande problema di quella mia pessima attitudine a relazionarmi con le ragazze era il fatto che la mia voglia di cimentarmici era diminuita vertiginosamente con il passare degli anni. Mi sentivo tremendamente in ritardo rispetto a tutti gli altri e non sapevo nulla, nemmeno le regole di base, perciò ero completamente terrorizzato dal cominciare qualcosa di così estraneo e incomprensibile anche ai più veterani del settore. Fabri era fidanzato con Alessia, la ragazza del bar di fronte all’università. Nonostante avesse cinque anni più di noi, lui diceva che gli stava bene perché a letto era una bomba. Fabri, comunque, non era l’unico a farmi pesare il fatto che a vent’anni non avessi ancora avuto una ragazza, anche Ema me lo ripeteva spesso. Ema sta per Emanuele, ma anche per Eh ma
. SÌ, LO SO! È UN GRAN CASINO. Si era guadagnato quel soprannome perché ogni volta in cui la gente lo accusava di cambiare ragazze con la stessa frequenza con cui si cambiano le mutande, lui rispondeva con un Eh ma
diverso. Ema l’avevo conosciuto alle superiori. Aveva tre anni più di me e lavorava da McDonald’s in piazza Duomo, ed era anche un bel ragazzo. Non mi sorprendeva che biancheria e donne avessero lo stesso ciclo di ricambio per lui.
Poi c’era Mati, che sta per Matilde, e basta. Studentessa di Lettere e classica ragazza modello barra genio barra bella. Una persona stabile e composta, almeno con gli altri. Con noi si concedeva qualche attimo di evasione.
Mati era follemente innamorata di Ema, me lo aveva confidato dopo esserci conosciuti, ma lo nascondeva, perché a detta sua due persone dello stesso gruppo di amici non potevano stare insieme.
«E poi Ema non guarderebbe mai una come me» mi ripeteva in continuazione.
Nella mia storia non ero l’unico a odiare il lunedì: Fabri si era rotto il mignolo due volte mentre giocava a basket, ed erano entrambi lunedì; Mati aveva preso la sua prima bocciatura ed Ema aveva il turno fino a tardi. Non avevo mai saputo gestire quel problema, tanto che se avevo un impegno di lunedì tentavo in tutti i modi di rimandarlo.
Arrivai in università con un minuto d’anticipo e mi diressi verso la macchinetta al primo piano con la stessa foga che hanno le bollicine di una bottiglia di Coca-Cola dopo averla agitata. Vidi Fabri da lontano che stava sorseggiando con grande calma il suo tè. La sua chioma folta e nera era inconfondibile.
«Dai Fabri entriamo» dissi col fiatone. «È tardi.»
«Oh, ma che c’hai? Ti hanno preso nella nazionale di corsa e non mi hai detto nulla?»
«Una specie» risposi ridendo, ancora trafelato. «Vabbè dai, è tardi cazzo, quella di Diritto ci ammazza Fabri! Sbrigati!»
«Okay okay, ma stai calmo» disse mentre leccava il cucchiaino. «On time is late, ricordi?»
«Ma vaffanculo! Andiamo, dai.» Lo afferrai per il braccio e lo trascinai letteralmente verso l’aula. Andammo a sederci in fondo a destra, come sempre.
«Senti ma… Con On time is late
intendi che arrivare in orario è già di per sé un ritardo o che per essere in orario bisogna arrivare tardi? Cioè… Non capisco.»
«Ma che cazzo ne so scusa… Lo ripete sempre Otis in Sex education. Prendilo come ti fa comodo, no? Le cose andrebbero guardate da tutte le prospettive possibili prima di giudicarle, non credi? Perché a volte rischiamo di sacrificare la visuale che piace a noi a favore di un’altra che piace agli altri. In fondo siamo come dei poveri registi falliti della nostra vita. Cioè se non ci fosse qualcuno a dirci di cambiare inquadratura, avvicinarci o allontanarci, voltare le spalle, andare via, porgere la guancia o donare il profilo migliore, sbaglieremmo tutto senza accorgercene. È che a volte ci fermiamo sul lato più superficiale, e invece il nostro film non è solo quello sullo schermo, ma è fatto di tanti montaggi, di momenti che possiamo eliminare o valorizzare, di personaggi che si rivelano ciò che non sembrano o volti che potrebbero farci diventare ricchi e sfondare le sale. È tutto un caotico scontro tra chi partecipa soltanto e chi sceglie di restare fino alla fine. Nel nostro film chi va via fortifica e chi resta è un dono.»
«E da quando se diventato così profondo scusa?» dissi sorridendo.
«Guarda che tutto questo era per dirti che ti serve una ragazza, stronzo! Gli amici ce li hai già, ma serve un po’ di movimento. Altrimenti puoi anche dire addio a tutto ‘sto bel film che è la vita e diventare un semplice documentario sugli animali.»
«Un documentario?»
«Sì, un documentario sul clamidoforo troncato.»
«E cosa sarebbe?»
«Un armadillo del Sudamerica che non conosce nessuno. Ecco cosa diventerai: un armadillo del cazzo che non si fila nessuno. DEVI SVEGLIARTI LORE, HAI CAPITO?»
«Non urlare santo cielo! Questa già ci odia. Okay, ho capito, hai ragione, ma non è colpa mia. Ho paura, sono terrorizzato. Metti che conosco una ragazza, voglio proporle un appuntamento, dove? Dove si va in un appuntamento? Poi, devo passare a prenderla? Oppure darle un luogo d’incontro? Di cosa dovrei parlarle? E se sono poco interessante? Se si annoia? Cosa faccio? Per non parlare del rientro a casa. Devo riaccompagnarla? Devo chiederle di salire? Devo chiederle com’è stato? Proporle già un altro appuntamento o aspettare che lo faccia lei? Vedi? È troppo difficile. Non potrei farcela.»
Fabri mi guardò scoraggiato. «È peggio di quanto pensassi. Vabbè, ne riparleremo. Hai bisogno di un corso accelerato, al più presto!»
Le ore di lezione furono tre giri d’orologio in cui mi sforzai di tenere gli occhi aperti. Poi Fabri mi svegliò e andammo in mensa come ogni giorno. Ci sedemmo al solito posto, al tavolo per due in fondo alla sala lunga. Fabri si accorse di aver dimenticato di riempire la sua borraccia come ogni volta e si alzò per raggiungere il dispenser. Tornò da me, si sedette, fece qualche commento sulle ragazze del terzo anno accanto a noi e poi mi chiese: «Ma che c’aveva Mati l’altra sera?… Era una furia con Ema, cazzo».
Due giorni prima Emanuele e Matilde avevano avuto una discussione molto pesante perché Ema non smetteva di raccontarci delle sue avventure flash con le ragazze che incontrava a lavoro.
Se c’è una cosa che avevo imparato di me era quella di non essere bravo a mantenere i segreti, perciò tentai di divincolarmi immediatamente.
«Non lo so Fabri, non ne ho idea… Non chiedermelo.»
«Okaaay… Okaaay... Siamo un po’ agitati oggi? Cos’è? La mam- ma non ti ha ancora telefonato?»
«Ma smettila stronzo.» E sorrise.
Da quando Mati mi aveva parlato della sua cotta ero terrorizzato dal poterla tradire a causa della mia orribile inclinazione a condividere con gli altri quello che ascoltavo. Ero pessimo in quel tipo di cose. Ero il tipico non-mantenitore-di-segreti-perfetto.
Odiavo la mensa, era il posto più subdolo di tutta l’università. Veniva spacciata per luogo di incontri magici e ammalianti, ma in realtà era solo uno schifoso meccanismo di classificazione gerarchica. C’era una sala, ad esempio, quella più piccola e contornata interamente da finestre, che era occupata solo da ragazzi del terzo anno, e se provavi a entrarci rischiavi di essere etichettato a vita come un anarchico sfigato e senza alcuna speranza di sopravvivere tra i corridoi.
Fabri divorò la sua cotoletta, uscimmo fuori per fumare e poi tornammo in classe per la lezione di Inglese. In prima fila vidi Giovanni, un uomo di un metro e novanta per centoventi chili, ma col cuore di un bambino. Quando lo incontrai per la prima volta la mia reazione fu macchèglidannodamangiareaquesto, poi avevo scoperto che quel fisico imponente da rugbista era una corazza perfetta per quello che nascondeva dentro. Giovanni aveva una media della madonna, del tipo trenta punto qualcosa. Più di trenta, CAZZO! Non mi sorprendeva che fosse uno tra gli amici di infanzia di Matilde, sembrava che quelli così crescessero insieme. Gli amanti del gossip raccontano che all’inizio dell’anno avesse risposto con: «Mi dispiace, ma ho troppo da studiare» a un invito al cinema da parte di Arianna provaanonguardarmi Kimmel, una ragazza italoamericana del terzo anno, anche conosciuta come la più figa della scuola.
Non ero nessuno per giudicare, perché io un invito del genere non l’avevo mai ricevuto, o forse proprio per questo avrei potuto dirgli MA-CO-SA-HA-I-FATTO!
Evitai. Gli diedi una pacca sulla spalla e continuai con Fabri verso le retrovie.
A lezione di Inglese non seguivamo mai, la mia bassa soglia dell’attenzione